Resistenza

Canto Notturno

“Sia Benedicta!”

“Le Pietre della Benedicta”

Alla Benedicta c’era la luna


L’Appennino ligure-piemontese è stato teatro, durante il secondo conflitto mondiale, di un’intensa lotta partigiana contro l’occupazione nazifascista. Dalla Val Borbera a Marcarolo, da Olbicella a Ponzone e Piancastagna si sviluppò dopo l’8 settembre del 1943 un’attività di guerriglia capillare volta soprattutto a sabotare le importanti vie di comunicazione che in questi territori collegano Genova e la riviera con la pianura padana; attività segnata da eventi dolorosi, veri e propri eccidi perpetrati dai nazifascisti a seguito di specifiche e organizzate azioni di rastrellamento. Tra questi, uno dei più raccapriccianti per l’entità e le modalità fu l’eccidio della Benedicta.

Anche sulla montagna di Marcarolo, dopo l’8 settembre, iniziarono i primi movimenti di partigiani.  Piccoli nuclei, stanziati in alcune cascine della valle del Gorzente come il Brignoleto e il Lombardo. Ma soltanto nel febbraio-marzo del 1944, soprattutto dopo i bandi Graziani, cominciarono a salire in montagna gruppi sempre più numerosi di giovani renitenti che non volevano combattere per i fascisti. Si ritiene che nella primavera del 1944, al momento dell’eccidio, fossero presenti tra Marcarolo e il Tobbio circa 700 partigiani, raggruppati nella III Brigata Garibaldi “Liguria” e nella Brigata Autonoma “Alessandria”.

Nonostante il numero elevato, i partigiani della prima ora si organizzarono per gestire tutti questi giovani e per garantire loro almeno un minimo di vitto e alloggio. La Brigata “Liguria” si stabilì alla Benedicta e nelle cascine intorno a Capanne (Menta, Poggio, Grilla, Cornagetta, Tugello, Pizzo, i cosiddetti “distaccamenti”) mentre la Brigata “Alessandria” si sistemò alla cascina Roverno con tutti i suoi circa duecento effettivi. Un dato accomunava tutti quanti: la maggior parte dei nuovi arrivati erano disarmati e privi dell’istruzione militare necessaria per affrontare un qualsiasi fatto d’armi.

La zona di Marcarolo era al centro delle direttrici di movimento previste per le truppe tedesche in caso di uno sbarco alleato sulla costa ligure, allora ritenuto molto probabile. Ecco perché la mattina del 6 aprile 1944 l’operazione di rastrellamento scattò in tutta la sua efficienza con l’impiego di circa duemila fanti tedeschi della 356esima divisione e alcune centinaia di italiani tra militi della GNR e bersaglieri.

Una serie di incomprensioni tra Garibaldini e Autonomi rese ancora più difficile la resistenza. Fatto sta che gli Autonomi quella mattina convennero alla Benedicta e non vi trovarono nessuno. Di qui il panico e il dividersi in gruppi ancora troppo consistenti che non ebbero grande fortuna: alcuni furono catturati direttamente alla Benedicta, altri alla Tana del Lupo, zona di cavità ipogee dove si erano rifugiati, altri ancora in giro per i monti mentre vagavano incerti sul da farsi; solo un piccolo gruppo di armati riuscì a sfondare l’accerchiamento verso Voltaggio e a mettersi in salvo. Pertanto, la maggior parte dei prigionieri fatti dai nazifascisti nel corso della prima fase del rastrellamento apparteneva alla Brigata Autonoma che venne in pratica smantellata.

All’alba del 7 aprile novantotto giovani, catturati alla Benedicta e nelle immediate vicinanze, vennero fucilati a gruppi di cinque da un plotone di esecuzione composto da bersaglieri italiani.

Il rastrellamento non ebbe però termine con le fucilazioni: nella notte tra il 7 e l’8 aprile trenta partigiani garibaldini vennero catturati sul monte delle Figne e tradotti a Voltaggio per essere giudicati da un tribunale di guerra; altri quattordici furono trucidati a Passo Mezzano e sette a Isoverde; l’8 aprile ne vennero fucilati tredici a Villa Bagnara a Masone e otto a Voltaggio, tra cui Emilio Casalini, comandante del V distaccamento garibaldino di stanza alla Cascina Grilla, sulla Colma (è l’autore del testo della canzone partigiana “Siamo i ribelli”, scritta e musicata proprio alla Grilla); infine, l’11 aprile, ancora a Voltaggio, vennero giustiziati otto appartenenti alla Brigata “Alessandria”.

Ma oltre ai trucidati, cui si aggiunsero successivamente, un mese dopo l’eccidio, il 19 maggio del 1944, diciassette partigiani fucilati insieme ad altri quarantadue prigionieri politici al passo del Turchino, ci fu un numero considerevole di deportati (duecentosette secondo Manganelli-Mantelli) nel campo di concentramento di Mauthausen, di cui soltanto una trentina fece ritorno alle proprie case.

Un bilancio terribile per il movimento partigiano che faticò a riprendersi dal duro colpo. Tuttavia, già nell’estate del ’44, si era formata la divisione “Mingo” che, pur avendo sede operativa nella valle dell’Orba, aveva distaccamenti anche nella zona di Marcarolo. Allo stesso modo si ricostituì anche la Brigata Autonoma “Alessandria” attorno al nucleo sopravvissuto del comandante Merlo. E se la prima partecipò attivamente nella primavera del ’45 alla liberazione di Ovada e di Genova, la seconda fu protagonista della liberazione di Gavi.