Fabulistica, affabulazione e immaginario dell’infanzia.

Fabulistica, affabulazione e immaginario dell’infanzia.

La fiaba è il genere letterario popolare per eccellenza, sia come genesi sia come narrazione. Nasce dall’esigenza antica di ogni popolo di cambiare con l’immaginario la realtà, in genere amara e sofferta, dando vita a una sorta di mondo capovolto in cui il più debole trionfa, e lo fa riconosciuto simpaticamente da tutti, non perché s’impone con la forza. È l’unico genere in cui il bene trionfa in modo netto, inequivocabile, sul male, che non ha mai elementi di attrazione suadenti. La contrapposizione è secca, manichea, scevra da compromessi. È un’esigenza di chi, in modo altrettanto netto, è abituato a vedere invece trionfare il male, l’arbitrio, la prepotenza con consacrata normalità. Continue reading Fabulistica, affabulazione e immaginario dell’infanzia.

C’era una volta il contafóre

C’era una volta il contafóre

“Il vecchio contastorie finì di raccontare quasi declamando. E lo fece con tanta intensità che quando smise di parlare era completamente esausto. Intorno a lui molti occhi luccicavano commossi e ci fu un attimo di silenzio assoluto. Poi cominciarono i commenti. La gente era entusiasta e guardava Michinùn come se fosse stato una reliquia. Lui stava serio, con gli occhi bassi, e pareva ancora tutto preso nella fóra. Ma appena quelli del Manuà tirarono fuori del focaccino e della polenta arrostita, l’atmosfera cambiò e i fiaschi sulla tavola fecero presto a svuotarsi…”. Continue reading C’era una volta il contafóre

L’identità della pace.

L’identità della pace.

L’identità di un popolo è l’insieme delle caratteristiche culturali e delle tradizioni che un popolo avverte come proprie, tutto ciò che contraddistingue la sua storia e la sua vita su un determinato territorio. Tradizioni e caratteristiche che hanno l’impronta millenaria della cultura rurale che neppure la graduale liquidazione economico-sociale subita nelle varie fasi della rivoluzione industriale è riuscita a cancellare.
Non è, dunque, la Storia con la “S” maiuscola a determinare l’identità di un popolo e neppure il processo storico di formazione delle élite di potere, ma piuttosto il perdurare tra la gente, nonostante l’azione coercitiva da esse esercitata, di relazioni sociali che si rifanno al sistema del cosiddetto “comunitarismo” tribale. Continue reading L’identità della pace.

L’identità contadina.

L’identità contadina.

…Tutto è cambiato nel giro di pochi decenni. Ancora alle soglie del ’900 il grano si tagliava con la falce e si batteva con la verzélla così come si faceva nel Medioevo o nell’antichità romana. Poi, come un cataclisma, il trionfo delle macchine ha sconvolto le nostre campagne. È diminuito drasticamente l’impiego di manodopera, si sono introdotte macchine specifiche per ogni tipo di attività, si sono razionalizzati i poderi per poter utilizzarle al meglio, sono state sostituite le colture tradizionali con altre industrialmente più redditizie, persino il volto della cascina è cambiato con la costruzione di silos per l’immagazzinamento dei prodotti e capannoni per il ricovero delle macchine. Ma insieme a tutto questo è cambiata anche la percezione che il contadino ha di se stesso. Ancora sessanta-settanta anni fa essere contadino era la condizione sociale più diffusa, oggi è una condizione marginale sia numericamente che socialmente. Basta guardare i dati Istat relativi agli addetti all’agricoltura nel nostro paese: 5%. Se si pensa che nel 1951 erano il 42%, si ha l’esatta dimensione dell’esodo biblico determinato dalla meccanizzazione delle campagne e dal concomitante sviluppo industriale del cosiddetto “boom” economico degli anni ’60. Continue reading L’identità contadina.

La solitudine del paesano.

La solitudine del paesano.

È finita, il paese che abbiamo vissuto non esiste più. Svanito nel giro di cinquant’anni: deserta la campagna, stravolto il paesaggio, mutata l’urbanistica e sparita la comunità. Irriconoscibile, da stropicciarsi gli occhi e chiedersi se è ancora lui. Ma sappiamo bene che non lo è più, lo sappiamo talmente bene che non riusciamo a scrollarci di dosso il disagio che proviamo, la malinconia che ci travolge. E non ci consola affatto sentir dire che è sempre stato così, che il tempo passa e le cose cambiano. Perché non è vero: il paese per secoli è cambiato, ma restando sempre se stesso, un paese contadino. Oggi è qualcos’altro, sicuramente non più un paese contadino perché, è un dato di fatto, la sua campagna è in pressoché totale abbandono. Ecco ciò che ha fatto la differenza: il paese ha cominciato a mutare e a morire quando la gente ha lasciato la terra. Continue reading La solitudine del paesano.

Disurbamento e deruralizzazione

Nel secondo dopoguerra i nostri paesi subirono un esodo massiccio di popolazione verso i centri urbani, in particolare Genova, alla ricerca di un lavoro garantito che qui era difficile trovare. Allora, oltre a quel bisogno contingente, sul fenomeno influì anche il fascino della città come luogo dove vivere, con tutte le sue comodità e opportunità: andare a vivere in città voleva dire emanciparsi, uscire da una sorta di condizione servile, come se fosse sempre valido il detto medioevale “L’aria della città rende liberi”. Del resto la maggior parte dei paesani che emigravano veniva da storie di mezzadria che era un istituto giuridico-economico ai limiti della condizione servile. Soltanto chi l’ha provata sa cosa vuol dire: dividere a metà il raccolto con il padrone del fondo, con il rischio di esseri buttati fuori dal podere in modo arbitrario (successe a mio nonno che, come ne “L’albero degli zoccoli” di Olmi, tagliò una pianta per fare appunto gli zoccoli a uno dei tanti figli; un vicino, anche lui mezzadro dello stesso proprietario, fece la spia, viva la solidarietà tra poveri!, e il padrone lo cacciò: dovette andarsene a San Martino, sc-tramigò a San Martin, la data fatidica per entrare e uscire dai poderi), è la condizione più umiliante che un uomo possa vivere… Continue reading Disurbamento e deruralizzazione