Paola Mastrocola è un’ex insegnante e scrittrice che da anni scrive sulla scuola e sul suo decadimento dovuto, secondo lei, alla cultura progressista che l’avrebbe resa luogo di ignoranza e di malintesa emancipazione. L’ha fatto anche nell’ultimo libro scritto in collaborazione con il marito, il sociologo Luca Ricolfi, il cui titolo è già tutto un programma: Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, Milano 2021 . E guarda caso il dito è soprattutto puntato sulla scuola dell’obbligo che sarebbe la principale responsabile della catastrofe. Proverò qui a confutare quella che ritengo un’analisi “di carta” che mi pare strizzi l’occhio soprattutto al mercato editoriale.
Mi pare che la professoressa Mastrocola continui ormai da troppo tempo a riscoprire di continuo l’acqua calda: che la scuola sia scaduta di livello lo sanno anche le pietre. Ma io le chiedo in tutta franchezza: che cosa non è scaduto di livello in questo nostro paese? Ed è tutta colpa della cultura progressista se questo è avvenuto?
Parlare della scuola prescindendo dai grandi cambiamenti avvenuti nella società italiana a partire dal secondo dopoguerra mi fa un po’ sorridere. Ci si dimentica il tumultuoso sviluppo industriale degli anni Sessanta, l’esodo dalle campagne per andare a fare l’operaio in città (o il tecnico, come il papà della scrittrice), la distruzione iconoclasta della multiculturalità italiana (Pasolini docet), il consumismo come nuova religione, la società dello spettacolo come malia per il processo di rimbambimento del popolo italiano, l’implosione della prima repubblica e la ripresa spregiudicata della seconda. Ebbene, io sostengo che la tanto vituperata scuola è forse l’unica istituzione che ha resistito in qualche modo a questa forza d’urto. E cercherò di spiegare il perché.
Innanzitutto anch’io vengo da una famiglia “povera”, in particolare contadina, e se io e tanti altri come me hanno potuto studiare è stato grazie alla cultura progressista che ha prodotto la riforma della scuola media del 1962[1]. Diversamente molti di noi, per ragioni di prospettiva economica delle famiglie, avrebbero frequentato l’avviamento professionale e si sarebbero preclusa la strada degli studi classici e scientifici per non dire poi dell’università. Personalmente, grazie alla riforma, ho vinto la mia lotta in casa per andare al liceo.
Ma è ovvio che la riforma, oltre a consentire di studiare a chi ne aveva le capacità e la volontà e prima non avrebbe potuto farlo, ha offerto a tutti la possibilità di continuare gli studi spesso senza avere il personale adeguatamente formato per rispondere a una scolarizzazione di massa. E questo ha prodotto inadeguatezza cognitiva nei nuovi formati che in molti casi sono diventati a loro volta formatori. Ed è inevitabile quando entra in scena la massa: qualsiasi cosa quando diventa di massa irrimediabilmente si diluisce e peggiora qualitativamente. Che si tratti di merce, di idee o di istituzioni. E la scuola è un’istituzione sensibile, la prima a risentire dei grandi mutamenti.
Ma perché allora sostengo che la scuola è forse l’unica istituzione che ha retto l’urto deflagrante della società di massa? Perché la scuola, nella società del consumo e dello spettacolo, è rimasta l’ultimo spazio di libertà in cui un lavoratore, in questo caso l’insegnante, è libero [2] di non adeguarsi
alla tendenza al ribasso della logica di mercato e allo svuotamento del valore formativo del suo ruolo. Perché se è pur vero che ci sono state frequentemente in questi ultimi anni delle pseudo riforme (a partire da quella di Berlinguer del 2000) che hanno prodotto facezie didattiche e dipendenza informatica, che cosa avviene veramente nella classe di una scuola media è una questione che riguarda l’insegnante che, se ritiene che la Grammatica sia ancora fondamentale per affrontare degli studi superiori e che la poesia e le sue figure retoriche non siano una nostalgica fissazione del suo ego professionale, le insegna in virtù di un libero programma e dipende soltanto da lui se i ragazzi si appassionano o meno alla proposta. E, se questa viene fatta adeguatamente, i ragazzi s’appassionano, perché, nonostante l’imbarbarimento dell’informazione che ricevono, il bello riesce ancora a far breccia in loro, non è vero che non sono più in grado di capire queste cose. E così, quando vanno al superiore, trovano magari degli insegnanti come la Mastrocola che si meravigliano e sono costretti a ricredersi, perché forse c’è ancora qualcuno che li prepara questi ragazzi, che li stimola alla cultura con la speranza che non sia proprio la scuola superiore a mortificarli (succede anche questo, professoressa Mastocola, l’ha mai preso in considerazione?). Scuola superiore che ne ha tante sue di magagne e “vende” spesso nel mercato dell’orientamento scolastico quello che non è e che non è in grado di fare.
C’è poi un altro aspetto della relazione sociale a cui la scuola ha dovuto resistere in questi anni: quello della relazione tra scuola e famiglia. I decreti delegati del 1974 avevano sancito l’entrata della famiglia nella scuola mediante i suoi delegati regolarmente eletti, ma chi aveva proposto quella riforma e il legislatore che l’aveva scritta non immaginavano certamente cosa sarebbe avvenuto in seno alle famiglie italiane e come la cultura populista della tv spazzatura e il malinteso dei diritti della persona (che prevedono infatti anche dei doveri) avrebbero suscitato in chiunque l’idea di poter proiettare sull’istituzione scuola le proprie idiosincrasie e i propri umori. Cosa che è poi avvenuta quando, esauritasi l’istanza della partecipazione democratica degli anni Settanta, a poco a poco i consigli di classe e di istituto sono diventati luoghi di rappresentanza personale più che collettiva. Ecco allora che tra presidenti di consiglio d’istituto che pensavano di dirigere il consiglio di amministrazione di una ditta privata e consiglieri che s’improvvisavano pedagoghi senza per altro preoccuparsi dei problemi scolastici effettivi dei propri figli ci si è trovati spesso in situazioni sgradevoli di ingerenza, non di partecipazione, da parte delle famiglie che hanno talora pensato di poter condizionare la vita della scuola secondo i loro punti di vista ideologici e personali. E questo mentre il modello educativo tradizionale delle famiglie stava naufragando sotto tutti gli aspetti, in particolare per quel che riguarda l’autocontrollo dei figli e il loro rispetto delle regole e degli insegnanti. Di conseguenza la scuola ha spesso dovuto surrogare anche l’assenza dell’indispensabile educazione familiare e magari nel contempo sentirsi contestata da quegli stessi genitori che erano incapaci di dare un’educazione ai propri figli. A un certo punto le famiglie, molte delle quali letteralmente esplose, sono diventate il primo problema all’ordine del giorno dei collegi docenti e il primo pericolo per la scuola nella lista nera dei dirigenti, il cui invito ai docenti era spesso di questo tenore: “Mi raccomando i rapporti con le famiglie, perché se succedono casini poi vi arrangiate”. Questa era la consegna di alcuni capi d’istituto che con grande senso di responsabilità del capo (oh, virtù omeriche desuete!) lasciavano nella “bratta” i loro sottoposti. A loro interessava soltanto, come alla maggior parte dei burocrati della pubblica amministrazione italiana, di pararsi innanzitutto i fondelli.
In questo clima di costante debolezza e contraddizione dell’istituzione scolastica per fortuna molti insegnanti sono andati al di là del limite della loro mansione professionale e si sono fatti carico della scuola davvero come una missione. Se qualcuno ha mai insegnato nei quartieri bronx di qualche città sa benissimo cosa intendo dire. Provino certi soloni a mettere in pratica strategie di insegnamento efficaci in realtà sociali in cui la scuola e lo studio sono all’ultimo gradino del gradimento sociale, a intervenire in questioni extrascolastiche perché nessuna struttura del sociale lo sta facendo, ad accollarsi ore di lavoro volontario e spese a proprio carico per favorire l’integrazione degli svantaggiati. La scuola della decadenza, professoressa Mastrocola, è stata anche tutto questo nel recente passato, ha tenuto a galla un’idea di scuola in un paese in disfacimento che ne parla spesso ma non muove un dito per migliorarla.
Un’ultima considerazione: nella sua casa non c’erano libri, lei dice, esattamente come nella mia. I primi libri ci sono entrati grazie a mio fratello che invece che mangiare a mensa saltava il pasto e con quei soldi comprava un libro, i tascabili Garzanti. Bene, forse è proprio questo che manca ai nostri giovani, e non per colpa della scuola, ma per quella materializzazione della vita che li ha privati dei principi propri dell’essere e ha messo al primo posto l’avere, possibilmente tutto e subito. Oggi, se molti non studiano, non è perché non hanno gli strumenti culturali per farlo, non stiamo a raccontarcela, ma perché lo studio non è più un valore così importante come era per noi e poi è fatica e loro non sono abituati alla fatica. Preferiscono tentare la fortuna delle selezioni per il Grande Fratello o per una delle tante X Factor in circolazione. Ma nello stesso tempo i pochi che studiano ancora veramente anche se raggiungono qualifiche di eccellenza spesso, perché non hanno la spinta giusta, sono costretti ad emigrare da questo nostro paese irrimediabilmente storto. Forse è di tutto questo che ci dobbiamo preoccupare, professoressa Mastrocola, e non dell’esercito delle cose inutili *.
Legge n. 1859 del 31 dicembre 1962
La libertà d’insegnamento è tutelata dal primo comma dell’art. 33 della Costituzione e, per quel che riguarda la scuola media, è ribadita nell’art. 6 del Decreto Ministeriale 9 febbraio 1979 – Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale
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“L’ esercito delle cose inutili” di Paola Mastrocola, Einaudi – Coralli, 2015