
Il lockdown della PSA
La Peste suina africana (PSA) è una malattia virale che colpisce suini e cinghiali. È altamente contagiosa e spesso letale … Continue reading Il lockdown della PSA
La Peste suina africana (PSA) è una malattia virale che colpisce suini e cinghiali. È altamente contagiosa e spesso letale … Continue reading Il lockdown della PSA
L’ambientalismo come approccio ideologico-politico alla natura del pianeta Terra viene spesso ritenuto, per mancanza di un’adeguata informazione storica, una particolare … Continue reading L’ambientalismo contadino
“Guardi, una bella vacca è quella che ha la testa piccola, e corna fini, la pelle del manto sottile e … Continue reading Il blues della Cabannina
Erano clienti genovesi. Glieli aveva mandati il macellaio, gli avevano chiesto dove potevano trovare del vino buono. “Andate da Menego, al Poggio, lui lo fa buono” gli aveva detto Gino, ce n’aveva già mandato tanti.
Avevano voluto vedere la cantina, sapere dove aveva le vigne, capire come lo faceva il vino. Lui, Menego, senza fare una piega aveva raccontato tutto per filo e per segno. Anzi, aveva presentato loro anche i suoi figli che lo aiutavano nella vigna e in cantina. La moglie no, lei era un po’ scontrosa, avrebbe finito per fargli perdere i clienti. Continue reading Il miracolo di Cana
La fiaba è il genere letterario popolare per eccellenza, sia come genesi sia come narrazione. Nasce dall’esigenza antica di ogni popolo di cambiare con l’immaginario la realtà, in genere amara e sofferta, dando vita a una sorta di mondo capovolto in cui il più debole trionfa, e lo fa riconosciuto simpaticamente da tutti, non perché s’impone con la forza. È l’unico genere in cui il bene trionfa in modo netto, inequivocabile, sul male, che non ha mai elementi di attrazione suadenti. La contrapposizione è secca, manichea, scevra da compromessi. È un’esigenza di chi, in modo altrettanto netto, è abituato a vedere invece trionfare il male, l’arbitrio, la prepotenza con consacrata normalità. Continue reading Fabulistica, affabulazione e immaginario dell’infanzia.
L’identità di un popolo è l’insieme delle caratteristiche culturali e delle tradizioni che un popolo avverte come proprie, tutto ciò che contraddistingue la sua storia e la sua vita su un determinato territorio. Tradizioni e caratteristiche che hanno l’impronta millenaria della cultura rurale che neppure la graduale liquidazione economico-sociale subita nelle varie fasi della rivoluzione industriale è riuscita a cancellare.
Non è, dunque, la Storia con la “S” maiuscola a determinare l’identità di un popolo e neppure il processo storico di formazione delle élite di potere, ma piuttosto il perdurare tra la gente, nonostante l’azione coercitiva da esse esercitata, di relazioni sociali che si rifanno al sistema del cosiddetto “comunitarismo” tribale. Continue reading L’identità della pace.
È finita, il paese che abbiamo vissuto non esiste più. Svanito nel giro di cinquant’anni: deserta la campagna, stravolto il paesaggio, mutata l’urbanistica e sparita la comunità. Irriconoscibile, da stropicciarsi gli occhi e chiedersi se è ancora lui. Ma sappiamo bene che non lo è più, lo sappiamo talmente bene che non riusciamo a scrollarci di dosso il disagio che proviamo, la malinconia che ci travolge. E non ci consola affatto sentir dire che è sempre stato così, che il tempo passa e le cose cambiano. Perché non è vero: il paese per secoli è cambiato, ma restando sempre se stesso, un paese contadino. Oggi è qualcos’altro, sicuramente non più un paese contadino perché, è un dato di fatto, la sua campagna è in pressoché totale abbandono. Ecco ciò che ha fatto la differenza: il paese ha cominciato a mutare e a morire quando la gente ha lasciato la terra. Continue reading La solitudine del paesano.
Lavorare stanca. Lo diceva anche Pavese, che aveva intitolato così la sua più celebre raccolta di poesie. Ma soprattutto lo sapevano bene coloro che facevano il lavoro vero, l’unico che avesse i crismi del sacrificio: quello del contadino. Poteva dire ciò che voleva chi gridava allo sfruttamento operaio, alla malabolgia della fabbrica: solo il contadino non aveva orari e quando i compagni operai passavano con la cravatta al collo lui era sempre là, ché c’era ancora “un uomo di sole”. Oh, che la cravatta qualche volta se la metteva anche lui, magari alla fiera o alla festa patronale, ma poi non la resisteva, abituato com’era alla “libertà” del lavoro pesante… Continue reading La lotta con il grande Leviatano.
Nel secondo dopoguerra i nostri paesi subirono un esodo massiccio di popolazione verso i centri urbani, in particolare Genova, alla ricerca di un lavoro garantito che qui era difficile trovare. Allora, oltre a quel bisogno contingente, sul fenomeno influì anche il fascino della città come luogo dove vivere, con tutte le sue comodità e opportunità: andare a vivere in città voleva dire emanciparsi, uscire da una sorta di condizione servile, come se fosse sempre valido il detto medioevale “L’aria della città rende liberi”. Del resto la maggior parte dei paesani che emigravano veniva da storie di mezzadria che era un istituto giuridico-economico ai limiti della condizione servile. Soltanto chi l’ha provata sa cosa vuol dire: dividere a metà il raccolto con il padrone del fondo, con il rischio di esseri buttati fuori dal podere in modo arbitrario (successe a mio nonno che, come ne “L’albero degli zoccoli” di Olmi, tagliò una pianta per fare appunto gli zoccoli a uno dei tanti figli; un vicino, anche lui mezzadro dello stesso proprietario, fece la spia, viva la solidarietà tra poveri!, e il padrone lo cacciò: dovette andarsene a San Martino, sc-tramigò a San Martin, la data fatidica per entrare e uscire dai poderi), è la condizione più umiliante che un uomo possa vivere… Continue reading Disurbamento e deruralizzazione