Un giorno di tanti anni fa, ero appena un ragazzino di otto o nove anni, venne a Lerma, il mio paese, Mike Bongiorno, ospite di una famiglia di riccastri di origine paesana trapiantata a Milano. Il noto presentatore televisivo era nel momento più fulgido della sua carriera, un unicum per quei tempi con la TV che aveva ancora un canale solo. Quando si venne a sapere che sarebbe arrivato, ci fu un fermento insolito nel borgo e una folla di lermesi, che neanche alla festa patronale s’erano mai visti, si assiepò di fronte all’entrata della casa dei ricchi ospitanti, nella piazza principale del paese. E si erano tutti rigorosamente cambiati, indossando il vestito della festa.
Quando poi Mike arrivò scoppiò un vero e proprio delirio con la gente che gli si stringeva attorno per poterlo vedere meglio da vicino E qualcuno dopo si vantò che gli avesse fatto un sorriso, qualcun altro che passando l’avesse sfiorato, ma ci fu anche chi arrivò a dire che gli avesse rivolto la parola, smentito però da tutti gli altri come se la stesse dicendo troppo grossa. E se ne parlò per una settimana in paese e ognuno la raccontava a modo suo.
Era l’Italia degli anni Cinquanta quella, ancora arcaica e in prevalenza contadina, facile preda per quella “cassetta da api” (definizione che ne diede Toni Ballestrasse, negoziante da bestie) che era la televisione. Ce n’erano due allora in paese, una nel circolo del prete e l’altra nel bar della Menucciu, alias bar ristorante Italia. E quando c’era “Lascia o raddoppia?” bisognava arrivarci per tempo se si voleva trovare un posto a sedere, così come probabilmente succedeva in tante altre parti d’Italia.
Ebbene, se ripenso al presente, non solo di Lerma o di qualche altra realtà paesana, ma del nostro paese Italia nel suo insieme, mi pare che non sia cambiato niente da allora rispetto al culto degli italiani per la soubrette. Anche oggi, infatti, nonostante un po’ più di cultura (ma qui ci sarebbe da discutere quanta…), il popolo, e anche quello radical chic che pure non vuole essere popolo, insegue soltanto le soubrette della cultura, dello spettacolo e della politica, e non gli importa di quello che dicono o fanno, ma semplicemente di partecipare agli eventi e di poterli poi raccontare, così come i miei amati compaesani con l’immarcescibile Mike. E se poi la TV s’è inghiottita il “popolino e l’ha usato per penose trasmissioni nazionalpopolari che mettono a nudo (io dico alla berlina) i sentimenti più intimi delle persone, il contingente emancipato dei radical chic, invece, s’è distinto dalla massa comprando i libri degli autori più gettonati del momento – diventati ormai più soggetti mediatici che scrittori – ostentandone anche il possesso, va al Salone del Libro come si va all’Oktober Fest facendosi un selfie con qualche autore – anche magari con uno di cui non ha mai letto niente, ma che se è lì sarà ben famoso, no? -, non sa o fa finta di non sapere che le case editrici, indipendentemente dal livello della loro proposta culturale, se pagano ci possono andare tutte al Salone; e così fa sui territori se un’associazione o un’amministrazione locale organizza la presentazione del libro di un autore di successo, magari senza che nessuno degli organizzatori l’abbia letto, ma dai, è un autore di successo, vuoi mica che abbia scritto delle bischerate… E loro, i radical chic o aspiranti tali, accorrono gioiosi, come se scendesse la manna dal cielo. Come fece un mio amico a proposito di un autore torinese che va per la maggiore, anche in televisione, che doveva presentare un libro nella nostra zona: mi disse, con un afflato degno di miglior causa, che sperava vivamente di essere invitato dagli organizzatori alla cena con l’autore, perché così l’avrebbe potuto godere da vicino e forse gli avrebbe anche sorriso come alcuni miei compaesani dicevano che avesse fatto Mike.
Ma la stessa cosa vale per il teatro e per tutti quegli appassionati “intenditori” che non si perdono la performance del nome del momento, che qualunque cosa sia l’ha fatta lui ed è dunque una garanzia.
E la usano nelle loro discussioni e ti chiedono se l’hai vista e se tu rispondi di no ti guardano con sufficienza. Eh, sì, perché come si può discutere con qualcuno che non ha visto lo spettacolo del tal nome o non è andato almeno qualche volta in quel tal teatro? Come si fa, infatti, a gareggiare a colpi di presenze e di patacche acquisite se uno non ha lo stesso stoico e pervicace percorso/pellegrinaggio in tutte le prime di quel regista e di quell’attore? “Sai, gli ho parlato” ti dicono ammiccando e qualcuno si spinge fino a dirti “Siamo amici”. E poi ti spiegano il messaggio che c’era dietro, perché in fondo, se volessero, potrebbero anche fare i critici di professione.
Il campo, però, dove si sprigiona all’ennesima potenza il culto della soubrette degli italiani è la politica. A partire da Mussolini fino ad arrivare a Berlusconi ciò che è contato per la maggioranza degli italiani non sono state la cultura e la capacità politica dei vari personaggi, ma il fascino da “operetta” che emanava da ogni loro comportamento. Anzi, il loro disprezzo per la cultura è diventato un motivo di forte immedesimazione identitaria da parte sia di ricchi ignoranti sia del “popolino” che della cultura è sempre stato diffidente. E così smargiassate, colpi di teatro, sfacciataggine e volgarità sono diventate un trend irresistibile, un facile elemento di immedesimazione tra queste soubrette e i loro sostenitori. Con un superamento di tutte le categorie morali, magari rivendicate come simulacri (si pensi alla famiglia), ma poi sistematicamente e platealmente disattese nell’agire quotidiano.
Ma anche i radical chic non sono immuni da questi comportamenti. Anch’essi hanno i loro periodici campioni, che ogni volta sembra che siano coloro che cambieranno il mondo, leader straordinari per cultura e capacità politica, quelli che hanno una marcia in più degli altri. E ne diventano la corte, e qualsiasi cosa questi leader facciano viene avvolta da un alone di leggenda. Si pensi a quando Nichi Vendola sembrava il profeta della sinistra radicale o quando più recentemente Matteo Renzi quello del PD e del centrosinistra. Accomunati entrambi dallo stesso flop, quello delle parole che non corrispondono mai ai fatti. Ma allora, nelle diverse aree della loro appartenenza, se qualcuno provava a fare un’analisi critica dei personaggi e delle loro idee veniva tacciato per l’appunto di criticismo confondendo il termine con la critica tout court. Che poi i fatti abbiano dato ragione a chi analizzava criticamente le loro proposte è stato presto dimenticato, perché gli orfani della soubrette avevano bisogno di trovarne subito un’altra che non li costringesse finalmente a pensare. E quanto più la sua proposta era irrazionale, magari uno slogan ripetuto e battagliero, ma senza fondamento, tanto era più facile l’adesione di questi partigiani da salotto sempre pronti a fare il salto della quaglia.
A tutto questo, a creare l’interesse verso l’immagine della persona e non per i contenuti politici di cui essa è portatrice, ha contribuito la folle idea di qualche angloamericanofilo di importare nel nostro paese il sistema maggioritario alla maniera statunitense. E così anche da noi, a partire dagli inizi della seconda repubblica, abbiamo cominciato a vedere enormi faccioni appiccicati sugli spazi elettorali come se fossero prodotti pubblicitari. Magari con qualche slogan accattivante scritto accanto, senza uno straccio di programma politico che quel figuro avrebbe poi portato avanti. La proposta era quella, il suo faccione ritoccato adeguatamente per essere più ammaliante. Ma per molti, nonostante i miracoli del fotoritocco, il risultato era discutibile e poteva suscitare anche forme di rigetto. Mi accadde personalmente durante una tornata elettorale regionale nella quale erano in lizza due candidati presidenti, uno del centrosinistra e l’altro del centrodestra, le cui proposte amministrative non mi soddisfacevano entrambe. Ero deciso di astenermi dal voto per il presidente quando un giorno, ad una svolta in una via periferica di una cittadina del mio territorio, mi apparve l’enorme faccione di uno di loro spiaccicato sul muro di una casa. Immediatamente scattò dentro di me un istinto lombrosiano e mi dissi che uno con una faccia così non poteva che fare guai. Valutazione di pancia, irrazionale, che però mi convinse a votare l’altro candidato.
Il faccione vinse le elezioni anche senza il mio voto, ma la mia sensazione semplicistica si rivelò purtroppo profetica e lui è passato alla Storia come il peggior presidente che abbia avuto la mia regione (si comprò con i soldi della Regione anche un paio di mutande verdi!) e tale valutazione era ed è tutt’oggi condivisa da entrambi gli opposti schieramenti.
Ma per venire alla cronaca di questi giorni, penso alla candidatura del “generale” Vannacci capolista nella Lega o a quella forse di Sgarbi in FdI. Candidature acchiappavoti come al mercato delle vacche, al di là della più elementare decenza. Per non dire dell’idea ingannevole e scellerata di candidarsi come capolista alle europee delle segretarie di FdI (oltretutto anche capo del governo) e del PD. E la prima s’è spinta addirittura oltre: intende mettere sulla scheda Giorgia Meloni detta Giorgia, con l’invito agli elettori di indicarla solo con il nome di battesimo, Giorgia. Al di là del fatto se ciò sia giuridicamente lecito o meno, è questa l’ennesima strategia elettorale populistica o siamo di fronte a un’incipiente megalomania?
È davvero difficile oggi fare politica – quella nobile, che era negli intenti dei padri e delle madri costituenti – in un paese come il nostro che interpreta lo schierarsi a favore di un’idea come il tifo per una squadra di calcio. La scelta di campo raramente è ideale, per lo più è interessata come convenienza socioeconomica di lungo periodo o addirittura come interesse immediato di possibilità di carriera. Pochi sono coloro che si pongono il concetto in visione prospettica, in base ai benefici collettivi che possono scaturire da un certo modo di governare la cosa pubblica. Prevale in genere la demonizzazione di tutto ciò che fa l’opposto schieramento, non c’è mai la condivisione seria, oggettiva, di certe scelte che riguardano l’uguaglianza dei cittadini, tutti, così come la prescrive la nostra Costituzione. E qui si tocca un altro punto dolente: ma quanti sono i politici che siedono sugli scranni dei due rami del Parlamento che conoscono a fondo la nostra Costituzione? E quanti i cittadini, nonostante nelle scuole viga l’obbligo di leggerla e di studiarla? È la legge fondamentale dello Stato, è la nostra garanzia democratica, ma molti – sempre di più – si dimostrano insofferenti dei suoi vincoli e vorrebbero cambiarla secondo la loro convenienza o addirittura eluderla con manovre causidiche da azzeccagarbugli da una parte e dall’altra dello schieramento politico. E alla fine della favola torna in ballo quel desiderio subalterno degli italiani di affidarsi a qualche uomo del destino che renda legge se stesso e li faccia sognare l’impossibile prima di riportarli – come la cronaca di una morte annunciata – un’altra volta alla tragedia.