La tana del lupo

Un racconto partigiano

La grotta aveva un’apertura bassa e stretta e bisognava accucciarsi per entrare. Poi, appena dentro, la volta si alzava e in alcuni punti ci si poteva stare anche dritti in piedi. Ma l’antro era stretto e poco profondo e c’erano potuti entrare solo in cinque, ché di più non ce ne potevano stare. E anche loro ci avevano appena lo spazio per rigirarsi e sarebbe stato duro resistere lì dentro per qualche giorno. Rannicchiati l’uno contro l’altro, cercavano in qualche modo di scaldarsi. Fuori cominciava a imbrunire e la notte sarebbe stata fredda e lunga. Chissà come se la passavano gli altri.

All’improvviso un’ombra oscurò l’apertura. Si ritrasse per un attimo e poi tornò a incombere sull’entrata. I partigiani si guardarono perplessi, ormai i loro compagni erano da un pezzo dentro gli altri nascondigli. Che fossero già arrivati i nazisti? Bastò il balenare dell’idea a lasciarli senza respiro.

  • C’è qualcuno qui? – disse una voce da fuori. Per i cinque partigiani fu come una liberazione.

Era la voce di “Eolo”, così marcatamente nasale che era impossibile confonderla.

  • “Eolo”, a momenti ci fai morire di spavento! Che c’è? Che cosa vuoi? – disse “Bimbo” che era stato il più lesto a riprendersi.
  • Sto cercando mio fratello… è mica lì con voi?
  • Tuo fratello? Ma non è andato con il comandante?
  • Non lui, l’altro, il più giovane…
  • Ah, dici “Marte”. No, qui non c’è. Hai già provato dagli altri?
  • Le ho già girate tutte queste grotte e tutti mi rispondono la stessa cosa. Ma dove cavolo si sarà cacciato?
  • Ma perché lo cerchi?
  • Perché io qui non ci sto, sono sicuro che ci troveranno. Bisogna approfittare della notte per andarcene.
  • Andarcene? Ma dove andiamo, chi li conosce questi posti?
  • Io li conosco, sono di Bosio. E comunque è sempre meglio rischiare che starsene qui a fare la fine del topo.
  • Ma siamo disarmati, se li incontriamo non possiamo nemmeno difenderci…
  • E per questo che dobbiamo andarcene di notte. E appena viene giorno ci nascondiamo e aspettiamo di nuovo il buio per ripartire
  • Ma gli ordini? Gli ordini sono quelli di restare qui!
  • Gli ordini? Ormai gli ordini non contano, conta solo salvare la pelle… Ma state a sentire, ho già perso anche troppo tempo: io vado, voi fate come volete.
  • Ehi, aspetta.. – “Bimbo” si rivolse agli altri – Cosa dite voi, andiamo?

Ci fu un attimo di silenzio, poi uno dopo l’altro dissero: – Sì, andiamo.

Quando furono tutti fuori pronti per partire, “Bimbo” chiese a “Eolo”: – E tuo fratello?

Eolo scosse la testa, arricciò le labbra e poi disse: – Se non è neanche qui vuol dire che è già andato. Certo avrebbe potuto dirmi qualcosa…

 

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Quella notte li avevano già sentiti passare una volta i tedeschi, un ciottolio di scarponi chiodati sulle pietre della strada. Ma, come aveva detto il comandante, lì c’era da stare tranquilli, ché non lasciavano mai la strada per addentrarsi nel bosco. Temevano delle imboscate, forse sopravvalutavano le forze partigiane. E ora stavano passando di nuovo, stavolta diretti giù al Gorzente.

I partigiani, rannicchiati dentro i loro nascondigli, ascoltavano quel rumore con trepidazione. Sarebbero andati oltre anche stavolta? Sarebbe stata questione di una manciata di secondi e poi ne avrebbero avuto la certezza. In silenzio, con il cuore che tambureggiava per l’angoscia, aspettavano che il rumore finisse. Alcuni si tenevano per mano, come a farsi coraggio reciprocamente, altri si tormentavano i vestiti e le braccia cercando di scaricare la tensione. C’era anche qualcuno che pregava, con un bisbiglio di sottofondo.

Ma stavolta lì sentì anche il cane. Era un bastardino che qualcuno s’era portato dietro dal paese e che era diventato la mascotte del distaccamento. Avevano cercato di lasciarlo al Roverno quando erano venuti su alla Benedicta, ma lui imperterrito li aveva seguiti e a niente era valso prenderlo a  pietronate per farlo tornare indietro. Fatto sta che era rimasto lì e se l’erano portato anche nelle grotte.

Lì sentì e subito cominciò a ringhiare come fanno i cani quando percepiscono un nemico. Ma il partigiano che lo teneva vicino a sé lo zittì, accarezzandolo e sussurrandogli nelle orecchie. Poi, però, quando ormai pareva che si fosse chetato, cominciò ad abbaiare e nonostante il tentativo che fece il suo custode di trattenerlo, forse anche di strangolarlo, sgusciò fuori dalla grotta continuando ad abbaiare.

Intanto là nella strada si era alzato un vocio confuso – suoni stranieri duri e marziali e qualche parola italiana – che man mano si avvicinava sempre di più. Finché si udì distinta una voce che disse in italiano: – Venite avanti con le mani alzate!

A sentire quella voce il cane si mise ad abbaiare ancora più eccitato. I partigiani, paralizzati dalla paura, sembravano rassegnati, solo qualcuno provò ad uscire con l’idea di scappare. Ma neanche il tempo di farlo che un lampo illuminò la notte seguito da una detonazione che fece volare pietre dappertutto. Pochi secondi e ne seguì un’altra e poi un’altra ancora, finché una non centrò in pieno una grotta da cui si levarono grida lancinanti. Nel frattempo un faro aveva cominciato a scandagliare il bosco e la stessa voce di prima ripeté: – Venite avanti con le mani alzate!

Pian piano tutti gli uomini uscirono dalle grotte, trascinando con sé i feriti che continuavano a lamentarsi. I tedeschi, con i mitra spianati, sbucarono tra le rocce e, con ordini secchi e decisi, cominciarono ad avviare i prigionieri verso la strada. Uno di loro si affacciò alla grotta dove era esplosa la granata e, visto che dentro c’erano ancora dei feriti in un bagno di sangue, con una sventagliata di mitra fece cessare i lamenti.

Quando tutti i prigionieri furono radunati sulla strada, li incamminarono su verso la Benedicta.

 

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Li facevano uscire dalla cappella cinque per volta e i soldati, urlando e battendoli con il calcio dei fucili, li spingevano giù per la strada che andava al Gorzente. Loro si avviavano increduli, non tutti erano consapevoli di quello che gli stava succedendo. Qualcuno piangeva, altri imprecavano, altri ancora si davano la mano per farsi coraggio.

Poi, appena passata la curva sotto la cascina, partivano le raffiche. C’era una mitragliatrice piazzata proprio dirimpetto, la manovrava un bersagliere della San Marco. I corpi, crivellati di colpi, sobbalzavano sul selciato della strada, tra urla di dolore e rantoli di morte. Alcuni si abbracciavano disperatamente. Cessate le raffiche, arrivava un ufficiale che guardava meticolosamente chi era soltanto ferito o moribondo e sparava loro il colpo di grazia. Una squadra di soldati faceva poi rotolare disciplinatamente i corpi nella riva sottostante.

Continuarono il massacro, con perfetta efficienza militare, fino a che la cappella non fu svuotata.

Alla fine novantotto corpi giacquero ammonticchiati nella valletta del rio della Benedicta.

 

“Sia Benedicta!” – Laboratorio di teatralità popolare di Cascina Moglioni – 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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