La biblioteca dei misteri

Quando finalmente si decise a scrivere la storia di quel suo antenato che, a metà dell’Ottocento, era andato a Belgrado a recuperare il figlio del marchese di L. in fuga per amore, G., per documentarsi sulle strade che probabilmente aveva percorso quell’uomo, andò a cercare notizie nella biblioteca di S. Gli avevano detto, infatti, che quella biblioteca aveva una sezione specifica dedicata alle cartine storiche del nostro continente – dovuta alla passione di un vecchio direttore che l’aveva istituita e potenziata nel tempo – per cui c’era andato convinto di trovarci il materiale necessario per la sua ricerca. E, in effetti, non appena fu accompagnato da un inserviente nella sala decentrata che ospitava quella sezione, si rese immediatamente conto che si trattava di un fondo talmente ricco di documenti da risultare insolito per una biblioteca di provincia: c’erano, infatti, un’infinità di cartine storiche dispiegate in apposite teche e altrettante consultabili su un visore, forse perché troppo usurate per poter essere ancora esposte; e alle pareti scaffali zeppi di libri sul vecchio continente, dai trattati di scienze geografiche ai libri di stampe e di fotografie.

 Di fronte a un’offerta così abbondante, G. fu sopraffatto dall’emozione ed ebbe un attimo di smarrimento, come se tutto quello andasse ben oltre la sua ragionevole aspettativa. Poi, però, non appena l’inserviente lo lasciò solo, pian piano si lasciò andare all’ebbrezza della situazione e, dimenticandosi dell’obiettivo per cui era venuto, cominciò a muoversi frenetico tra le cartine e a leggerne avidamente i simboli e i nomi delle località. E ogni volta che il suo sguardo ne incontrava qualcuno conosciuto, che magari aveva letto in qualche romanzo, allora scattava immediatamente in lui la molla del ricordo, il recupero delle trame che l’autore aveva sviluppato proprio in quei luoghi.

Quando poi il suo sguardo indugiò sulla penisola balcanica che era l’oggetto specifico della sua indagine, il meccanismo si ripeté con ancora più vigore e come posò gli occhi su Trieste pensò a Boris Pahor, sloveno italiano sopravvissuto ai lager nazisti – la sua odissea l’aveva raccontata in  Necropoli – e al ruolo di mediatore tra culture che aveva svolto per più di cinquant’anni, schiacciato tra due mondi che la seconda guerra mondiale aveva lacerato drammaticamente; e poco dopo,  scendendo verso Fiume, gli sovvenne di Slavenka Drakulic e del suo divertente e sferzante pamphlet La gatta di Varsavia. Favole sul comunismo raccontate da animali domestici, selvatici ed esotici. E non appena spostò lo sguardo sulla Bosnia e lesse Visegrad si ricordò de Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, confluenza di due culture antagoniste che avevano trovato un modo di convivenza, e Tuzla  gli rammentò La fortezza di Meša Selimović, libro emblematico sul rapporto storico balcanico tra individuo e potere, e Sarajevo Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo di Marko Vešović, scrittore montenegrino, che vi era rimasto durante l’assedio e ne aveva poi raccontato il martirio. Ed era così intenso ciò che provava nella rievocazione di questi libri che pian piano ci si abbandonò completamente, in balia dello stesso flusso di emozioni che gli aveva suscitato la loro prima lettura, e ci vagò a lungo, immerso a tal punto in quelle vicende che quando si rinvenne ebbe la sensazione che qualcosa fosse cambiato dentro di lui, qualcosa che l’avrebbe segnato per sempre…

Tutto questo gli frullava nella mente, quando, guardando una finestra, si rese conto che fuori era già buio. Buio? Ma se era entrato a metà di un pomeriggio assolato d’agosto, come poteva essere passato così tanto tempo? E, poi, perché era ancora in biblioteca, avrebbero dovuto mandarlo via all’orario di chiusura. Che fosse ancora aperta? Raggiunse velocemente l’entrata: era tutto spento. Chiamò. Nessuno rispose. Non era possibile che se lo fossero dimenticato, gli avevano detto che l’avrebbero avvisato… Raggiunse la porta d’ingresso e tentò di aprirla.. Chiusa a chiave. La scrollò, inutilmente. Non ci poteva credere, l’avevano chiuso davvero dentro! Uscirò da una finestra, si disse. Corse alla prima che gli capitò. Aveva l’inferriata. Beh, potrò almeno aprirla e gridare, qualcuno mi sentirà… Erano finestre per l’aria condizionata, di quelle fisse che non si possono aprire. Infrangibili oltretutto. Ma ci sarà un’uscita di sicurezza, un allarme per attirare l’attenzione… Ma c’è il telefono, che stupido! Mi basterà chiamare il 112… Prese la cornetta da una scrivania. Nessun segnale. Fece il numero, il telefono pareva morto. Li girò tutti quelli che c’erano, ma nessuno dava segnale. Hanno tolto la linea quei bastardi! D’istinto li avrebbe fracassati tutti. Devo stare calmo, si ripeteva, in fondo si tratta solo di aspettare domattina… Qualcosa però non gli tornava. Domattina? Ma… ma domani è sabato e la biblioteca è chiusa. Noooo, urlò nel corridoio, porca puttana! E, incazzato come una belva, picchiò i pugni sul muro e prese a calci una porta. Due giorni devo stare qui dentro, io ci divento matto!

Si abbandonò sconsolato su una sedia. Viveva da solo, nessuno si sarebbe preoccupato di cercarlo. Nessuno sapeva che era andato in biblioteca. Doveva dunque rassegnarsi, doveva prenderla serenamente. Balle! Un conto è dirlo e un altro farlo. Due giorni lì dentro senza mangiare e… no, senza bere no, mica avevano tolto anche l’acqua?! Entrò di corsa nel bagno, aprì il rubinetto, l’acqua sgorgò copiosa. Tirò un sospiro di sollievo. Almeno questa, pare che sia peggio la sete che la fame, disse come per consolarsi. Lo prenderò come un digiuno terapeutico. Neanche ne avessi bisogno, già sono magro come un picco…

Si calmò, del resto non c’era altro da fare. Doveva rassegnarsi e cercare di mettere in qualche modo a frutto quella disavventura. Dopotutto era chiuso in una biblioteca, non era nella cella di un carcere. E va bene che in un carcere sarebbe passato un guardiano a dargli magari qualcosa da mangiare, ma come avrebbe potuto avere a disposizione quella montagna di libri? Mi ci rivoltolerò dentro, si disse, saranno il cibo dei miei prossimi due giorni. Quante volte l’aveva ripetuto con gli amici che lui poteva stare anche senza mangiare, ma non senza libri! Ora c’era in mezzo a loro, quale occasione migliore per dimostrare che lo pensava veramente! Come rinfrancato da questa certezza, ritornò nella sala delle cartine storiche. Avrebbe innanzitutto completato la ricerca. Ci mancava ancora che stesse chiuso lì dentro due giorni senza fare quello per cui c’era andato, ricostruire il percorso che poteva aver fatto quel suo avventuroso parente.

Ma, nonostante questi buoni propositi, come mise gli occhi sulla cartina della penisola balcanica immediatamente scattò di nuovo in lui il fascino di quei nomi che parevano luccicare sull’opacità dello sfondo. Ecco, dunque, balenare Skopje, la capitale della Macedonia, e la mente correre ai versi di Mateja Matevski, che nonostante la lontananza fisica dal mare profumano di Mediterraneo (ricordava una sua poesia, Cercando le lucciole, in cui il poeta aveva dato la più bella definizione poetica della luce che avesse mai incontrato, “che non esiste nel momento in cui esiste // e che è nel momento in cui non è”); e poi, poco più in là, Bjala Slatina, dove nacque Blaga Dimitrova, poetessa femminista della Bulgaria “rossa” (“Mi avvolgano le ali, senza racchiudermi. // Il mio spirito aperto, non in me ripiegata. // Non dietro a una spalla, al sicuro protetta, // ma fianco a fianco contro il vento in bufera”); e ancora, su verso Nord, sul Danubio, la cittadina di Rustshuck, comunità multietnica ( “… in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue…

Oltre ai bulgari, c’erano molti turchi, greci, albanesi, armeni e zingari”) dove nacque Elias Canetti, in una famiglia ebrea sefardita, “spagnoli” li chiamavano allora, come racconta ne La lingua salvata, e al di là del fiume Giurgiu, città fondata dai genovesi nel XIV secolo come base commerciale per i loro traffici sul Danubio, patria di Jon Vinea, poeta dell’avanguardia rumena degli anni ’20, condirettore con Marcel Iancu della rivista Contimporanul, che fece conoscere ai rumeni futurismo e dadaismo… Il Danubio, radice e linfa di quella grande penisola… Come era possibile non pensare al bellissimo valzer di Strauss An der schönen blauen Donau e alle  parole di Franz Von Gemerth, “Danubio così blu, così bello e blu, // attraverso la valle e il campo là tu scorri quieto…”? Quasi senza accorgersene, G. cominciò a volteggiare per la stanza descrivendo passi di danza, e gli pareva di ballare alla corte di Vienna con l’imperatrice Sissi ovvero con la splendida Romy Schneider che l’aveva interpretata e che era sempre stata una sua passione. E girava girava e non riusciva più a fermarsi e lo fece talmente forte che finì per ruzzolare per terra…

Acqua, tutta l’acqua del Danubio ci sarebbe voluta per estinguere la sua sete, per rinfrescare il suo corpo accaldato dall’afa che c’era lì dentro. Mancava l’aria e bastava fare un movimento in più per ritrovarsi fradicio di sudore e con il respiro mozzato. Gettò la testa sotto il rubinetto del lavabo… Ci avessero almeno fatto una doccia, disse, mentre continuava a sciacquarsi il collo e le braccia. Poi si guardò malinconicamente allo specchio… Ma guarda come sono ridotto! Forse è meglio che provi a dormire. C’era un divano nell’entrata, ci si lasciò andare stancamente…

Quando si svegliò, il sole era già alto nel cielo e riverberava dai vetri opachi delle finestre. Aveva dormito secco nonostante il caldo, ma non si sentiva affatto rinfrancato, anzi, alzarsi in piedi fu lento e laborioso. Gli girava la testa e aveva una fame da lupi… Ora capisco il conte Ugolino. Anch’io sarei disposto a rosicchiare il cranio di chiunque pur di non morire di fame…Si spaventò delle sue stesse parole… Eppure non sono neanche ventiquattro ore che non mangio. Se penso che devo arrivare a lunedì mattina…

Si diresse nuovamente verso la sala delle cartine, forse riprendere il “viaggio” gli avrebbe allentato i morsi della fame. Lasciata Giurgiu, cominciò a risalire il Danubio e giunse alle “Porte di Ferro”, una gola  tra i Carpazi e i Balcani in cui il fiume si restringe più volte tra pareti di falesie alte centinaia di metri. E subito si ricordò di aver letto da qualche parte dell’isola di Ada Kaleh che un tempo s’incontrava percorrendo questa gola, luogo di contrabbando e di traffici al limite della legalità, abitata da turchi, una sorta di enclave dell’impero ottomano “dimenticata” dal congresso di Berlino del 1878 all’interno di quello austroungarico. Status che perdurò, dopo la caduta degli Asburgo, fino al 1970 quando serbi e rumeni decisero di costruire a valle una grande diga per produrre energia elettrica che fece innalzare il livello dell’acqua di 35 metri e sommerse l’isola costringendo gli abitanti ad andarsene. Ma soprattutto pensò a Claudio Magris, che alle “Porte di Ferro” c’era andato con Anka, la “nonna” di Belgrado che era stata la sua guida in quel tratto del suo Danubio, viaggio alla ricerca della mitteleuropa pocoprima che cadesse la cortina di ferro.

E gli ritornarono alla mente due definizioni che Magris dava del Danubio in quel libro: “Strada che univa l’Europa e l’Asia, la Germania e la Grecia, lungo la quale la poesia e il verbo, nel tempo del mito, erano risaliti a portare il senso dell’essere all’occidente tedesco… è il fiume lungo il quale s’incontrano, s’incrociano e si mescolano genti diverse, anziché essere, come il Reno, il mite custode della purezza della stirpe”. Il Danubio, dunque, come simbolo universalistico e di convivenza di culture e civiltà, in contrapposizione alla pretese identità esclusive che si sarebbero scatenate di lì a poco nella penisola balcanica.

Lasciò le “Porte di Ferro” e risalì fino a Belgrado e mentre attraversava la città gli si affollavano alla mente altri scrittori serbi contemporanei, da “Momo” Kapor, eclettico pittore, regista e romanziere, a Zuric Vule, ferroviere in pectore e scrittore di raffinata comicità, da Zoran Živković, “maestro” del fantastico, a Marina Lalović, La cicala di Belgrado, da Dragan Velikić, cultore della Jugoslavia multietnica e critico del presente, a Dušan Veličković, fautore della sprovincializzazione della letteratura serba, costretto a lasciare la Serbia ai tempi di Milošević. Proseguì oltre, fino a Novi Sad, e appena lesse il nome gli apparve improvviso lo spettro di Danilo Kiš, scrittore “bastardo”, con la ferita lancinante del padre “sparito” ad Auschwitz. Come aveva raccontato in modo straniato e surreale nel Giardino di cenere il suo arresto! “Ed eccolo, mio padre, seduto nel carro accanto a una giovane zingara dalle poppe rigonfie, maestoso come il principe di Galles o, se volete, come un croupier o come un maître d’hôtel, come un illusionista, come un impresario di circo, come un domatore di leoni, come una spia, come un antropologo, come un maggiordomo, come un contrabbandiere, come un missionario quacchero, come un sovrano che viaggia in incognito, come un ispettore scolastico, come un medico di campagna e, infine, come un commesso viaggiatore, rappresentante di una compagnia occidentale per la vendita di rasoi di sicurezza”.

Con ancora nelle orecchie il rimbombare di quelle parole, G. sentì le membra intorpidirsi e pian piano la testa diventare sempre più pesante e cominciare a ciondolargli da una parte e dall’altra come se l’avesse preso all’improvviso un attacco di sonno. Gli succedeva spesso la sera quando dopocena tirava tardi a leggere o a scrivere, ma mai aveva provato una sensazione del genere, così intensa da non consentirgli alcuna reazione. Provò infatti ad alzarsi per raggiungere il divano, ma quasi senza accorgersene crollò di schianto sulla teca in cui stava guardando. S’addormentò.

Non sappiamo se i sogni iniziarono già nel primo sonno, fatto sta che a un certo punto il suo inconscio precipitò nel gorgo della sua immaginazione. E così fu scuoiato vivo dai turchi di Solimano il Magnifico che avevano conquistato Belgrado, subito dopo dai “cristiani” che avevano riconquistato Belgrado, e poi dai Bulgari e dai Serbi all’epoca delle guerre balcaniche, deportato dai nazisti anche lui ad Auschwitz, liberato e rinchiuso in un gulag sovietico, giustiziato dai serbi a Srebrenica in una fossa comune, saltato in aria a Sarajevo nella strage del mercato, trucidato a Mostar dai croati, a Grabovica dai bosgnacchi… Nooooooooo! urlò, non voglio morire… voglio andarmene di qui, tornare a casa! Basta pulizie etniche, vendette di cosche, odi religiosi! Basta!

Era sudato marcio, la faccia appiccicata al vetro appannato dal suo respiro. Si rizzò in piedi faticosamente, si guardò in giro stranito, e infine si ricordò dov’era veramente. Il sole riverberava ancora dalle finestre opache… Ho dormito poco… il sole era già così alto… eppure ho attraversato epoche intere… ho assistito a massacri… a stupri… ho temuto di morire anch’io… possibile che sia avvenuto tutto in così poco tempo?… Il tempo… ma cos’è il tempo nei sogni… neppure sappiamo cos’è esattamente nella realtà… lo diceva anche Einstein, mi pare…

Sentì suonare a stormo le campane della chiesa vicina, il suono della gazzarra. Ma… allora non era più sabato, era già domenica… ecco perché aveva sognato così tanto!… Il tempo sarà pure una variabile diversa nei sogni, ma se dovessi raccontarli tutti non mi basterebbero due notti… È domenica, dunque, finalmente si avvicina la liberazione… Barcollando e appoggiandosi alle pareti raggiunse il bagno. Bevve avidamente, l’acqua scrosciava nel suo stomaco come in una grotta carsica. Si sciacquò tutto quanto lasciando un lago sul pavimento… E che ci provino a dirmi qualcosa dopo quello che mi hanno fatto… si meriterebbero che gliela allagassi tutta questa biblioteca, con i libri a galleggiare come tante barchette… lo farei se non ci fosse la sala delle cartine, ma quella è la mia unica salvezza…

Ritornò alla teca dell’Europa, gli girava paurosamente la testa… Altro che calo di zuccheri, non ce n’ho proprio più da bruciare… Si ricordò della crisi di fame che aveva patito una volta quando andava in bicicletta… Oh, non riuscivo più a muovermi, mai provata una sensazione così… Meno male che c’era una casa lì vicino, se no sarei stramazzato nella cunetta… Com’era buono il panino che mi fece quella donna, zeppo di salame e formaggio… No, no, meglio non pensarci, se no chi ci arriva a domattina…

Cominciò a risalire il Danubio in territorio ungherese, a destra aveva l’Alföld, la Grande Pianura Ungherese, a sinistra le colline transdanubiane. Un paesaggio completamente immerso fra i boschi e l’acqua… Fra i boschi e l’acqua? Ma… chi l’aveva già definito così? G. chiuse gli occhi e si sforzò di ricordare dove aveva letto quella definizione e l’aveva sulla punta della lingua, sempre lì lì per scaturire, ma non appena gli pareva di esserci, l’intuizione si allontanava di nuovo… Porca miseria, chi era? Non era uno di queste parti, era uno scrittore viaggiatore dell’Occidente…Ecco chi era! disse finalmente, era il capostipite dei viaggiatori solitari del Novecento… Patrick Leigh Fermor, il “maestro” di Chatwin! L’inglese che nel 1933/34 aveva attraversato Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, Transilvania e Bulgaria per raggiungere Istanbul. E l’aveva fatto nel modo più diretto e concreto per conoscerle, cioè a piedi, vivendo “come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante”. E su questa esperienza di viaggio aveva poi scritto due libri, Tempo di regali in cui aveva raccontato il percorso dalla sua isola al ponte di Maria Valeria, al confine tra Slovacchia e Ungheria, e Fra i boschi e l’acqua, per l’appunto, in cui aveva raccontato il resto della sua avventura, soffermandosi particolarmente sull’ambiente naturale ed umano che aveva incontrato attraversando la pianura magiara. Mirabile una sua descrizione di un gruppo di zingari: “Tre fuochi di bivacco, che spandevano lame di luce fra i tronchi, illuminavano un arazzo di tende e sagome umane ed equine… Villosi e scarruffati, erano gli zingari più scuri che avessi mai visto. Alcuni degli uomini indossavano i larghi pantaloni bianchi ungheresi, gli altri normali vestiti da città, con il cappello nero… Bimbetti con il moccio, flessuosi e neri come il carbone, portavano camiciole che gli lasciavano scoperta la pancia e qualcuno era proprio nudo… Ragazze bellissime, in sudice sottane a balze increspate verdi, gialle e magenta, osservavano la scena con occhi fulgenti…”. Aveva solo diciott’anni, quanti ragazzi oggi sarebbero  in grado di farlo!

Il mondo era cambiato, la fretta e il consumo avevano rovinato vecchi e giovani. Televisione, computer e telefonini avevano rimbambito gli uomini… I telefonini… Si sentì venir meno… Certo che se ne avessi avuto uno qui con me le cose sarebbero andate diversamente… Ma fu solo un breve smarrimento e subito riprese la sua intransigenza… Domattina non avrò bisogno di nessun telefonino per dire di tutto allo stronzo che dirige questa biblioteca… Roba da omicidio colposo… Vorrei vedere come se la caverebbe se dovessi lasciarci le penne… istintivamente incrociò le dita e scacciò lontano quel pensiero insensato. Bastò un nome a fargli riprendere il filo.

Budapest! Per tanti anni la sua conoscenza della letteratura ungherese si era limitata al famoso romanzo I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnár o alle poesie di Attila Jószef, forse il più grande poeta magiaro del ’900, finché un giorno aveva scoperto Marai, Sándor Márai, e per lui era stato un colpo di fulmine. Aveva divorato letteralmente i suoi libri uno dopo l’altro, sia i romanzi che i molti testi autobiografici e ci aveva trovato un referente letterario e politico-filosofico ineguagliabile. Scrittore che aveva scontato il suo essere ideologicamente borghese, anzi, l’ultimo cantore di una borghesia colta e creativa che aveva dato vita all’umanesimo europeo di fine Ottocento che poi la  prima grande guerra populista mondiale aveva spazzato via per sempre aprendo la strada alle ideologie di massa. Un uomo tutto di un pezzo, liberale, incapace di accettare compromessi con la destra fascista delle croci frecciate o con il totalitarismo sovietico del secondo dopoguerra. Un uomo che aveva preferito l’esilio piuttosto che accontentarsi di una nicchia privilegiata, ma condizionata, a casa sua.

E gli sovvennero Le braci… la drammatica delicatezza dell’intreccio tra amore e amicizia… e poi La donna giusta… la natura totalizzante dell’amore, che può essere letale per lo stesso sentimento… e L’isola… la ricerca ossessiva del limite oltre il quale c’è il crimine o la verità… Il gabbiano… l’amore, il doppio, l’ambiguità e la menzogna… in cui protagoniste di romanzi maschilisti erano sempre le donne, mai gli uomini… donne attorno a cui girava la vita degli uomini, del mondo degli uomini, e la tenevano in pugno, oh se la tenevano in pugno, e soltanto un atto estremo poteva liberarla… Ma è soprattutto nella lettura dei testi autobiografici che credo di aver colto il suo sentire più intimo… Confessioni di un borghese, Terra, terra… e Volevo tacere… è lì che sono entrato davvero in contatto con lui… è lì che ho capito che libertà e identità non confliggono se quest’ultima non è esclusiva… è lì che ho constatato amaramente che di fronte al Potere con la P maiuscola, come lo definiva Pasolini, neppure il silenzio ci può salvare. “Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso”.

Sulle ali dell’immaginario di Marai, G. risalì il Danubio velocemente, attraversò Bratislava di slancio, sbirciò un attimo in alto verso Praga (li ci sarebbe stato Jan Neruda con i suoi Racconti di Malá Strana, il quartiere  antico della città, a cui “rubò” il cognome per stima letteraria il grande Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto che si fece poi chiamare Pablo Neruda) e puntò su Vienna come un falco e man mano che si avvicinava cominciavano a ronzargli nelle orecchie un’infinità di nomi che avevano trovato nella vecchia capitale del regno austroungarico il loro luogo di elezione. Il primo fu quello di Joseph Roth, il massimo cantore del finis Austriae, che aveva capito e scritto (La tela di ragno, 1923) forse prima di tutti le tragiche conseguenze del nazismo. “… ci avviciniamo a grandi catastrofi. A parte quelle private – la nostra esistenza letteraria e materiale è annientata – tutto porta a una nuova guerra. Io non do più un soldo per la nostra vita. Si è riusciti a far governare la barbarie. Non si illuda. L’Inferno comanda”. E poi Arthur Schnitzler e il suo “monologo interiore”, che gli veniva così naturale da fare invidia a Freud, e Hugo Von Hofmannsthal, poeta precoce che “tradì” la poesia per il teatro, e Leo Perutz, dibattuto tra la fama della cosiddetta “formula di equivalenza di Perutz” nella matematica attuariale e quella di narratore storico-fantastico apprezzato da Borges, e Georg Trakl che in Grodek, la sua ultima poesia, condensa tutto l’orrore della guerra, e Robert Musil, L’uomo senza qualità, baluardo di un mondo destinato al tramonto, incapace per troppa idealità e troppo capire di adattarsi alla realtà dei fatti, e Karl Kraus con i suoi Detti e contraddetti, polemista ironico e tagliente, ma che ne La terza notte di Valpurga (1933) dice: “ Su Hitler non mi viene in mente niente… Ci sono mali di fronte ai quali… il cervello… si considera incapace di qualsiasi pensiero”, e Thomas Bernhard che A colpi d’ascia demolisce le futili certezze della borghesia dei “salotti” di Vienna, e Rainer Maria Rilke che al giovane poeta che gli chiede consiglio risponde: “Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé”, e ancora Elias Canetti che in Auto da fé (1935) nel rogo della biblioteca di Kien, il sinologo che non ama il mondo, capovolge il senso del rogo dei libri da parte dei nazisti trasformandolo in un baluardo contro di loro.

“Fuori la polizia bussa forte: “Apra o per lei saranno guai!”. “Mai!”. “Obbedisca alla polizia!”. “Via!”. “Si decide ad aprire?”. “Sparire!”. “Immediatamente!”. “Niente”. “Le spareremo!”. “Vedremo!”. “Ora le diamo un’affumicata con i fiocchi!”. “Pidocchi!”… Libri e libri si rovesciano dagli scaffali sul pavimento. Lui li raccatta con le sue lunghe braccia. In silenzio, perché non lo sentano da fuori, porta nell’atrio una pila dopo l’altra e tutte insieme le accatasta contro la porta di ferro. E mentre ancora lo spaventoso fracasso gli manda in frantumi il cervello costruisce con i libri una poderosa trincea. L’atrio si riempie di volumi e volumi. Lui si aiuta con la scala. Ben presto ha raggiunto il soffitto. Torna nella sua stanza. Gli scaffali gli spalancano in faccia occhiaie vuote. Davanti allo scrittoio il tappeto è in fiamme. Porta fuori tutti i vecchi giornali dalla stanzetta accanto alla cucina. Li apre e li gualcisce, li appallottola e li getta in tutti gli angoli. Riporta la scala dov’era prima, al centro della stanza. Sale fino al sesto gradino, sorveglia il fuoco e aspetta. Quando finalmente le fiamme lo raggiungono ride forte, come non ha mai riso in tutta la sua vita”.

G. ebbe uno spasmo che lo scosse tutto, come se le fiamme di quel rogo l’avessero lambito. D’istinto si portò le mani alla gola, gli pareva che gli mancasse il respiro. Anche lui bruciava come i libri, dentro e fuori, forse era la febbre che lo stava divorando. Cercò di alzarsi, ma non ci riuscì, le gambe sembravano impietrite… Aria, aria, mi manca l’aria… se almeno si potesse aprire una finestra!… Provò di nuovo ad alzarsi. Si puntellò sulla teca, le braccia erano ancora forti… Oh, queste maledette gambe! E pensare che fino a qualche anno fa correvo ancora come una gazzella… Strinse i denti e riuscì a mettersi diritto. Fuori pareva che facesse giorno… Coraggio, vecchio G., ancora qualche ora e poi sarai libero per sempre… Per sempre? Ma anche prima di questa incredibile avventura pensava che sarebbe stato libero per sempre… nessun legame affettivo… morti i genitori… né fratelli né sorelle… solo una cugina che abitava a Bologna… come se non ci fosse, dunque… si sentivano per Natale e forse altre due o tre volte l’anno…

Pian piano le gambe si rimisero in moto e G. si diresse cautamente verso l’entrata. L’orologio nell’atrio segnava le sei e un quarto… Neanche due ore, si ripeté, e poi… Ora che la soluzione del suo problema si avvicinava, G. si sentiva rinfrancato, gli era sbollita quella rabbia che subito l’aveva preso. Ora gli sembrava che quella disavventura fosse una cosa da raccontare ai pochi amici che aveva, un’esperienza che sembrava più letteraria che vera. E allora per la prima volta da quando era rimasto chiuso lì dentro gli affiorò sulle labbra un sorriso… Se li avessi avuti subito tra le mani, li avrei strozzati… ma ora, ora cosa vuoi che faccia… certe volte accadono le cose più assurde… che non diresti mai che potrebbero accadere… e succedono a tutti prima o poi nella vita… Si ricordò quella sera che i suoi l’avevano chiuso fuori… mica l’avevano fatto apposta… credevano che ce l’avesse le chiavi, e lui le aveva dimenticate… era inverno, c’era un gelo che spaccava le pietre… era tornato tardi da vedere uno spettacolo in città, gli amici di M. l’avevano lasciato davanti al portone di casa… Chiuso, ormai loro erano ripartiti… Aveva pensato immediatamente a quel famoso racconto di London, Accendere un fuoco, in cui un viaggiatore solitario cerca invano di accendere un fuoco in mezzo alla distesa di neve del grande nord e tenta infine di scaldarsi uccidendo il suo cane… che però capisce le intenzioni dell’uomo e scappa lasciandolo solo… lui per fortuna quella sera aveva poi incontrato Pierino che soffriva d’insonnia e l’aveva fatto dormire nel suo divano in cucina… c’era la stufa a legna, neanche aveva dovuto coprirsi.

Si fermò davanti alla bacheca che c’era nell’atrio, chissà perché prima non ci aveva mai fatto caso. C’era il calendario delle iniziative culturali organizzate dalla biblioteca per quell’estate, due concerti di musica classica, uno di jazz,  un balletto e un lavoro teatrale nell’arena all’aperto del parco adiacente. C’erano alcuni comunicati sindacali, la proposta di un progetto di libreria diffusa sul territorio, gli orari di apertura della biblioteca e un comunicato della direzione… G. cominciò a leggerlo e man mano che scandiva nella mente ciò che c’era scritto non credeva ai suoi occhi. Provò a rileggerlo, come se sperasse di essersi sbagliato… la biblioteca resterà chiusa per ferie da sabato12 agosto a domenica 20 agosto… ma… ma oggi è il 13 agosto! Nooooo!… risuonò nell’atrio e poi in tutte le stanze, e non aveva il tempo di sopirsi che un altro Nooooo! squarciava il silenzio dell’edificio… Ma cosa ho fatto per meritarmi questo, cosa ho fatto!… Cominciò a tempestare  di pugni la bacheca, a strappare via i fogli con le unghie, ripetendo in continuazione Maledetti! Maledetti!… e lo fece con tanta foga che finì per perdere l’equilibrio… cadde a terra… e gridava e piangeva come un bimbo a cui fosse stata fatta un’ingiustizia… Finché s’acquetò, si sentiva solo qualche singhiozzo sommesso.

Poi, all’improvviso, come se avesse ritrovato energia, ebbe uno scatto e si rizzò dritto in piedi di slancio. Ma come cercò di fare un passo verso la sala di consultazione le gambe gli cedettero di nuovo… Ho fame, cominciò a dire, ho fame, devo assolutamente mangiare qualcosa… e cosa?… qui ci sono solo libri… quante volte l’aveva detto che i libri erano il vero cibo della sua vita… ma era una metafora, lo capiva un bambino… e le metafore non avevano mai sfamato nessuno.

Raggiunse gattoni il primo tavolo della sala. Si attaccò al ripiano e lentamente riuscì a tirarsi in piedi. Ora anche la vista gli si era annebbiata e faceva fatica a leggere le etichette sugli scaffali. Tenendo saldamente la mano su una sedia per sicurezza, fece il giro di tutti gli scaffali e ogni volta si avvicinava a leggere l’etichetta strizzando gli occhi. Cercava qualcosa, qualcosa che ormai forse considerava la sua ultima speranza. A un certo punto indugiò davanti a uno di loro. Si avvicinò di più e cominciò a frugare frenetico tra i libri. E man mano che lo faceva cresceva in lui la tensione, come se non trovasse ciò che stava cercando. S’innervosì, cominciò a gettarne alcuni per terra. Poi all’improvviso parve aver individuato l’oggetto del desiderio. Era nello scaffale più alto, ci arrivava appena con la punta delle dita. Provò alcune volte, barcollando paurosamente. Finché si aggrappò al ripiano cercando di sollevarsi fino a raggiungerlo. Fu un attimo. Lo scaffale ondeggiò, lui si tenne ancor più forte, e il mobile gli rovinò addosso con tutti i libri che conteneva. Fu sommerso da quella montagna di legno e di carta e, dopo qualche istante di silenzio, se ci fosse stato qualcuno che avesse potuto udirlo cominciarono a provenire strani rumori da là sotto. Quando lunedì 21 agosto la biblioteca riaprì i battenti, lo trovarono sepolto sotto i libri della sezione “Cucina”, secco come uno stoccafisso, con ancora in bocca un pezzetto di pagina di un libro. Era la pagina di un libro di ricette dell’Artusi, e precisamente della ricetta n. 366, quella del cappone in galantina.

One thought on “La biblioteca dei misteri

  1. La biblioteca spogliata dai suoi misteri.
    1 – Primo tentativo di pensare l’inizio.
    Forse, nel commentare questo testo, non riusciremo ad andare oltre le 5 o 6 parole inziali …”Quando finalmente si decise di scrivere …” è un inizio complesso, esorbitante e paradossale, che ci informa di un Prima, che rimanda ad una origine, al prima di tutti i prima, in cui senza essere concretamente dichiarate, ma in qualche modo lasciate intuire, l’una contro l’altra le ragioni per le quali G. avrebbe infine deciso di scrivere. O tale inizio lo si potrebbe parafrasare anche così: quando finalmente Dio si decise di creare il mondo…già, perché fin dall’eternità era in dubbio se fosse necessario crearlo o meno, ma poi infine si decise e lo creò.
    Ma chi o che cosa ha impedito a G., per un tempo indeterminato e tale da profondere infine in quel liberatorio “finalmente”, di scrivere la storia di quel suo antenato?
    Perché dare solo come sottinteso che doveva esserci stato qualcosa di decisivo e risolutivo che ha fatto propendere G. per lo scrivere piuttosto che non scrivere e senza però fornire anche un pur minimo indizio del perché?
    Insomma quali siano le ragioni che hanno fatto propendere per la scrittura non è qui dato sapere, si sa solo che queste ragioni esistono e per ora è dato solo come un vuoto o un’assenza infinita che in qualche modo andrebbe compresa. Ma attenzione, non è da questo presupposto, lasciato alle spalle o dimenticato, che prende inizio il racconto, ma questo inizio non è altro che l’apertura della struttura originaria del racconto che include in se e fa proprio quel vuoto e quell’assenza infinita per lasciare affiorare in esso il mondo vero.
    2 – Altro tentativo di ripensare l’inizio.
    “Quando finalmente …” sottende, presuppone, un prima (di questo inizio) in sé indeterminato che rimanda ad un tempo immemorabile, in cui si presume si consumi il travaglio di una decisione: scrivere o non scrivere?
    Perché anche l’alternativa del non-scrivere non andrebbe esclusa? A suo tempo Socrate aveva scelto di non affidare alla scrittura il suo pensiero.
    Posta inizialmente in termini così perentori l’alternativa tra lo scrivere o non scrivere assume un significato abissale e ci riporta alla stessa origine della scrittura e al mito della nascita della scrittura nel Fedro di Platone.
    Questo inizio “Quando finalmente…(linea retta che infine termina in una curva parabolica asintoticamente determinata solo all’infinito) indica nella indeterminatezza di queste due parole quell’immenso che precede la caduta del pensiero nella parola.
    Il mito dell’invenzione della scrittura riportato nel Fedro di Platone vede Theuth presentare così la sua scoperta (della scrittura) al Faraone Thamus :
    «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza».
    Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell’anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti».)
    3 – altro tentativo di comprensione dell’inizio?
    “Quando G. finalmente si decise di scrivere la storia di quel suo antenato…” ci dice che sì certamente questa storia si è incominciato a scriverla, ma attenzione non c’è una data precisa di questo inizio. Il testo lascia indeterminato il tempo del “quando” proprio per non far combaciare l’inizio dello scrivere di G., con il firmatario (Gianni Repetto) del testo. Vediamo meglio. Apparentemente il “finalmente” farebbe propendere per l’imminente realizzarsi di una aspettativa a lungo attesa, e cioè la conclusione del lungo travaglio che ha preceduto la decisione di G di scrivere o non scrivere la storia di quel suo antenato, ma in realtà non si dice la data di questo inizio. Se la data fosse fissata in un tempo preciso G. incomincerebbe a scrivere nello stesso istante in cui comincia a scrivere il firmatario del testo. Non daremo per scontato che G., il firmatario del testo e l’antenato siano la medesima persona, si mostrerà da sé proprio cercando di aderire il più possibile al testo. Ma se il “quando finalmente….” non è determinato sul piano temporale, (potrebbe oscillare all’interno di un tempo di oltre un secolo) e per questa indeterminatezza la data dell’inizio dello scrivere di G. non è l’inizio dello scrivere di Gianni Repetto, non c’è coincidenza, anche se non si può nemmeno escluderlo del tutto.
    Vengono così istituiti due piani logicamente differenti: uno è quello in cui si consuma la breve vita di G. da recluso in una biblioteca, e che per questa assenza di collocazione temporale, induce a pensare che la vita di G. possa essere estesa anche ad altre vite disposte sull’asse del tempo – e l’altro piano è un piano trascendentale, quello che oltrepassa tutte le vite che si dispiegano all’interno del tempo.
    Il parlare in terza persona di G. determina che il firmatario del testo sia appunto un terzo occhio, un Egli, che contempla dal di fuori G. e cioè l’orizzonte trascendentale che comprende ogni evento. Tanto è indeterminato il tempo in cui cade la decisione di scrivere di G. che ciò che comprende questa indeterminatezza temporale è necessariamente ciò che oltrepassa come tale il tempo.
    C’è dunque uno scarto temporale tra i due inizi di scrittura e cioè tra l’inizio di G., che si determina nello sviluppo dell’evento che lo porta rapidamente alla morte e l’autore o colui che firma in calce il testo, quest’ultimo (ma si dovrà ulteriormente specificare questa figura nel seguito) si astrae così dalle vicende vissute da G., le contempla e le osserva dall’esterno, in terza persona da un orizzonte temporalmente indeterminato e indeterminabile e quindi a-temporale ed eterno. Orizzonte intrascendibile, immobile, immutabile e quindi eterno che mette da sempre e per sempre in salvo, rispetto al dolore e la morte della propria finitezza.
    4 – Ripresa del paragrafo precedente con ulteriori specificazioni
    “quando (G.) finalmente si decise di scrivere, … ci stiamo chiedendo se l’inizio dello scrivere di G. coincide con l’inizio dell’autore che firma il racconto. Si potrebbe rispondere che se l’autore che firma il testo non inizia a scrivere, non si può nemmeno sapere se G. ha deciso di scrivere o meno.
    Ma se colui che firma il testo inizia certamente a scrivere in un momento determinato, (poniamo ad es il 12 agosto 2022) d’altra parte il “quando finalmente si decise a scrivere…” è senza data. Questo significa forse che G avrebbe potuto incominciare a scrivere prima – o anche dopo – il firmatario del testo?
    Comunque sia, questo è sufficiente per distinguere l’esistenza di un tempo relativamente indeterminato che riguarda il G. del testo “quando finalmente si decise…, rispetto a colui che osserva la scena, o mette in scena questo tempo relativamente indeterminato, e che lo può fare proprio perché si colloca fuori dall’esperienza di G., in un io-trascendentale, assolutamente a-temporale, incondizionato, immobile, infinito.
    Dal testo si può dedurre che se G., e il firmatario del testo, sono la medesima persona, d’altra parte, la loro distinzione è fondamentale in quanto si struttura logicamente su due piani differenti: uno è quello della vita quale intesa dal senso comune, legata alla finitezza del tempo con i suoi dolori e le sue miserie, ecc. mentre l’altro, è quello che attraversa senza ostacoli i vincoli spaziali di una reclusione forzata nella biblioteca, per librarsi nello spazio infinito e incondizionato (che solo la memoria – non la mnemotecnica, può effettivamente rammemorare).
    Ulteriore specificazione. Si tratta di distinguere e cogliere una certa mobilità delle dominanze delle varie figure o momenti di uno stesso individuo che sono attivati dalla struttura particolare e specifica del testo.
    “quando finalmente (G.) si decise…. G. è visto da fuori e cioè da un altro (da una terza persona) che non deve essere identificato con il firmatario del testo, e cioè come colui che in un tempo perfettamente definito, si mette materialmente a scrivere, ecc. che in questa funzione il G. del testo e il firmatario del testo si identificano, sono lo stesso.
    Ma tra il G. del testo, e il G. fuori testo (il firmatario del testo) sussiste quel rapporto che c’è tra universale e particolare. In altri termini l’indeterminatezza del “quando finalmente (G.) si decise … toglie G. dalla sua collocazione temporale, che dunque può scorrere in avanti e indietro del tempo e valere paradigmaticamente così da comprendere gli uomini dell’intera umanità, incluso il firmatario del testo come un uomo qualsiasi di quell’insieme, e questo è il contenuto tutto incluso in quell’io trascendentale che si colloca in quell’orizzonte che può osservare tutto questo come la sua propria identità
    5 – La memoria e la scrittura. Una metodologia della ricerca?
    “…cominciò a muoversi frenetico fra cartine e a leggerne avidamente i simboli e i nomi delle località: E ogni volta che il suo sguardo ne incontrava qualcuno conosciuto, che magari aveva letto in qualche romanzo, allora scattava immediatamente in lui la molla del ricordo, il recupero delle trame che l’autore aveva sviluppato proprio in quei luoghi. Quando poi il suo sguardo indugiò sulla penisola balcanica che era l’oggetto specifico della sua indagine, il meccanismo si ripeté con ancora più vigore…”
    Ed era cosi intenso ciò che provava nella rievocazione di questi libri che pian piano ci si abbondonò completamente, in balia dello stesso flusso di emozioni che gli aveva suscitato la loro prima lettura, e ci vagò a lungo, immerso in tal punto in quelle vicende che quando si rinvenne ebbe la sensazione che qualcosa fosse cambiato dentro di lui, qualcosa che l’avrebbe segnato per sempre…”
    In questo passaggio si condensa non tanto una metodologia della ricerca di G. basata sul meccanismo dell’associazione spontanea nè, a mio modo di vedere, le cartine geografiche avrebbero niente a che vedere con una forma di mnemotecnica, in funzione di supplenza della memoria, ma sarebbe piuttosto, come si è più sopra accennato, ciò che precede ogni forma di scrittura e quindi di inizio e che come luogo originario in se infinito e incondizionato rappresenta ciò che di più profondo consiste l’essenza dell’uomo che assiste al manifestarsi del mondo vero.
    Nel chiuso di una biblioteca, nello stato potenzialmente di recluso, ma anche positivamente isolato dal mondo, impegnato in un tra sé e sé, senza infingimenti, condizionamenti, ecc. e dunque a tu per tu con la verità, senza nessun’altra distrazione, ciò che affiora liberamente nella memoria, ciò che giunge effettivamente a manifestarsi in quel flusso di emozioni e di vita vissuta non è altro che l’incondizionato.
    6 – scrittura e tecnica
    “L’incapacità dei giovani … Il mondo era cambiato, la fretta e il consumo aveva rovinato vecchi e giovani. Televisione, computer e telefonini avevano rimbambito gli uomini… i telefonini… si sentì venir meno …”
    Come non vedere nella contemporanea e futura tecnologia una estensione antichissima della tecnica della scrittura?
    Si è insistito e anche nel proseguo del commento si insisterà sull’inizio proprio perché il testo si sottrae al dominio della scrittura e perché in qualche modo si avverte che il pensiero viene prima della scrittura.
    Se nel mito la scrittura è sostituto e riserva della memoria in questo testo si avverte
    di conseguenza una certa resistenza nei confronti della tecnologia, ai telefonini, computer, insomma dell’apparato tecnico-scientifico. Infatti nella misura in cui tale apparato si da come incremento indefinito della sua potenza, determina per converso l’estrema debolezza dell’uomo, e la sua progressiva indispensabilità costringe l’uomo ad essere strumento di tale apparato.
    7 – perché i Balcani?
    Si intuisce che i Balcani sono il luogo storico geografico di elezione dell’autore,
    All’incontro dei nomi su una carta geografica affluiscono realtà che non sono semplicemente dei ricordi, tali da poter essere interpretati in chiave nostalgica, ma vanno a configurare il grande mosaico metafisico dei Balcani, a partire da una citazione di Magri: “Strada che univa l’Europa e l’Asia, la Germania la Grecia, lungo la quale la poesia e il verbo, nel tempo del mito, erano risaliti a portare il senso dell’essere all’occidente tedesco… è il fiume lungo il quale si incontrano, si incrociano e si mescolano genti diverse, anziché essere, come il Reno, il mite custode della purezza della stirpe.”
    E “Il Danubio, dunque, come simbolo universalistico e di convivenza di culture e civiltà, in contrapposizione alle pretese identità esclusive che si sarebbero scatenate di lì a poco nella penisola balcanica.”, è il commento di Repetto che palesa che i Balcani (nel complesso storico -geografico) rappresentano un modello ideale rispetto a quel modello delle identità esclusive che nei Balcani avrebbero poi scatenato la guerra. Ed è forse per questa distinzione che la configurazione storico-geografica dei Balcani assurge a valore metafisico. Lo si è anticipato fin dal primo capitolo, quell’indeterminatezza presupposta all’inizio del racconto, non è lasciata alle spalle o dimenticata, infatti l’inizio non è altro che l’apertura della struttura originaria del racconto che include in se e fa proprio quel vuoto e quell’assenza infinita, per lasciare affiorare in esso, incontaminato, il mondo vero. Questo mondo vero non si configura come astrattamente e idealmente concepito, ma realmente esistente sulla terra, percorribile in tutti i sensi e che compone il grande mosaico delle etnie e delle civiltà armoniosamente integrate in un unico Destino.
    Da notare anche qui come la citazione presupponga una struttura di implicazione su perlomeno due livelli. La citazione si pone, come tante altre presenti, come logicamente inclusa nel testo, per cui il testo che le comprende impone che l’esito di questi momenti astratti siano mediati e cioè siano visti in relazione al risolvimento del loro valere semplicemente come ambiti astrattamente separati gli uni dagli altri. In questo senso si viene a coinvolgere l’intera cultura occidentale emblematicamente qui rappresentata dal mosaico storico-geografico, artistico, letterario dei Balcani, inteso non come un luogo qualsiasi ma come un luogo di elezione.
    8 – Gli acronimi (G., L., S.)
    In genere l’ acronimo, si definisce come un nome formato con le iniziali di altre parole, ma in questo caso che senso avrebbe ridurre il nome proprio ad una singola lettera alfabetica, la G., in maiuscolo? È che si sostituisce il nome proprio, con qualcosa di totalmente impersonale come una lettera dell’alfabeto, e d’altra parte con la maiuscola lo si eleva e lo si nobilita e soprattutto lo si universalizza. Quindi G. rappresenta il qualsiasi uomo.
    9 – la posizione dell’antenato.
    L’antenato apparentemente lontano nel tempo (metà Ottocento) di cui si sa quasi nulla, era andato a Belgrado a recuperare il figlio del marchese di L. in fuga d’amore. (di cui G. si è deciso di scrivere la storia documentandosi presso una biblioteca di provincia)
    Se si tiene conto che per lo più nello sviluppo del racconto, questo che sarebbe dovuto essere lo scopo primario di G., in effetti è ripetutamente dimenticato, in quanto G. si lascia sviare, distrarre dall’abbondante materiale presente nella sala decentrata della sezione della biblioteca, porta ad interrogarsi attorno al senso di questo che a prima vista sembrerebbe semplicemente un pretesto, un espediente narrativo fatto apposta per lasciare a bocca aperta il lettore, poco accorto, che si sarebbe forse incuriosito di più alle vicende amorose del figlio del marchese, che delle cartine geografiche di G….
    Ma si è visto che G. non è altro che l’alter ego del firmatario del testo, che decide di scrivere di questo antenato che era andato a Belgrado per recuperare il figlio del marchese in fuga d’amore. Ma quello ordito è una forma di inabissamento nel tempo di tutte quelle figure: antenato, figlio del marchese, il marchese, la fuga d’amore, che possono essere riunite sempre e sotto un medesimo soggetto e cioè il firmatario del testo. Così considerato il firmatario del testo si profonda nel passato, travestito da antenato e nobilitato dal titolo di marchese, il cui figlio non è altro che la propria opera, ovvero lo stesso racconto in via di farsi, lungo i sentieri e i fiumi di questo straordinario luogo storico-geografico che sono i Balcani.
    10 – la dialettica del testo
    Una serie di luoghi comuni sono destrutturati e consumati, sotto la pressione sempre più concreta di morire di fame. Ad es, è plausibile che in una settimana una persona possa morire di fame? No, la scienza dice che ce ne vogliono minimo due settimane.) Ma anche qui, non si tratta di introdurre delle verità scientifiche che suggellino un accordo su base intersoggettiva, proprio perché si tratta di un testo letterario in cui occorre mantenere le cose tra il plausibile e l’improbabile, insomma è plausibile che senza mangiare si possa morire di fame. È improbabile che ciò avvenga in una settimana, il che mantiene il testo in uno stato di sospensione rispetto al vero significato delle parole che non è mai il significato che troviamo nel vocabolario, o in qualche testo scientifico ma che emerge dalla relazione strutturale delle parti costitutive del testo.
    11 – Epilogo
    La citazione tratta dell’ Auto da Fe di Canetti : “Sale fino al sesto gradino, sorveglia il fuoco e aspetta. Quando finalmente le fiamme lo raggiungono lui ride forte, come non ha mai riso in tutta la sua vita” è inclusa come una tessera in quello che abbiamo definito il grande mosaico metafisico dei Balcani. La fine di G. non è meno tragicomica di quella di Kien. Ma quella anticipazione non si offre semplicemente come una possibile ispirazione per un finale egualmente tragicomico, appunto perché l’inclusione di quella citazione implica una struttura in cui si considerano i due finali di morte su due piani logici differenti, ma sottesi ad una identità che le trascende.
    Si è rilevato che l’inizio del testo è congeniato in modo tale da distinguere oltre che le tre figure ( G., L’io trascendentale, l’antenato) ovvero momenti astratti di un medesimo soggetto concreto, anche un Prima dell’inizio della decisione di scrivere, dato come un vuoto o un’assenza infinita in cui il farsi del racconto avrebbe determinato le condizioni per lasciar sorgere, affiorare e manifestarsi in esso il mondo vero, qui indicato dal grande e complesso mosaico, universalistico, armonicamente integrato, inclusivo di etnie e culture diverse: i Balcani, luogo di elezione, in opposizione a situazioni, puramente oppositive, tendenti ad escludere il diverso.
    Fin dall’inizio di questo racconto abbiamo rilevato l’esistenza di un “io trascendentale”, infinito, immobile, che non appartiene alla esperienza. Sovrintende all’evento, lo contempla da fuori, vede l’accadimento della propria vita breve, vede quindi la finzione in cui consiste la propria morte, vede l’impotenza e il fallimento della morte e dunque anche della volontà storica dell’umanità di opporsi ad essa. Infatti è nell’Aperto che giunge a manifestarsi il mondo vero (rappresentato emblematicamente dai Balcani) oltrepassando le barriere costrittive della biblioteca, non vi può essere la morte e qui l’io-trascendentale può ridere come mai un uomo mortale potrebbe fare della propria come dell’altrui morte.
    12 – non prendere la luna per il dito che la indica.
    “….. Ho fame, cominciò a dire, ho fame, devo assolutamente mangiare qualcosa …. E cosa?… ci sono solo libri… quante volte l’avevo detto che i libri erano il vero cibo della sua vita… Ma dopo aver riflettuto sul fatto che era solo… una metafora, lo capiva un bambino …. e le metafore non avevano mai sfamato nessuno…” non trova di meglio che andare alla ricerca del sostituto del cibo e cioè il libro delle ricette per mangiarlo.
    Ne esce una critica feroce e impietosa contro chi scambia la realtà per il segno che la indica. Si dovrebbe a questo punto rileggere il testo dall’inizio considerando il carattere di sostituzione operato dalla scrittura. Ne sortirebbe certamente qualcosa di inaudito.
    Definitivo fallimento di questa immensa riserva di sapere e di conoscenze custodita nelle biblioteche? Saperi e conoscenze che come nel mito egizio della scrittura misura la nostra dipendenza dalla tecnica piuttosto che l’autentica essenza dell’uomo?
    Come non vedere una sorta di apologia radicalmente critica all’isolamento che produce il troppo sapere, la troppa conoscenza, rispetto a ciò che è veramente necessario?
    13 – un’esperienza che sembrava più letteraria che vera.
    G. riflettendo sulla sua disavventura: “Ora gli sembrava che quella disavventura fosse una cosa da raccontare ai pochi amici che aveva, un’esperienza che sembrava più letteraria che vera.” Apparentemente è solo un espediente retorico quello di affermare all’interno di un testo letterario che la realtà sembrava letteratura piuttosto che un’esperienza vera come si sarebbe dovuto effettivamente e ovviamente riconoscere. Il che costringe in effetti il lettore ad una sorta di corto circuito. Anche la realtà vera è pur sempre avvolta dal pensiero e dunque in seconda istanza dal linguaggio. Affermare che un’esperienza sembrava più letteraria che vera, espone ad una contraddizione, in quanto si ritiene che si dia una esperienza fuori dal pensiero, separata dal pensiero, proprio nel momento che la si pone come contenuto del pensiero.
    Nel momento in cui la realtà la si racconta ai pochi amici, non è più quella realtà che si è effettivamente vissuto, e d’altra parte quella realtà vissuta appare essa stessa avvolta dal pensiero, in quanto fuori dal pensiero non può essere posto nulla.
    D’altra canto il mondo è portato dentro nel linguaggio del senso comune e della scienza, ma qui il linguaggio è scambiato per il pensiero, e in questo scambio e sostituzione il pensiero è interamente rimosso.
    14 – Considerazioni sull’utilità o meno dell’arte poetica
    Che la poesia e la letteratura non garantiscano la sopravvivenza fisica dell’uomo rende incline l’uomo comune a pensare che le arti sono fondamentalmente lavoro inutile, che all’insegna del primum vivere deinde philosophari, si ritiene più importante e primario la sopravvivenza del corpo rispetto alla libera creatività dello spirito. Non ci si rende conto che il pensiero viene prima di ogni parola e che solo una parola filosofica può essere consapevole di questo.
    La prima istanza dell’artista o del poeta è di trarre nell’opera il proprio mondo, un nuovo mondo rispetto a quello esistente giudicato più o meno implicitamente come negativo, inospitale e se certamente il filosofo si preoccupa di distinguere il vero dal falso, del mondo che qui e ora è manifesto, il poeta non si preoccupa di stabilire se il mondo costruito a propria immagine e somiglianza è vero o falso, è il suo e questo gli basta. Tuttavia se all’artista o al poeta non interessa stabilire la verità del mondo e quindi di affermare un mondo la cui negazione sia falsa, questo iato tra filosofia e attività creativa poetica risale a quell’antichissimo dissidio che già Platone nel libro X della repubblica denuncia fra filosofia e poesia, dove per filosofia si intende la scienza della verità o episteme (mettere in luce ciò che di per sé è in luce ) rispetto alla poesia che è mettere in luce ciò che di per sé non è in luce, e che quindi si caratterizza come produzione di qualcosa che come tale non esiste attualmente e che si trae fuori dall’oscurità dell’inesistente.
    La verità è dunque un giudizio sulla verità o falsità del mondo esistente, l’arte in genere non si struttura nella forma di un giudizio di verità, l’artista produce un nuovo mondo, il che lascia sussistere implicitamente che il mondo in cui vive sia privo di verità e quindi che è un mondo falso. Platone dice anche che i poeti mentono molto.
    E se la verità punta all’essenza delle cose, l’artigiano produce le cose che si credono vere, (ma Platone dice che delle cose sensibili che mutano non vi può essere scienza), il pittore che dipinge ad es il tavolo dell’artigiano mima qualcosa di sensibile che già non ha verità, quindi il pittore si trova 3 volte lontano dalla verità.
    E tuttavia la finzione letteraria che si è cercato in qualche modo di mettere in luce in questo testo, mette in guardia sull’equivoco che è sempre presente in ogni comunicazione, e questo costante dubitare del significato delle parole acuisce il senso critico, abitua a trovare il senso originario delle cose nella relazione tra le stesse e introduce un radicale scetticismo nei confronti della parola del senso comune, fa intuire quello che si presenta per sua natura come indicibile o meglio, rende consapevoli del fatto che il pensiero, inteso concretamente come relazione originaria tra le cose, in se invisibile, precede le cose e fuori di esso non può essere posto nulla.
    La produzione poetica si caratterizza come finzione e quindi come libertà di trasgredire, manipolare a proprio piacimento la realtà. Mette dunque in discussione quelle certezze che la stessa filosofia fin dalle origini ha stabilito che fossero delle certezze innegabili.
    Ma il mettere in scena le finzioni che abitano la parola significa mettere in discussione il significato abituale delle parole per far affiorare in esse anche la verità, quella assolutamente stabile.
    15 – Post-scriptum
    Rileggendo questo commento, che per ragioni di spazio abbiamo dovuto ridimensionare di parecchio, è molto probabile che possa apparire abbastanza discontinuo e anche in tutto o in parte incomprensibile, ma quello che noi abbiamo cercato di rilevare, di là di quelle che possono essere state le autentiche intenzioni di G. Repetto è dire cose che sono presenti nel testo pur se in una forma implicita.
    Carlo Tognolina Fusine 29/08/2022

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