Seneca, filosofo romano, quando si ritirò dalla scena politica (era stato precettore e tutore di Nerone) si dedicò ad indagare l’animo umano e il rapporto tra etica ed estetica, che trattò soprattutto nell’opera Lettere morali a Lucilio,[1] un suo allievo di origine campana che fu poi vittima come lui della repressione neroniana successiva alla scoperta della congiura di Pisone, di cui il filosofo fu ingiustamente accusato di essere uno degli ispiratori.
La mia riflessione di oggi parte proprio da una delle sue lettere a Lucilio, la numero 114 della raccolta.
“ … La ragione è quella stessa che senti proclamare da tutte le parti; essa è nel motto… presso i Greci: “Tale il parlare degli uomini quale la loro vita”. Ora… capita che il linguaggio di un’epoca sia lo specchio dei costumi, quando un popolo ha perso ogni ritegno… E’ un indice di corruzione il linguaggio affettato quando… è generalmente accettato e gradito. Non è possibile che nell’intelletto non si riflettano le caratteristiche dell’anima. Se questa è sana, educata, austera, temperante, anche l’intelletto è vigoroso e sobrio. Se l’anima è viziata, trasmette il suo contagio anche all’intelletto…”.
Queste parole di Seneca a Lucilio sembrano adattarsi perfettamente a ciò che stiamo vivendo nella contemporaneità: alla corruzione dei costumi ha corrisposto un impoverimento quantitativo e qualitativo del linguaggio, vilipeso e urlato con fare berciante anche in quelli che erano i luoghi deputati dell’eloquenza come la politica. Quelle che infatti un tempo erano virtù, tipo la sobrietà e la discrezione, oggi sono diventate oggetto di scherno e, viceversa, vizi prima considerati umanamente indegni, tipo la volgarità e l’inganno, sono oggi sinonimo di capacità e di intraprendenza. E così in politica la chiacchiera da bar ha sostituito i ragionamenti dialettici, appropriati e competenti, con un rischio grave per la nostra fragile democrazia che di buon senso e di certezza del linguaggio avrebbe assoluto bisogno. Sentire poi semplificare il concetto di democrazia da uno dei più autorevoli chiacchieroni dello scenario politico nazionale nella formula “uno vale uno” non può che far rabbrividire. Il famoso popolo che lui e tanti altri si vantano di rappresentare viene ridotto a numero, indipendentemente dalle sue caratteristiche personali, per cui non importa più se uno è un cretino, un ignorante e perfino un delinquente, vale lo stesso uno e come tale ha diritto non solo di essere rappresentato – siamo in democrazia, ci mancherebbe! – ma anche di rappresentare eventualmente gli altri pur non avendone le qualità e le competenze. E io, che non ho mai condiviso la frase di Lenin “Ogni cuoca sarà in grado di governare uno stato”, credo che per svolgere un ruolo complesso e delicato come quello del politico ci voglia, oltre a un’etica irreprensibile, una preparazione adeguata sia sul piano del linguaggio che della conoscenza dei contenuti. Ma se invece gente sempre più dozzinale e scadente arriva a sedersi negli scranni del Parlamento è ovvio che ci sia poi bisogno ogni tanto del nume tutelare competente per rimettere a posto le cose come è già accaduto nel recente passato e come sta accadendo anche adesso.
Forse, tirando in ballo Aristotele, per riqualificare la politica sarebbe opportuno introdurre quel correttivo alla democrazia che lui proponeva nella sua “Politeia” e cioè uno sbarramento culturale che impedisca al becerismo e all’incultura di bivaccare nei due rami del Parlamento. Chi va a sedersi su quegli scranni e a decidere per il popolo deve avere delle competenze di base minimali di cultura generale, di politica e di economia che gli consentano di fare decentemente il suo lavoro. Basta con la volgarità di certi siparietti da avanspettacolo o da talk show, lì si deve andare a lavorare seriamente per gli italiani sapendo che cosa si sta facendo e non soltanto battendo le mani o rumoreggiando al richiamo del capobastone.
C’è poi l’aspetto delle prebende che ricevono questi signori, che li ha visti fare fronte comune bipartisan contro le richieste di riduzione degli emolumenti portate avanti da alcuni parlamentari neofiti che si sono poi, però, anche loro adeguati all’andazzo generale. E così, di concerto con la burocrazia ministeriale, tutti si affannano a salvaguardare i propri privilegi e appena si parla di riduzione delle indennità parlamentari tirano fuori i cavilli giuridici più impensati, come quel dirigente del Tesoro che disse che era troppo difficile ricalcolarle per cui era meglio lasciare tutto come stava.
Eppure, nonostante si bagnino il becco superbamente, ogni tanto qualcuno di loro finisce nelle maglie della giustizia per malversazioni o frequentazioni improprie e magari si stupisce che lo si voglia perseguire e indica nell’avviso di garanzia una minaccia alla libertà del fare politica. Per non dire di colui che nella seconda repubblica ha promosso come primo atto del suo governo la depenalizzazione del falso in bilancio (e tralascio il resto!) che oggi viene riscoperto persino dagli oppositori come statista di vaglio e possibile candidato alla presidenza dello Stato. Sembra proprio che molti di questi parlamentari per giustificare sé stessi si aggrappino a modelli improponibili e scadenti, certamente più vicini alla loro condizione, piuttosto che fare riferimento ad altri modelli più prestigiosi come i padri e le madri della nostra Costituzione repubblicana che evidenzierebbero troppo i loro limiti. Il risultato è il piccolo cabotaggio parlamentare, con la conseguente paralisi delle istituzioni e il sopravvivere della legislatura più per fini di vitalizio che per autentica passione politica e voglia di fare.
Ed è su questo scenario di pochezza e di farsa, tra una coalizione gialloverde a un’altra giallorossa, che si è abbattuta nel 2020 la crisi del Covid. Minimizzata da tutti agli inizi, ha poi man mano registrato nel suo dilagare doppi e tripli salti mortali da parte di esperti che hanno giocato a chi sbagliava di più. Ma la sindrome dell’apparire è stata più forte delle figuracce e costoro hanno continuato imperterriti ad andare in televisione scannandosi tra di loro dall’alto dei loro fortilizi. Nessuno di loro è stato davvero in trincea. E dico trincea, perché con l’aggravarsi della situazione e il trasformarsi dell’epidemia in pandemia si è cominciato a paragonarla a una guerra contro un nemico subdolo e sgusciante, contro il quale bisognava dunque agire compatti come in una guerra. E così ci sono stati gli eroi, in particolare medici e infermieri costretti ad operare, come nelle guerre di italiana memoria, con mezzi inadeguati per sé e per i pazienti, sono state promulgate leggi speciali di emergenza (gli innumerevoli DDL), è stata limitata la libertà personale, sono state introdotte norme comportamentali specifiche, dall’uso della mascherina al distanziamento sociale. Ma la gente non ha più la Memoria della guerra per cui tutte queste misure restrittive hanno suscitato fin dall’inizio malcontento in molti settori dell’opinione pubblica che le hanno interpretate come i segnali di un preciso disegno politico atto a ridurre al di là della pandemia gli spazi di libertà e di democrazia. E qualcuno ha cominciato a tirare fuori un refrain che è risuonato spesso nei momenti di crisi della Storia e a gridare al complotto da parte di fantomatici poteri occulti, ci mancava solo che rivenisse fuori la storia dei protocolli dei savi di Sion e poi ci sarebbe stato proprio tutto.
L’hanno fatto soprattutto quei maître à penser che nel loro curricolo individuale vantano adesioni a idee autoritarie di destra o di sinistra e che la parola libertà non sanno proprio che cosa sia. E con loro anche i nostalgici dell’Italia sovrana e imperiale e di quelle guerre patrie in cui il popolo – feticcio a cui loro si richiamano serialmente – è stato per davvero mandato al macello in modo illiberale da parte di politici e comandanti che se ne stavano al sicuro nelle loro dimore, nei loro “letti di lana”, come cantavano i fanti in “Oh, Gorizia!”.
Ebbene, costoro, di fronte alle decine di migliaia di morti – soprattutto tra i più deboli (ma loro sono cultori dei forti!) – come in una campagna di guerra, al momento di affrontarla con le uniche armi possibili, quelle della medicina, pur sperimentali e dense di incognite, si sono tirati indietro, hanno rifiutato di combattere. E quell’unità patriottica che hanno magari spesso sbandierato in altre circostanze l’hanno rinnegata, riscoprendosi tutt’a un tratto dissenzienti, ribelli, antistato. E facendo questo hanno lasciato i loro fratelli, che morivano e muoiono quotidianamente per Covid, da soli, soggetti alla legge inesorabile della selezione naturale che la scienza, con i vaccini, ha cercato di arginare. Senza rendersi conto che anche in questa guerra è ancora soprattutto il popolo a pagare, perché “lorsignori”, se la guerra fosse anche nucleare, troverebbero comunque il modo per salvare la pelle.
È un fronte composito quello dei no vax, con due grandi componenti: coloro che si oppongono per ragioni medico farmacologiche, aggregato attorno ai no vax storici contrari a ogni forma di vaccinazione; coloro che non accettano ideologicamente le imposizioni governative richiamandosi in vario modo al concetto di libertà, dall’assolutismo libertario alle garanzie costituzionali. E se ai primi riconosco il diritto di non vaccinarsi, ma non quello di opporsi all’uso della mascherina (che purtroppo, se non si porrà limite alle emissioni, tra qualche anno sarà la nostra inevitabile dotazione volontaria), agli altri, che sono ben più numerosi, dico che la vaccinazione è una conquista democratica dei popoli del Nord del mondo – di cui purtroppo potranno godere solo limitatamente quelli poveri del Sud – ed è l’unico modo che abbiamo attualmente per uscire da questa pandemia. A meno che non si voglia ripetere l’esperienza della Spagnola – che fece circa 600.000 vittime in Italia tra il 1918 e il 1920, tante quanto i soldati italiani morti in guerra – durante la quale a differenza del Covid furono i giovani tra i 20 e i 40 anni ad ammalarsi anziché gli anziani (pare perché in buona parte immunizzati dalla pandemia influenzale del 1889-1890), ma furono soprattutto i poveri a morire sia per ragioni igieniche personali e ambientali sia per carenze alimentari. Se allora ci fosse stato un vaccino, non credo che molti avrebbero rifiutato di farlo e non si sarebbe giunti alla spaventosa cifra di 50 milioni di morti su un totale di 500 milioni di contagiati in tutto il mondo.
Insisto: noi poveri della società opulenta non abbiamo altra scelta per sopravvivere a questa contingenza epidemica che fare il vaccino. Lo dobbiamo anche a tutti coloro che invece sono morti. Poi, una volta terminata l’emergenza, occorrerà riflettere sulle ripercussioni sociali che la pandemia ha avuto nel nostro paese. Ci renderemo conto che, come in tutte le crisi, i poveri sono diventati sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. A quel punto, se non vogliamo che questa terribile esperienza resti soltanto dolore, dobbiamo impegnarci perché si metta fine ai veri complotti dei poteri nemmeno tanto occulti che da anni ci straziano come popolo: gli interessi della finanza o del capitalismo corsaro che hanno messo in ginocchio buona parte del nostro settore produttivo industriale (amici no vax, andate qualche volta a solidarizzare con gli operai delle fabbriche che lo sblocco dei licenziamenti ha lasciato senza lavoro, forse vi chiarireste un po’ le idee); la privatizzazione della sanità portata avanti da governi di diverso colore che l’ha resa impreparata e spesso impotente di fronte alla pandemia; l’emarginazione dei più deboli, disabili e fragili vari, che attendono da anni l’attuazione di norme che ne facilitino l’esistenza e la sopravvivenza che interessano a pochi perché non fanno economia (anche qui la condivisione di qualche esperienza di famiglie in cui ci siano disabili gravi vi farebbe capire tante cose); le “morti bianche” (una media che oscilla ogni anno tra le tre e le quattro vittime al giorno!), il lavoro nero e il lavoro sottopagato che dimostrano quanto sia stato attuato nel nostro paese il diritto al lavoro; una scuola che da un lato cade a pezzi (letteralmente, visto lo stato di alcuni edifici) e dall’altro sforna disoccupati ed emigranti con qualifiche universitarie di eccellenza che se ne vanno per l’assenza di ricerca nel nostro paese; un incremento continuo dei femminicidi a causa di programmi inadeguati di prevenzione e di tutela delle vittime di maltrattamenti; un fisco che fa pagare sempre più quelli che già pagano, ma non persegue in modo sistematico gli evasori né tassa adeguatamente gli straricchi.
Qualcuno potrebbe obiettare che questi sono i soliti discorsi che fanno certi partiti storicamente legati al popolo, ma che poi rimangono soltanto parole a cui non conseguono i fatti. Bene, io rispondo che siamo noi, come dicevano gli umanisti, “i fabbri del nostro destino”: proviamo, dunque, a convogliare tutte le energie positive e negative che si sono sprigionate in questi mesi tribolati di scontro politico e sociale verso qualcosa di nuovo che prescinda da attori comici e piazzisti di professione, che senza urlare né fracassare esprima una nuova classe politica che abbia reali competenze e un profondo senso etico del ruolo svolto. Una classe politica di uomini nuovi che non amino l’esercizio del potere, ma se ne accollino l’onere come servizio per il proprio paese.
Ma di che tempra dovrebbero essere questi uomini (uomini e donne, per carità!) lo lascio dire ancora a Seneca nella lettera 39 sempre indirizzata a Lucilio: “… Un uomo di nobili sentimenti non può trovare piacere nelle cose basse e ignobili: la bellezza delle cose grandi, invece, lo attira e lo esalta. La fiamma si solleva diritta…; allo stesso modo il nostro animo è in continuo movimento… Ma felice colui che rivolge questo slancio verso nobili scopi: si sottrarrà così all’arbitrio della fortuna… E’ proprio di un animo grande disprezzare il desiderio di grandezza e preferire la moderazione agli eccessi ”.
Saremo ancora in grado di esprimere uomini siffatti?
Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano 1993
Gianni, ti ringrazio. Prima di tutto perché ho imparato una nuova parola “berciante” , che non conoscevo. Le idee passano attraverso le parole, poche parole poche idee. Poi ti ringrazio, per avermi ricordato due cose: la prima, un insegnamento di un tizio che è stato un maestro per me, cioè se entri in un sistema questo ti fagocita. Mi pare sia quello che è successo ai rivoluzionai del comico.
La seconda è quella che mi suscita emozioni intense ogni volta che faccio una visita ad un luogo dove la storia ha visto morire tanti esseri umani. Umani semplici, contadini gente comune.
Un abbraccio…
Articolo interessante anche se il nome di Seneca é un po’ incongruo nell’ambito di un’articolo che vuole denunciare le disuguaglianze economiche e sociali. Seneca era infatti uno degli uomini piu’ ricchi del suo tempo, con un patrimonio stimato a 300 milioni di sesterzi, ed é l’eroe di molti milionari della Silicon Valley che praticano oggi una certa forma di stoicismo….
Inoltre credo che il connubio fra etica ed estetica sia diventato piuttosto problematico nel mondo moderno (vedi e.g. John Carey), come era già stato messo in evidenza da tutta l’opera di Thomas Mann (ad esempio) e prima di lui dall’arte e dalla vita di Riccardo Wagner.