Il lungo addio alla democrazia

Da tempo alcune democrazie europee hanno dimostrato di essere poco democrazie, ma semplicemente la mascheratura dei regimi autoritari che vigevano in quegli stati precedentemente. Che poi siano oggi magari di segno politico opposto, non più repubbliche popolari socialiste, ma se mai democrazie autoritarie di destra, poco conta, perché di aspirazione all’autoritarismo si tratta, una malattia che oggi c’è sia a destra che a sinistra.

La crisi del capitalismo e il diffondersi dell’individualismo tipico della civiltà postindustriale hanno messo in crisi l’idea di democrazia anche in quei paesi che, nella sua veste moderna universale, l’avevano applicata e propagandata. Questi paesi – i due grandi ispiratori, gli Stati Uniti e la Francia, ma anche tutti gli altri del cosiddetto mondo occidentale che ne hanno adottato il modello – dopo aver contribuito al collasso dell’Unione Sovietica e all’industrializzazione di avanguardia della Cina Popolare, si sono trovati di fronte due colossi industriali che ne hanno copiato le modalità produttive e le tecnologie e le hanno sviluppate con una miscela irresistibile, coniugando insieme capitalismo e autoritarismo. La Russia con una democrazia autoritaria gestita da uomini legati alle vecchie nomenclature del potere sovietico, la Cina mantenendo la stessa ferrea Repubblica Popolare marxista-leninista (Marx, Engels e Lenin troneggiano sempre nella grande Sala del Popolo di Pechino) che controlla un’economia capitalista che compete ormai sullo stesso piano – ma con prospettive ulteriori di crescita – di quelle dei paesi occidentali più sviluppati.

Ecco allora che tra i paesi del capitalismo tradizionale è cominciata a serpeggiare l’idea che le loro democrazie erano troppo democrazie (lo sostenne una delle più autorevoli agenzie di rating riguardo alle democrazie del sud Europa), in quanto garantivano troppo il cittadino a discapito delle finanze dello Stato, che doveva rispettare tutti i diritti individuali sanciti dalle varie carte istituzionali, da “La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” emanata nel 1948 dall’Onu alle Costituzioni dei singoli Stati. Bisognava essere più liberisti se si voleva competere con quelle economie, sveltire le procedure, diminuire i passaggi democratici che le Costituzioni prescrivevano, cambiare le loro norme se necessario, al fine di rendere la “filiera” del comando più reattiva, immediata, e dunque competitiva.  Questo era importante per uno Stato democratico moderno che doveva poter decidere senza i lacci e i lacciuoli che i vari Costituenti avevano previsto per le loro Carte affinché fosse garantita la democrazia all’interno dei paesi che le avrebbero adottate. Ma soprattutto bisognava rivedere la spesa per il sociale e ridurla drasticamente a favore di investimenti per economie espansive di competizione.

Pian piano queste garanzie per il cittadino hanno cominciato a saltare, a essere un ingombro per dei politici sempre più rozzi e commercianti anziché la parte più colta ed evoluta che potevano esprimere quei paesi. E la volontà popolare è stata sempre più conculcata con leggi elettorali che, di fatto, impedivano ai popoli di eleggere i rappresentanti che avrebbero voluto costringendoli praticamente a ratificare quelli che una ristretta cerchia di persone – il simulacro di quello che erano una volta i partiti – aveva deciso che dovessero essere eletti. Nasce da questo la disaffezione elettorale che ha portato milioni di persone a rinunciare al voto convinte che intanto non serva a niente e a preoccuparsi soltanto della propria vicenda personale barcamenandosi cinicamente nei risvolti clientelari che una politica commerciale poteva fornire.

Se pensiamo in quest’ottica al nostro paese, questo processo di involuzione democratica è iniziato con la seconda Repubblica, a partire dal 1993 con l’elezione popolare diretta del presidente della giunta regionale – definito, impropriamente, dai media governatore sul modello americano -, con le varie leggi ad personam del periodo berlusconiano, con il tentativo di riforma della II parte della Costituzione, cosiddetta devolution, del 2005 (bocciato dal referendum costituzionale svoltosi il 25 e il 26 giugno 2006) e con il tentativo di riforma costituzionale Renzi-Boschi (bocciato dal referendum costituzionale svoltosi il 4 dicembre 2016). Tutti questi attori, anziché preoccuparsi di attuarla la Costituzione, hanno cercato di modificarla per favorire il potere della politica di professione contro gli interessi concreti degli italiani. La svolta delle ultime elezioni politiche ha portato al potere una coalizione di centrodestra che fa del rafforzamento del premierato una sua bandiera e intende varare una riforma costituzionale che introduca l’elezione diretta del premier e ne estenda le prerogative. Altro tema su cui spinge la coalizione è quello di una riforma elettorale che preveda un forte premio di maggioranza per chi ottiene più voti con una malcelata simpatia verso la democrazia dei 2/3 – come quella in vigore in Ungheria – che consente le modifiche costituzionali senza l’apporto delle opposizioni.

Ma nel frattempo non è avvenuto di meno negli altri stati democratici dell’Europa occidentale.

In Francia Macron ha fatto passare la riforma delle pensioni, che ha suscitato vere e proprie rivolte popolari in varie zone del paese, ponendo la questione di fiducia, cosa che mai prima di ora un governo aveva fatto per imporre una riforma strutturale a lungo termine, osteggiata, secondo i sondaggi, dal 75% della popolazione. Inoltre ha promulgato – con l’appoggio del Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen, che ha contribuito a renderla ancora più discriminatoria – la “Legge per il controllo dell’immigrazione e il miglioramento dell’integrazione” che è un concentrato di razzismo e di nazionalismo, nonostante il partito di Macron, Renaissance, sia liberale ed europeista e si definisca progressista.

In Gran Bretagna il manifesto elettorale conservatore del 2019 prevedeva un rafforzamento del potere esecutivo e soprattutto del ruolo del Primo Ministro per ridurre gli spazi di intervento del Parlamento e delle Corti. Nel gennaio scorso il Parlamento britannico ha approvato con una maggioranza di 47 voti una legge, già prevista in quel manifesto, che impedisce agli enti pubblici, compresi i consigli comunali, le università e i fondi pensionistici, di boicottare un particolare territorio internazionale, a meno che ciò non rientri nella politica estera del governo. Legge che ha come bersaglio principale la campagna Boycott, Divestment and Sanctions, il movimento di protesta pacifica nato per promuovere, attraverso il boicottaggio, il disinvestimento o le sanzioni, la pressione economica e politica su Israele affinché rispetti i diritti umani e il diritto internazionale.

Ma se ci spostiamo negli Stati Uniti, la prima democrazia contemporanea, esempio di tutela dei diritti e delle libertà individuali, ci rendiamo conto che forse la crisi maggiore la democrazia la vive proprio là. Crisi di leadership, di approccio alla politica internazionale, di risorse per continuare ad essere la potenza egemone a livello mondiale. Con un ex presidente, nuovamente candidato alle prossime elezioni, Donald Trump, che guarda con invidia al suo amico Putin perché non ha tanti freni democratici come ha invece avuto lui. Con una concezione privatistica del potere che disdegna le compatibilità proprie di una democrazia. Non più un presidente, ma un monocrate che decide al momento come comportarsi insofferente ai vincoli della Legge.

Il suo progetto politico, se dovesse vincere le elezioni, prevede lo smantellamento dell’apparato statale americano, eliminando innanzitutto le agenzie federali indipendenti. Il presidente avrebbe in tal modo un potere assoluto che vanificherebbe quei meccanismi politico-istituzionali di controllo e bilanciamento reciproco finalizzati a mantenere l’equilibrio tra i vari poteri all’interno di uno Stato. In pratica l’alta burocrazia statale – che, come sosteneva Max Weber, dovrebbe essere la custode indipendente della democrazia – verrebbe asservita al potere politico e dovrebbe assecondarne le scelte anche quando esse contraddicessero le regole fondamentali di uno Stato democratico. E per fare tutto questo probabilmente Trump cercherebbe anche di cambiare la regola che stabilisce non più di due mandati presidenziali, così come hanno già fatto i leader di Russia e Cina.

 

Se dunque lo stato della democrazia occidentale è questo, non è possibile dormire sonni tranquilli tra i guanciali di un forma di governo che qualcuno voleva esportare perché la riteneva attrattiva e che invece sta importando dai vari sistemi autocratici presenti nel mondo elementi di illibertà e di autoritarismo. E lo fa per competere con essi sullo stesso piano, sostituendo al concetto di cooperazione internazionale sancito dalla Carta dell’Onu l’idea rinnovata della competizione e dello scontro, del disconoscimento dell’altro come un partner paritario, per stabilire o ristabilire la propria egemonia a livello mondiale o di area. Ma i conflitti comportano inevitabilmente anche una serrata dei ranghi interni dello Stato, con la criminalizzazione del dissenso e la sospensione di alcuni dei diritti individuali e collettivi. Sta qui il nodo cruciale del futuro delle democrazie: se lo Stato si riconosce soltanto nel mercato e su quanto di esso riesce a conquistare, se privilegia politiche di potenza anziché la ricerca del “bene comune”, i diritti dei singoli cittadini non potranno più essere uguali per tutti, ma la disuguaglianza diventerà una norma sancita “democraticamente”.

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