Appello a un popolo che non deve disperdersi se vuole contare ancora nel futuro del nostro paese
In questo anno fatidico per la Sinistra sudamericana – che con Lula ha rivinto le elezioni in Brasile e in Colombia è andata al potere per la prima volta nella Storia del paese – e di successo anche per quella europea – la socialdemocratica Mette Frederiksen si è riconfermata primo ministro in Danimarca e in Francia la Nouvelle Union populaire écologique et sociale (Nupes) di Mélenchon è diventata la prima forza di opposizione all’Assemblea Nazionale togliendo a Macron la maggioranza assoluta dei seggi – in Italia invece i risultati delle elezioni del 25 settembre scorso sono stati per la Sinistra i peggiori dal secondo dopoguerra ad oggi. Ma non sono giunti inaspettati in quanto sono la logica conseguenza di che cosa è diventata la Sinistra italiana in questi ultimi anni. O almeno di che cosa sono diventate le organizzazioni politiche che ancora fanno riferimento alla storia di questa idea politica e alla sua denominazione. Ma proviamo ad analizzare i fatti.
Innanzitutto occorre fare una premessa: c’è una ragione oggettiva in questo cambiamento, di cui non si può non tenere conto, la stessa ragione che ha sgretolato negli ultimi due decenni del secolo scorso l’impero sovietico. Ed essa è la società del consumo, quel progresso/specchietto per le allodole che ha ubriacato dal secondo dopoguerra in poi il mondo occidentale accerchiando sempre più l’autarchia dei paesi d’oltrecortina. Se i loro regimi sono crollati, insieme a quello del padrino sovietico, non è stato per il tanto sbandierato desiderio di libertà politica, ma per quello spasmodico di accedere ai beni di consumo. Quando, ad esempio, i cittadini di Berlino Est hanno potuto riversarsi liberamente nella parte occidentale della città, la prima cosa che hanno fatto è stata quella di comprare beni di consumo a lungo sognati. Ripeto, beni di consumo, non di prima necessità.
Ma, contemporaneamente a ciò che avveniva in quei paesi, qui da noi c’è stato un vero e proprio dilagare del consumo e Silvio Berlusconi, che ne è stato uno dei principali promotori attraverso le sue tv commerciali, temendo che la sua libertà di “vendere” potesse essere conculcata dagli ex comunisti italiani ha deciso di “scendere in campo” con un suo partito azienda – con uno slogan per nome – e di “sdoganare” gli ex fascisti per poter ottenere la maggioranza nel paese. E come ha deciso di fronteggiare quest’attacco frontale la Sinistra? Adeguandosi al modello e dimostrandosi spesso, per accattivarsi il voto moderato, più realista del re. Ecco che improvvisamente quella diversità rivendicata per tanti anni (si pensi a Berlinguer…) è venuta meno e la maggioranza dei nuovi leader e quadri della Sinistra ha cominciato a coniugare l’impegno in politica come una carriera individuale ben remunerata comunque dovesse finire la contesa. E a quel punto era più facile parlare al ceto medio che non al proletariato, al quale si chiedevano sterzate su sterzate riguardo all’ideologia professata fino ad allora. E così costoro hanno sciolto prima il PCI, ritenuto ormai inadeguato e condannato irrimediabilmente dalla Storia, dando origine al Partito Democratico della Sinistra, poi Democratici di sinistra e infine, dal 2007, Partito Democratico. E possiamo dire che quest’ultimo è l’erede spurio del Partito Comunista Italiano, che qualcuno pensava di poter modellare sull’esempio improprio dei Democratici americani, un contenitore largo di idee progressiste che ha badato più a sviluppare i diritti civili dei cittadini che ad interpretare oggettivamente i bisogni e i desideri degli italiani più deboli e più fragili sul piano economico e sociale. E in particolare di quegli italiani che, forse per difficoltà a recidere il cordone ombelicale che ancora li legava al vecchio PCI, continuavano a votare quel nuovo partito nonostante esso si fosse allontanato sempre più da loro e portasse avanti istanze maturate nell’ambito delle nomenclature dirigenti e per niente condivise con la base. A meno che non si voglia considerare base quella piccola casta di dirigenti periferici che per autoconservazione e ormai per mestiere ha presenziato immancabilmente alle kermesse che questi gruppi dirigenti hanno organizzato negli anni in modo sempre più elitario e spettacolare.
Nel frattempo la situazione dei lavoratori nel paese è continuata a peggiorare con la perdita di migliaia di posti di lavoro sia per i processi di automazione dei meccanismi produttivi e distributivi sia per la progressiva e spesso selvaggia (aziende trasferite durante il periodo di ferie…) delocalizzazione delle imprese in quei paesi della Nuova Europa che sono diventati la terra promessa degli imprenditori e speculatori della Vecchia Europa. Ma nessuna difesa tempestiva, argomentata e convinta – di lotta, si diceva una volta – è stata fatta da parte del PD di questi lavoratori sfrattati dal posto di lavoro, così come non è stato fatto niente per risolvere il problema dei lavoratori precari sia del settore pubblico che privato che spesso hanno dovuto rassegnarsi a quella condizione permanente di precariato come se fosse la norma di una società che dice di essere civile e solidale.
Stiamo dunque parlando di un partito che, come espresso pubblicamente da uno dei suoi dirigenti di lunga data (facente parte della casta dei garantiti della politica), è stato lontano da quel popolo che costituiva il suo elettorato tradizionale, in genere proletario e urbano, per inseguire il consenso di quel ceto medio/alto progressista, cosiddetto radical chic, quello delle terrazze parioline romane e di via Montenapoleone a Milano, con il risultato di ottenere più voti nei santuari della borghesia che nei quartieri periferici delle città, là dove imperano la precarietà e il bisogno. Ecco dove sta la ragione della sconfitta di un partito che non è più di Sinistra ed è ostaggio di un centro – quello di “Calandrino” Renzi e “Don Pasquale” Calenda – pronto a stare con chiunque.
Ma se questa è la situazione dell’attuale PD, che ne è della Sinistra Sinistra e dell’universo ingolfato e contradditorio che ha espresso in questi anni? Litigiosità, faziosità, pressapochismo, personalismo, incultura politica, assenza di idee: ecco che cosa ne è. Tutti quegli innumerevoli partitini o cartelli di sigle che sono spuntati come funghi e che in vario modo si richiamavano a una matrice di Sinistra non sono mai riusciti a trovare una quadra tra di loro, hanno preferito sbandierare la purezza delle proprie ortodossie anziché cercare di trovare punti d’incontro per una piattaforma politica unitaria e credibile da condividere insieme a quella base sociale, proletaria e sottoproletaria, che dovrebbe essere il loro costante riferimento. E così, inevitabilmente, hanno perso ogni attrattiva nei confronti del loro potenziale elettorato, nonostante ci sia una massa consistente di elettori di Sinistra che, stufa di votare turandosi il naso, non ci va nemmeno più a votare accrescendo il malessere della nostra democrazia. Tra tutta questa inconsistenza una nota di merito va fatta e riguarda i centri sociali e l’azione solidale da essi intrapresa durante la crisi del Covid (Brigate alimentari). Perché, oltre ad essere stata un’operazione umanitaria di grande importanza, ha indicato ciò che dovrebbe fare la Sinistra in generale: stare in mezzo alla gente, essere concretamente vicino ad essa soprattutto nei momenti del bisogno e proporre politiche sociali che abbiano un riscontro nella realtà e non siano analisi solo intellettualistiche. “Fatti, non parole” era uno degli slogan della Sinistra negli anni Sessanta. Bene, si torni ad essi.
C’è poi la novità dei Cinque Stelle, ovvero della svolta di quel Movimento discutibile e discusso che con Giuseppe Conte sta diventando un vero e proprio partito – neanche a dirlo – sulle ceneri della Sinistra. Noi non siamo convinti che possa rappresentare l’approdo futuro del popolo della Sinistra: ne condividiamo questo nuovo corso e riteniamo che possa e debba essere un interlocutore privilegiato per politiche di ampie alleanze, ma l’idea che abbiamo noi di un nuovo partito della Sinistra che riunisca tutto il suo popolo sotto una stessa sigla e uno stesso modo di fare politica non può prescindere da quelle radici che sono la Memoria storica delle conquiste sociali e civili faticosamente raggiunte dai primi del Novecento ad oggi e che hanno avuto nella Resistenza e poi nella Costituzione la loro definitiva consacrazione. E questo non perché anche noi abbiamo difficoltà a recidere un cordone ombelicale, ma perché quei principi e quelle conquiste sono ancora oggi un patrimonio culturale e politico imprescindibile per svolgere un’azione politica efficace in difesa delle fasce più deboli della società. Alcuni ci obiettano che facciamo riferimento a strumenti ormai sorpassati, che ora i bisogni sono altri e che certe politiche assistenziali di welfare non sono più sostenibili economicamente, ma se proviamo a chiedere loro di illustrarci quale sarebbe l’alternativa ciò che propongono sono politiche economiche che richiedono un forte scarto, umano s’intende, in base alle quali uno si salva soltanto se ha le qualità per salvarsi perché comunque i costi sociali sono connaturati a qualsiasi forma di società.
Ma noi non accettiamo questa visione del mondo e lo facciamo riprendendo da quella nostra Memoria il principio del mutuo appoggio del socialismo ottocentesco, della solidarietà come norma della convivenza civile, della liberazione progressiva dal lavoro come emancipazione sociale e culturale. Perché il fine delle democrazie anche liberali è, come si ripete nella Dichiarazione d’indipendenza americana e nella Costituzione francese del 1793, il perseguimento della felicità per ciascun individuo senza distinzioni di sorta.
Dobbiamo dunque lavorare tutti insieme, anime e popolo della Sinistra, per costruire una forza politica dinamica, fortemente dialettica, ma anche capace di decidere unitariamente, e che sappia assumere compiti di governo locale e nazionale, ma anche fare un’opposizione intelligente e puntuale come fece il vecchio PCI negli anni Settanta quando, pur essendo all’opposizione, riuscì a condizionare, soprattutto a livello sociale, le scelte dei governi dell’epoca. E questa forza deve avere alcuni capisaldi imprescindibili che la proiettino nel futuro delle sorti del pianeta e delle sue popolazioni:
- il pacifismo non violento come educazione permanente per giovani e anziani e il no alla guerra in tutte le sue forme come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione;
- la difesa e l’incremento dell’occupazione e del lavoro secondo il principio “lavorare meno, lavorare tutti” (35 ore a parità di salario; settimana corta di quattro giorni);
- la tutela dell’ambiente tramite scelte energetiche a basso impatto ambientale (energie rinnovabili, no al nucleare), politiche di salvaguardia della biodiversità animale e vegetale e colture agricole che utilizzino sempre meno acqua: solo in questo modo potremo affrontare seriamente il cambiamento climatico in atto;
- investire maggiori risorse nella sanità pubblica, sia in personale che in strutture, in modo che tutti possano usufruirne secondo le proprie esigenze al massimo livello e con tempestività, e nel welfare rafforzare i servizi di assistenza domiciliare per disabili e per anziani e istituire un salario sociale per i più disagiati che li preservi dalla soglia della povertà di ritorno che la società dei consumi sta producendo;
- fare un’adeguata manutenzione delle infrastrutture esistenti (in particolare quelle autostradali e ferroviarie, che in molti casi stanno cadendo a pezzi) e abbandonare la logica delle grandi opere inutili (vedi TAV e ponte sullo Stretto) che servono solo a distribuire soldi dei contribuenti ai soliti noti;
accogliere i flussi migratori con umanità ed organizzazione (secondo accordi europei che dovrebbero coinvolgere tutti i paesi membri dell’Unione, ma anche secondo l’art. 10 della nostra Costituzione) e non lasciare i migranti in balia di un mercato della loro gestione da parte di gruppi e cooperative che talora speculano sulla loro pelle.
Se la Sinistra italiana non avrà il coraggio di essere Sinistra, sempre e comunque, e quindi di sottrarsi alla logica dei patti scellerati tra oligarchie politiche e potentati economici e di rivendicare l’autonomia della politica e il suo ruolo guida nelle scelte economiche e sociali del nostro paese, il suo destino sarà quello di estinguersi e di estinguere con essa una storia che viene da lontano che ci ha dato la libertà di cui godiamo e per la quale sono morte migliaia di persone che credevano in un mondo migliore, più giusto e più umano. È dunque grande la responsabilità che abbiamo davanti, come possiamo tirarci indietro?
Caro Gianni, sono pienamente d’accordo con la tua analisi. Puntuale e preziosa.
Condivido pienamente anche il manifesto con le priorità per una sinistra che sappia guardare avanti senza dimenticare chi è e da dove arriva. Prioritario spostare l’asse sui diritti sociali e sulle disuguaglianze che, in questi ultimi anni, si sono acuite fino ad arrivare a livelli da film distopici. Assolutamente imprenscindibile poi la questione morale contro il “carrierismo interessato”. Aggiungo che credo sia necessario anche uno sguardo sul mondo che sappia andare oltre il limite dell’occidente, oltre i muri e i confini che stiamo nuovamente costruendo, in una dimensione davvero globale. Come giustamenterri scrivi tu in apertura l’America Latina insegna, ma non solo. Dovremmo mettere da parte anche la nostra convinzione di appartenere alla parte giusta del mondo.
Condivido la necessità di ripartire dal pacifismo e dalla nonviolenza. Credo sia necessaria, oggi più che mai, un’analisi precisa del mercato delle armi e delle sue direzioni. Ci aiuterebbe a capire tante cose e il perchè di tanta propaganda bellicistica. Credo infine, che dovremmo avere l’umiltà di ammettere le sconfitte e gli errori e provare a ricostruire con orgoglio la sinistra, chiedendo l’aiuto dei nostri ragazzi, quelli ai quali la nostra generazione, con una follia cieca e un egoismo insaziabile, sta negando la speranza del futuro. Chiediamo loro scusa, e proviamo, insieme, a ripartire. Caro Gianni, io ci sono.
Sabrina