In ricordo di Emilio Casalini, “Cini”, comandante del 5º distaccamento della 3ª Brigata Garibaldi Liguria, fucilato a Voltaggio l’8 aprile 1944
I partigiani della Grilla
Al mattino si erano alzati con la brina, ma ora il sole era bello caldo e non c’era un alito di vento. Seduti fuori della cascina, i partigiani della Grilla erano tutti attorno a “Lanfranco” che con la chitarra stava suonando alcune canzoni di musica leggera in voga in quel momento. Lui in principio dava l’intonazione con la voce, poi gli altri entravano più o meno a tempo, qualcuno a squarciagola, qualcuno appena sussurrando, e ne veniva fuori un canto strascicato e un po’ gridato come quando si cantava all’osteria. Ma la melodia la conduceva “Freccia”, un portuale di Pegli che ci aveva una voce da tenore che faceva tremare i muri della casa. E se qualcuno andava fuori, gli dava delle occhiate di traverso e gli faceva segno di star zitto oppure di rallentare o accelerare a seconda del suo difetto.
Stavano cantando “Violino tzigano”, uno struggente tango di Cherubini, e alcuni cantavano e ballavano: chi faceva la femmina ancheggiava ostentatamente, appuntiva le labbra schioccando baci a destra e a sinistra e ogni tanto si ravviava i capelli come se avesse una folta criniera, mentre il cavaliere spingeva mascolinamente la sua gamba sotto l’inguine dell’altro e gli faceva scivolare le mani con malizia fino giù al fondoschiena tra le urla e le risate sguaiate di tutti i suoi compagni. Solo “Freccia” non si scomponeva e continuava con la sua voce poderosa a modulare, un po’ gigioneggiando, la melodia della canzone: “Suona solo per me, // o violino tzigano. // Forse pensi anche tu // a un amore, laggiù // sotto un cielo lontano. // Questo tango è d’amor, // ma il mio amore è lontano.” Qui fece una piccola pausa, come per prendere l’abbrivio finale, quindi pigiando ancor di più con la voce cantò gli ultimi tre versi con un’enfasi estatica: “Suona, suona per me // pur se piango per te, // oh violino tzigano” e “tzigano” diventò “tzigaaaaaaaaaaaaaanoooo!” con un acuto finale che pareva non finire mai. Quando terminò l’esecuzione ci fu un’esplosione di fischi e di battimani e alcuni gridavano scandendo “Frec-cia, Frec-cia” e lui si crogiolava soddisfatto della sua esibizione.
A quel punto “Lanfranco”, anziché proseguire con la lista dei ballabili, attaccò all’improvviso “Fischia il vento” e tutti, dopo un attimo di smarrimento per i postumi di quella sguaiata euforia, mutarono di colpo il loro atteggiamento e si unirono al canto con solerte intensità. Alcuni cantavano tutta la strofa, altri invece intervenivano soltanto nella ripetizione dei due versi finali rendendola un vero e proprio ruggito che ogni volta echeggiava per tutta la valle. Era la canzone delle Brigate Garibaldi, nata sui monti d’Imperia sull’aria della canzone popolare sovietica “Katijuša” che un reduce della campagna di Russia aveva fatto conoscere ai partigiani di lassù. Una canzone che stimolava a cantare, a unirsi in una sola voce, e che aveva un effetto esaltante su chi la cantava. Così come ce l’aveva invece deprimente sui nazisti e i fascisti che quando la sentivano cominciavano a rabbrividire. “Fischia il vento e infuria la bufera, // scarpe rotte e pur bisogna andar // a conquistare la rossa primavera // dove sorge il sol dell’avvenir //a conquistare la rossa primavera // dove sorge il sol dell’avvenir”. Cantavano rossi in viso, quasi paonazzi, come se ci volessero mettere tutta la loro rabbia e la loro energia in quell’esaltazione della lotta che avevano scelto di combattere. E neppure l’accenno alla possibile morte li intimoriva, certi che comunque qualcuno li avrebbe vendicati. “Se ci coglie la crudele morte, // dura vendetta verrà dal partigian; // ormai sicura è già la dura sorte // del fascista vile e traditor”. L’ultima strofa, poi, rallentava e si dipanava come un adagio e qui era ancora “Freccia” a dare il ritmo con il suo gesticolare eloquente. “Cessa il vento, calma è la bufera, // torna a casa il fiero partigian, // sventolando la rossa sua bandiera; // vittoriosi, al fin liberi siam!”. Finirono in crescendo, con la ripetizione dei due versi finali, e poi, appagati dalla veemenza del loro canto, rimasero ancora immersi per qualche istante nel pensiero di quel fine ideale, ma concreto, che quelle parole esprimevano.
Fu “Freccia” a rompere il ghiaccio: – Belin, non ce n’è come questa canzone: ti da una carica speciale, saresti pronto a spaccare il mondo dopo averla cantata… .
- È proprio il suo ritmo a fare questo effetto, il ritmo dei balli popolari russi – disse “Lanfranco” posando la chitarra. – A casa c’ho un disco di canzoni popolari russe e hanno tutte questa caratteristica: partono piano e poi accelerano con un crescendo sempre più intenso fino all’esplosione finale. E loro le ballano accucciati gettando avanti una gamba dopo l’altra. Bisogna essere allenati per farlo e, magari, anche un po’ bevuti…
- Ma anche le parole sono belle e stanno bene dentro la frase musicale – intervenne “Cini” – Le ha scritte Felice Cascione, “U megu”, un comandante partigiano ucciso sui monti d’Imperia dai tedeschi. Ora il distaccamento che lui comandava ha preso il suo nome e la canzone la cantano tutti da quelle parti… – e si fermò un istante. Poi, rivolgendosi a “Lanfranco”, continuò: – E se ce la facessimo anche noi una canzone? – . “Lanfranco” lo guardò perplesso. – Una canzone del nostro distaccamento, nata qui alla Grilla, tra di noi. Che racconti cosa vuol dire fare il partigiano e quali sono i nostri ideali –. L’altro continuava a tacere. – Tu sei bravo a suonare, cosa vuoi che ti ci voglia a trovare l’aria…
“Lanfranco” si passò una mano sul viso, sospirò, poi guardando “Cini”con una smorfia di provocazione disse: – Tu scrivi le parole, che alla musica ci penso io.
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“Cini”, seduto vicino al ceppo per battere le castagne, aveva passato tutta la mattina a scrivere sul suo quaderno nero con i fogli filettati di rosso. Scriveva e cancellava, e poi riscriveva, ripetendosi sottovoce le parole. E se qualcuno per caso si azzardava ad avvicinarsi, lo allontanava bruscamente con un eloquente “No, no, per favore!” e lo sguardo da spiritato.
I suoi compagni erano tutti radunati dall’altra parte dell’aia e indicandolo spesso ridevano e scherzavano e lo prendevano in giro.
- Ssst, fè silènsiu, u puéta u sc-ta sc-crivèndu…
- Belin, u ghè n’a propriu què, u l’è tütta a matinà ch’u l’è lì…
- Eh, bèn, sc-crive u nu l’è cumme cavà, ti ghè devi pensà primma de fâlu…
- E pöa magari nu tè réssce cumme ti vö e alùa ti devi sc-crivilu ’n’âtra ótta…
- Ah, mi preferissciu tajà de ciante che pià ’na pénna ’nte mann-e…
Intanto “Cini” continuava a lavorare. “Allora, le prime due strofe e il ritornello possono andare bene così… rileggiamole un attimo: Dalle belle città date al nemico // fuggimmo un dì su per ripide montagne // cercando libertà tra rupe e rupe // contro la schiavitù del suol tradito. // Lasciammo case, scuole ed officine, // mutammo in caserme le vecchie cascine, // armammo le mani di bombe e mitraglia, // temprammo i muscoli e i cuori in battaglia… Mm… forse è meglio che sostituisca quel “ripide” con qualcos’altro… perché se sono montagne sono di sicuro anche ripide… mi ci vuole un termine che indichi la difficoltà di viverci sulle montagne… che in genere sono poco ospitali… poco adatte ad essere coltivate… vediamo… aride! Ecco, potrei mettere aride… e metterci l’articolo davanti che faccia capire che tutte le montagne sono così, non soltanto queste… e che salire in montagna è il comune destino di tutti i partigiani… dunque verrebbe: fuggimmo un dì su per l’aride montagne… sì, credo che vada meglio così…
Passiamo ora al ritornello: Siamo i ribelli della montagna, // viviam di stenti e di patimenti, // ma quella fede che ci accompagna // sarà la legge dell’avvenir… sì, mi sembra efficace… e gli ultimi due versi li farei ripetere due volte… ci sono due parole come “fede” e “legge” molto importanti per noi partigiani… e forse l’espressione è anche un po’ enfatica, ma… del resto bisogna insistere sulla retorica dell’ideale se si vuole creare passione e attaccamento alla causa… direi che va bene così, dai…
Ci vogliono però ancora due strofe… nelle prime ho parlato del nostro insediamento in montagna e della nostra azione di lotta… ora, forse, sarebbe bene spiegare quali sono i principi che ci hanno spinto a venire quassù… e quali sono?… credo che la maggioranza dei compagni abbia fatto la scelta partigiana per ragioni di giustizia e di libertà… sì, giustizia e libertà, come il motto dei partigiani azionisti… ci vogliono dunque due versi che ne parlino… Vediamo come si può fare… la giustizia deve caratterizzare tutte le nostre azioni, se vogliamo davvero essere diversi dagli altri… deve essere per noi una disciplina irrinunciabile… ecco, sì, una disciplina… e il verso deve fondarsi su queste due parole: “giustizia” e “disciplina”… Proviamo a buttarlo giù… La nostra disciplina è la giustizia… noo, è troppo prosastico… proviamo a capovolgerlo… La giustizia è la nostra disciplina… mm, non va bene nemmeno così… perché non è che noi esercitiamo la giustizia come se fossimo dei giudici… è il nostro modo di comportarci che si conforma alla giustizia per cui… proviamo così: Di giustizia è la nostra disciplina… ecco, così mi piace… ora esprime senza equivoci che noi agiamo secondo giustizia…”.
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“Mi resta da esprimere la nostra idea di libertà… idea, sì… che non può essere soggettiva, personale… ma deve essere condivisa per essere realizzata… deve essere un’idea che avvicina gli uomini… avvicina… ma “avvicina” fa rima con “disciplina”… quindi… ecco!… Libertà è l’idea che ci avvicina… Di giustizia è la nostra disciplina, // libertà è l’idea che ci avvicina…
Ora penso che sarebbe bene concludere con un riferimento alla bandiera, la nostra bandiera di partigiani… siamo Brigate “Garibaldi”e la nostra bandiera è senza dubbio rossa… ma credo sia meglio non nominarla come bandiera rossa, ci connoterebbe troppo politicamente… sarebbe meglio riferire il rosso al sangue versato dai compagni caduti… in questo modo le parole chiave diventerebbero “bandiera”, “rosso” e “sangue”… e “rosso sangue” è una tipologia di rosso… un colore… il colore della bandiera… ma sì… Rosso sangue è il colore della bandiera… devo solo togliere la “e” finale di colore per fare l’endecasillabo… Rosso sangue è il color della bandiera… è fatta!
Ma bisogna anche che lo dica che questa è la bandiera dei partigiani… del resto non ho ancora usato una volta la parola “partigiano”… e credo proprio che ci voglia… devo fare anche qui un’anastrofe, come nei versi precedenti… Partigiano… la rima però è in – era, femminile… quindi Partigiana… Partigiana è… rima in – era… schiera! Sì… la nostra schiera!… Partigiana è la nostra schiera… ci vuole però un aggettivo da mettere vicino a schiera, per completare l’endecasillabo… che indichi una caratteristica della schiera partigiana… di due o tre sillabe, a seconda che inizi per vocale o per consonante… bella?… noo, troppo banale… eroica?… mm, devono dirlo gli altri se siamo degli eroi… ci vuole qualcosa che esprima il nostro desiderio di combattere… il nostro ardore… ecco, sì! ardente!… Partigiana è la nostra ardente schiera… toh, c’è anche l’allitterazione della “r”! Coraggio, Emilio, un ultimo sforzo, e poi ci avremo anche noi la nostra canzone…”
- Emilio! – gridò all’improvviso un partigiano che gli si era avvicinato.
Lui lo guardò un istante attonito, poi come una furia gli rispose: – Noo! Ho detto di starmi lontano!
- Ma il rancio è pronto! – lo incalzò l’altro.
- Non mi interessa, finché non ho finito non mi interessa! – ribatté lui furioso.
- Ma viene freddo… – insistette il compagno.
- Ho detto che non mi interessa, come te lo devo ripetere! – e lo disse in modo così perentorio che l’altro desistette sconsolato.
“Mangiare, loro pensano solo a mangiare… è l’unica loro preoccupazione… ma io non c’ho tempo da perdere, e finché non ho finito non mi muovo da qui… Dunque, vediamo di riprendere il filo… ho parlato di “giustizia”, di “libertà”, di “bandiera”, di “schiera partigiana”… ora bisogna che accenni al nostro sacrificio… al coraggio che abbiamo di attaccare il nemico proprio là dove si sente sicuro… giù nei paesi delle valli, nelle strade… e ci riusciamo, nonostante lui ci bracchi come selvaggina… ferocemente, senza pietà… Ecco, potrei mettere così: Nelle strade dal nemico… dominate?… noo, ci vuole qualcosa di più forte, che renda l’idea di quanto sia opprimente anche per le popolazioni la sua presenza… che faccia, insomma, capire che il suo è un vero e proprio assedio… “assedio” è la parola giusta… potrei, dunque, mettere “assediate”… Per le strade dal nemico assediate… sì, rende bene l’idea… del pericolo che corriamo costantemente… e del fatto che spesso ci lasciamo la pelle… Provo a rendere il concetto: Lasciammo… non posso certo dire “la pelle”… è un modo di dire metaforico che sublima un po’ troppo la realtà… meglio essere concreti, carnali… sì, potrei mettere “la carne”… anzi, “le carni”… dei vari corpi straziati… ma se lo sono i corpi lo sono anche le carni straziate… Lasciammo le carni straziate… mancano tre sillabe… Lasciammo… quando?… “spesso”… noo, due sillabe soltanto… “sempre”… noo, ancora due sillabe… e poi per fortuna talvolta dalle nostre azioni torniamo tutti sani e salvi… “talvolta” ho detto… perché talvolta succede anche l’opposto… direi dunque che “talvolta” va bene, ha le sillabe giuste e non è troppo pessimistico… Lasciammo talvolta le carni straziate…
Bene, Emilio, ancora un piccolo sforzo… gli ultimi due versi!… a questo punto penso che non mi resti altro che esprimere il nostro sentimento, ciò che proviamo a fare i partigiani… sentimento… meglio forse usare la parola come azione… sentire… “Sentimmo”… e cosa sentimmo?… che cosa si prova a fare i partigiani?… coraggio?… furore?… slancio?… ardore?… ho già usato “ardente” nella penultima strofa… ma “ardore” mi sembra anche qui il termine più appropriato… Dunque: Sentimmo l’ardore… e per cosa?… che cosa stiamo facendo con questa nostra lotta?… stiamo lottando contro la tirannia… contro la violenza… stiamo riscattando l’onore dell’Italia macchiato dalla guerra fascista… la nostra è… una riscossa… sì, una riscossa… la grande riscossa del bene contro il male… Sentimmo l’ardore per la grande riscossa… ecco il verso, va bene così… E poi?… Cosa sentimmo poi?… Per combattere ci vuole l’ardore, ma non basta… ci vuole anche qualcosa in cui credere… per cui sacrificarsi… qualcosa che si ama più di qualsiasi altra… E che cosa amiamo soprattutto noi partigiani?… la libertà… la giustizia… certo!… ma soprattutto il nostro paese, la nostra patria… quindi… Sentimmo l’amor… e qui devo mettere in fondo “nostra” per fare assonanza con “riscossa”… per la patria nostra… Ci siamo!… Sentimmo l’ardor per la grande riscossa, // sentimmo l’amor per la patria nostra…”
Neanche il tempo di finire quest’ultimo verso che “Cini” scattò in piedi come una molla e agitando per aria il quaderno corse a rotta di collo verso gli altri gridando come un ossesso: – L’ho finita, l’ho finita, se dio vuole l’ho finita!
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- Io imposterei la canzone come uno scherzo marciabile, musicando le strofe in modo minore e il ritornello in modo maggiore: gli darei, insomma, una struttura bipartita, creando uno stacco melodico e ritmico tra la parte narrativa, le strofe per l’appunto, e il ritornello, che deve avere una melodia particolarmente orecchiabile se vogliamo che sia facilmente ricordato. Quindi farei una marcia, ma con un carattere decisamente più brillante e armonico delle comuni marce militari che in genere sono un po’ troppo austere e cadenzate…
- Fammi capire, perché tutto questo è per me ostrogoto… anzi, prova ad accennarmi l’aria che forse per me è più semplice – disse “Cini” guardando “Lanfranco” un po’ perplesso.
- Beh, dovrebbe più o meno fare così – “Lanfranco” si mise a pizzicare le corde e a pigiare gli accordi sul manico della chitarra. – Attacco in La minore, – e cominciò anche a cantare – Dalle belle città date al nemico // fuggimmo un dì, Re minore, su per l’aride montagne, La minore, // cercando, Mi settima, libertà tra rupe e rupe, La minore, // Si settima, contro la schiavitù del suol tradito, Mi settima. E così anche per la seconda strofa.
- Bella, proprio bella – disse “Cini” sorpreso – Mi pare che tu abbia reso perfettamente lo spirito delle mie parole. Anzi, hai dato loro una forza che non mi aspettavo che avessero.
- Non sono io, Emilio, è la musica: anche un testo banale, se lo proponi con una melodia e un ritmo coinvolgenti, cambia completamente, e le sue parole non hanno più valore per il loro significato letterario, ma per quanto riescono ad amalgamarsi con la scrittura musicale. Se poi sono anche parole che esprimono concetti importanti come questi che hai scritto tu, allora il connubio è perfetto.
- Ti ringrazio, ci ho messo proprio l’anima per scrivere queste cose… mi sarebbe dispiaciuto che non fossero adeguate… Ma… fammi un po’ sentire anche la seconda strofa.
“Lanfranco” suonò e cantò tutto di filato anche la seconda strofa. “Cini” era raggiante, gli piaceva sentire le sue parole sussurrate dentro quella melodia.
- Ne sei sempre convinto? – disse “Lanfranco” quando smise di cantare.
- Sì, penso proprio che tu abbia fatto un buon lavoro. E ora che le hai suonate, mi sembra che non avrebbero potuto avere altra aria, come se le avessi sempre sentite così.
“Lanfranco” non riuscì a trattenere un sorriso di compiacimento. – Ora ti faccio sentire il ritornello, che è, come ti dicevo, la cosa più importante in una canzone L’ho musicato in modo maggiore, per marcare lo stacco con le strofe, e precisamente in La maggiore. Fa così… Siamo i ribelli della montagna, // viviam di stenti e di patimenti, Mi settima, ma quella fede che ci accompagna, La, sarà la legge, Mi settima, dell’avvenir, Re, e ripetuto una seconda volta, Mi settima, ma quella fede che ci accompagna, La, sarà la legge, Mi settima, dell’avvenir, Re.
“Lanfranco” stavolta, anziché canticchiare, aveva dato fiato alla voce e così il ritornello si era diffuso nell’aria attirando l’attenzione degli altri compagni. Che pian piano, uno alla volta o a piccoli gruppi, si erano radunati attorno al chitarrista e al poeta nonostante questi avessero chiesto di poter lavorare in santa pace.
- Proviamo a rifarla dall’inizio? – disse “Lanfranco” rivolto a “Cini” – Avvicinati, così la canti con me.
- La conosco a memoria, non ho bisogno di leggerla – rispose “Cini” – Ma magari sbaglio la tonalità… Canta tu, che ti vengo dietro.
“Lanfranco” attaccò la canzone e, dopo aver cantato la prima strofa, alla sua voce e a quella di “Cini” si aggiunse quella poderosa di “Freccia” che era stato tra i primi ad avvicinarsi. E, man mano che andavano avanti a cantare, si aggiungevano anche quelle di altri che avevano cominciato ad orecchiare la melodia. La ripeterono alcune volte, finché il canto diventò un grido uniforme che echeggiava giù per la valle.
- Ti u sènti cumme canten i partigièn sciü a’a Grilla? – disse Main della Piota a suo marito mentre stavano sbarazzando un fosso che toglieva l’acqua dalla strada della Cascinetta.
L’uomo si rizzò sulla pala che impugnava, la guardò un istante con un’espressione scettica e poi disse: – Sc-perémmu che possan esse sèmpre cuscì alêgri…
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La sentinella lo vide arrivare di corsa dalla strada di Pracaban e non ebbe neanche il tempo di intimargli l’alt che quello cominciò a urlare: – Arrivano i tedeschi! Dovete andare via! -. Allora lo lasciò avvicinare per capire che cosa stava succedendo e l’altro ansimando disse con un filo di voce: – C’è il rastrellamento… ci stanno accerchiando… dovete andarvene… subito… subito…
La sentinella corse dentro ad avvisare il comandante. Pochi secondi dopo “Cini” venne fuori seguito da “Lindo”, il commissario, e da tutti gli altri.
- Chi ti manda? – chiese “Cini” alla staffetta.
- “Ettore” in persona… ha avuto la notizia dai nostri giù del piano… dice che stanno preparando l’attacco…
- E per quando è previsto?
- Per domani mattina… ma “Ettore” pensa che arriveranno già stasera…
- E quali sono gli ordini?
- Sganciarsi a gruppi di tre, tentando di sfondare da qualche parte…
- Da qualche parte? Così, senza punti di riferimento?
- Questi sono gli ordini…
“Cini” tacque per alcuni istanti, mentre i suoi compagni cominciavano a rumoreggiare. – Per favore… – disse, come per intimare il silenzio. Poi: – Quindi non è prevista nessuna forma di resistenza…
- Pare che i tedeschi e i fascisti abbiano messo insieme più di duemila uomini… – un vocio allarmato si levò dal gruppo dei partigiani – … e tu capisci che…
- Certo, con le armi che abbiamo farebbero presto a spazzarci via.
“Cini” non chiese altro, ormai aveva chiara la situazione.
- Compagno, se ti basta ciò che ho detto, io me ne tornerei al comando – disse la staffetta.
- Vai, vai, e riferisci che eseguiremo gli ordini così come ci è stato richiesto.
L’uomo ripartì di corsa, seguito dagli occhi di tutti quanti.
- Ragazzi, – disse “Cini” con tono deciso – non c’è tempo da perdere: dobbiamo dividerci in piccoli gruppi e partire secondo gli ordini del comando. Ma dove andare lo dobbiamo decidere noi, e cercheremo di farlo in base alle nostre provenienze. Per cui io faccio le seguenti proposte: gli ovadesi vadano verso la Valle Stura cercando di raggiungere Olbicella dove ci sono già degli altri distaccamenti della nostra brigata; quelli della zona di Tagliolo, Lerma, Mornese e Parodi e della zona di Novi scendano lungo le valli del Piota e del Gorzente e cerchino di nascondersi nei loro paesi fino a quando non si saranno calmate le acque; quelli della Val Lemme, di Serravalle e di Arquata seguano la costiera del Tobbio e cerchino di raggiungere la Valle Scrivia per portarsi poi verso le valli dell’Antola, nella VI zona operativa; noi genovesi punteremo invece verso i piani di Praglia e, attraverso il monte Orditano, cercheremo di raggiungere la zona tra il monte Argentea e il bric del Dente dove era stato già previsto in passato un eventuale concentramento delle forze garibaldine.
Un’ultima cosa, ragazzi: fate in modo che in ogni gruppo ci sia almeno uno con un po’ di esperienza del territorio, in modo che non andiate proprio allo sbaraglio…
Immediatamente un mugugno si alzò qua e là dalla platea dei partigiani e, assumendo anche toni di diverbio, diventò man mano più intenso, come il rombo sordo di un incipiente temporale. Cominciava a serpeggiare la paura e ognuno ci aveva da fare le sue recriminazioni. Ma come, erano venuti in montagna per sentirsi al sicuro e ora, invece, così, su due piedi, dovevano arrangiarsi da soli per uscire da quella situazione? Ma allora che ci stavano a fare i capi se poi nei momenti cruciali si tiravano indietro?
- Ragazzi, – “Cini” riprese la parola aiutato dai suoi luogotenenti – non è il momento di discutere se gli ordini sono adeguati o no. Sono ordini e li dobbiamo rispettare. L’importante è partire di qua sapendo che cosa dobbiamo fare…
- Ma se non lo sanno nemmeno quelli del comando che cosa dobbiamo fare… – gridò un partigiano imbestialito.
- Noi dobbiamo saperlo! – gli rispose “Cini” con il piglio del comandante – Noi dobbiamo muoverci secondo il piano che abbiamo deciso… – e qui fece una pausa – e sperare che ci assista la fortuna… -. Poi, per evitare altre rimostranze: – Dai, non perdiamo altro tempo, andate a preparare gli zaini!
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Era convinto che li avrebbero mandati in Germania, l’interprete gli aveva detto così. Invece, improvvisamente il sabato mattina, appena dopo la sveglia, era arrivato un ufficiale che aveva chiamato quei dieci nomi, tra cui il suo e quello di “Freccia”. Subito “Cini” aveva pensato che volessero utilizzarli per qualche lavoro, ma quando li avevano avviati giù per la strada del cimitero aveva capito che li avrebbero fucilati.
Allineati lungo il muro che dava sul Lemme i partigiani attendevano ora angosciosamente la morte. Si sentivano gemiti e sussurri di preghiere, nominare mamme e fidanzate lontane. “Cini” e “Freccia” stavano vicini e cercavano di farsi coraggio l’un l’altro. Poi, a un certo punto, “Freccia” gli disse: – Comandante, visto che dobbiamo morire, cantiamo un’ultima volta la nostra canzone.
“Cini” non ci aveva pensato, anche lui aveva la mente ingombra di pensieri. Soprattutto lo sgomentava il dolore che avrebbero provato sua padre e suo madre. E poi c’era suo fratello, che era ancora un ragazzino e avrebbe dovuto reggere da solo tutto quello strazio.
Ma “Freccia” aveva ragione, ci voleva un’identità per non morire banalmente di fronte al nemico.
- Attacca! – gli disse.
“Freccia” partì deciso. “Dalle belle città date al nemico…”. “Cini” gli andò dietro.
Appena i due prigionieri cominciarono a cantare, i soldati del plotone di esecuzione si guardarono sconcertati, come se quella situazione incrinasse la loro disciplina guerriera. L’ufficiale che li guidava, gridando parole di isterico comando, si avvicinò ai due ribelli per farli tacere, ma visto che non la smettevano riprese la sua posizione e ordinò di fare fuoco.
“Freccia” fu colpito proprio mentre pronunciava la parola “libertà”, “Cini”, invece, riuscì ad arrivare fino a “suol tradito”. E quelle due parole, pronunciate nello spasimo della morte, sembravano un messaggio per tutti coloro che avrebbero ancora continuato a combattere.