IL PROFETA DELL’AMIATA
Testi
– Tradizione locale e cultura universale negli epigoni del Lazzarettismo
– Ruralità e subalternità
– Un drappello di montanari senz’altre armi che il Crocefisso e l’immagine di Maria Vergine
Pubblicazioni
– L’uomo del mistero
– Una macchia di sangue sulla fronte
Approfondimenti
– Centro Studi David Lazzaretti – Arcidosso (GR)
Il movimento religioso di David Lazzaretti è stato studiato nei suoi centoquarant’anni di esistenza da schiere di letterati, di psichiatri e di pubblicisti che lo hanno interpretato da diverse angolature e con i più disparati metodi di approccio. Si spazia, nella bibliografia lazzarettiana, dalla fredda classificazione clinica nell’ambito di una patologia individuale e sociale alla lettura dell’episodio in chiave semplicemente folkloristica, per giungere, nel secondo dopoguerra, all’inserimento del fenomeno in una prospettiva socio – politica con caratteristiche rivoluzionarie. Ma in genere questi autori non hanno saputo cogliere l’originalità del movimento, nonostante siano parecchi gli aspetti che lo rendono interessante: dagli inizi “confessionali” nel 1868, agli sviluppi successivi in senso sempre più riformatore e comunitario, fino all’epilogo cruento, dopo la condanna del Sant’Uffizio, come inevitabile conseguenza della predicazione messianica del profeta.
La vicenda si colloca in un periodo storico particolarmente delicato della storia italiana: siamo negli anni immediatamente successivi all’unificazione del paese, proprio a ridosso della contrastata soluzione della questione romana che segna una frattura profonda tra stato unitario e curia papale. Il profeta amiatino sviluppa il suo pensiero e la sua passione religiosa all’interno di questo clima di scontro e inizialmente, nonostante sia un fervente patriota e abbia combattuto come volontario nell’esercito piemontese nel ’59, subisce l’influenza del revanscismo clericale di quegli anni. Ma ben presto si sottrae alla tutela strumentale della Chiesa ed elabora un percorso autonomo di palingenesi teologica e sociale. Ed è proprio questo atteggiamento millenaristico a segnare il suo destino: pian piano la gerarchia ecclesiastica prende le distanze e lo Stato può procedere alla repressione.
L’ambiente umano è quello della montagna amiatina in cui la figura sociale predominante è quella del piccolo proprietario terriero. Il tipo di conduzione dei terreni, a seminativo nudo o incolto per la pastorizia, fornisce redditi precari che se non fossero integrati con attività complementari (emigrazione temporanea nelle pianure come braccianti avventizi o nelle città per svolgere mestieri vari) non consentirebbero il sostentamento per più di tre o quattro mesi all’anno. Un contesto sociale quindi di frustrazione, estremamente favorevole al sorgere di istanze utopiche di rinnovamento sociale e di giustizia.
David Lazzaretti nacque ad Arcidosso il 6 novembre 1834. Il padre faceva il barrocciaio e David, dopo aver appreso a leggere e a scrivere dall’arciprete del paese, cominciò a fare il mestiere paterno. A quattordici anni gli accadde un fatto che egli ritenne in seguito decisivo per la sua vita: il 25 aprile del 1848, durante un viaggio con il barroccio, ebbe una visione nella quale un frate gli predisse che la sua vita sarebbe stata un mistero. Inoltre, i frequenti contatti con gente diversa contribuirono a stimolare in lui la formazione di una cultura autodidatta tipicamente popolare, basata sulle Sacre Scritture, sulle vite dei santi, sui poemi cavallereschi e, ai livelli più alti, su Dante e su Tasso. A ventidue anni si sposò con Carola Minucci, una sua compaesana, e dal loro matrimonio nacquero cinque figli dei quali soltanto tre sopravvissero.
Il 25 aprile 1868, a distanza di vent’anni dalla prima, David ebbe un’altra visione nella quale il frate gli riconfermò il mistero della sua vita e lo invitò a recarsi dal Papa a rivelargli quanto aveva visto. Nel settembre dello stesso anno David andò a Roma da Pio IX, dal quale si aspettava chissà quale accoglienza e investitura; ma deluso dalle sue parole di convenienza, si ritirò tra i ruderi di un convento a Montorio Romano. Qui rimase per circa tre mesi, facendo vita da penitente, assistito da un frate tedesco dedito all’ascetismo.
L’incredibile mutamento di vita e i discorsi di intonazione profetica che David pronunciò al suo ritorno al paese suscitarono un certo fermento tra la popolazione per cui il clero locale, pur mantenendo sempre le distanze, cercò di coinvolgerlo nelle cerimonie religiose per sfruttarne il carisma ed evitare eventuali deviazioni dottrinali. E in effetti da questi primi discorsi emerge che David voleva inizialmente farsi promotore solo di una generica moralizzazione dei costumi, senza ancora accennare a una sua missione e a una vera e propria riforma della Chiesa. Ben presto, però, disgustato dalle manovre che avvenivano alle sue spalle, si rifugiò a Monte Labro, nel podere di un amico. Qui, nel luglio 1869, dopo alcuni periodi di ritiro spirituale tra cui rilevante quello all’isola di Montecristo, David costruì sul picco del monte, aiutato dai primi seguaci, una torre a forma di tronco di cono che doveva essere nei suoi progetti il primo edificio e simbolo della nuova Sion. In seguito furono costruiti, su un ripiano sottostante, anche un eremo e una cappella con i quali David poneva le basi concrete per l’istituzione di un ordine monastico laico tra i suoi seguaci: il Pio Istituto degli Eremiti Penitenzieri e Penitenti. Contemporaneamente fondò anche un’istituzione di impronta sociale per far fronte alle necessità della pratica cristiana quotidiana: la Santa Lega della Fratellanza Cristiana. E proprio in seguito alla fondazione di quest’ultima venne arrestato per la prima volta con l’accusa di frode continuata, da cui venne prosciolto dopo alcuni mesi di domicilio coatto a Scansano.
David tornò a Monte Labro ancora più convinto della necessità di fondare un istituto che andasse incontro alle esigenze terrene e materiali dei suoi seguaci. Fondò così la “Società delle Famiglie Cristiane”, che fu un vero e proprio esperimento a carattere collettivistico: fu costituita infatti una società universale di beni, di opere e di guadagni, nella quale ogni socio doveva attendere al proprio lavoro quotidiano assieme alla famiglia. A questo punto molti possidenti, che fino ad allora si erano dimostrati entusiasti delle sue idee, impauriti dai possibili sviluppi sociali del nuovo istituto si allontanarono da lui.
Nel frattempo David, ripreso dall’ansia di completamento divino che lo tormentava, decise di recarsi in Francia sostenendo che là Iddio lo chiamava, stimolato forse dalla fantasia delle sue origini transalpine. Nel maggio 1873, dopo una breve permanenza a Torino nella casa di Don Bosco, giunse alla Gran Certosa di Grenoble, dove condusse, dal maggio al settembre 1873, una vita di rigida penitenza e scrisse il libro “I Celesti Fiori”, nel quale cominciò ad enunciare gradualmente la propria dottrina lasciandosi alle spalle la vecchia ortodossia. Il libro contiene infatti la conferma dottrinale dell’investitura ricevuta nella grotta di Montorio Romano: la Madonna riconosce in David il vero nuovo salvatore, “colui per la cui pietà sarà usata pietà e misericordia per altri sette mesi, pure potrebbero essere anni, dall’irata giustizia dell’Altissimo”.
Al suo rientro a Monte Labro, nel novembre 1873, David venne arrestato per la seconda volta con l’accusa di truffa continuata, di vagabondaggio e di cospirazione politica, ma venne assolto dopo il processo d’appello. Recuperata la libertà, si trovò a dover fronteggiare il dissesto finanziario dell’istituto da lui fondato, per cui fu costretto a scioglierlo e a tenere in piedi soltanto l’iniziativa del lavoro collettivo.
Ma David a Monte Labro non riusciva a trovare pace e allora nell’ottobre 1875 si trasferì con tutta la famiglia di nuovo in Francia, ospite stavolta di un magistrato francese, Leone du Vachat, un nostalgico legittimista. In casa di quest’uomo David ebbe modo di condurre vita da penitente e di dedicarsi alla stesura di nuove opere: sono di questo periodo il “Manifesto ai popoli e ai principi cristiani” e, soprattutto, “La mia lotta con Dio”, l’opera lazzarettiana più complessa dal punto di vista dottrinale. In essa l’autore sostiene di essere stato rapito in Dio per 33 giorni e di aver avuto “sovrumane rivelazioni” con l’ordine di comunicarle ai popoli. Da questo dialogo è scaturito un “patto di nuova alleanza”, l’unico che potrà evitare l’ira divina nei confronti dell’umanità. E proprio lui, David, Cristo nella seconda venuta, ha il compito di promulgare la legge del diritto, di annientare le schiere degli empi e di instaurare su questa terra una società di santi, il regno dei giurisdavidici.
Il contenuto del libro fu ritenuto eretico dalla Curia Romana e proprio da esso prese il via il processo inquisitorio che condannò tutti gli scritti del profeta. Quando poi, infatti, alla notizia della morte di Pio IX, David inviò a Roma i tre editti al “Codice della Riforma dello Spirito Santo”, con i quali annunciava l’avvento dell’era della riforma dello Spirito Santo e la fine della successione dei sommi pontefici romani, fu convocato immediatamente dal tribunale del Sant’Uffizio. Nel marzo 1878, dopo una breve sosta a Monte Labro durante la quale si manifestò come nuovo Cristo ai suoi seguaci, David si recò a Roma dove, nel convento dei Santi Giovanni e Paolo, fu sottoposto a processo. Il risultato fu un atto di ossequiente sottomissione alla Chiesa e un invito ai suoi seguaci a imitarlo. Depresso e sfiduciato, rientrò in Francia “ad attendere i risultati dei divini disegni e voleri”. Ma ai primi di luglio tornò a Monte Labro tra la sua gente, accolto da un gran concorso di folla. Il 15 agosto celebrò con i suoi seguaci la festa dell’Assunta e il mattino del 18 scese dal monte alla testa di un’imponente processione diretta ai santuari di Arcidosso e del vicino paese di Casteldelpiano con il preciso intento di manifestarsi come Cristo duce e giudice. All’ingresso di Arcidosso la processione venne fermata dalla forza pubblica che sparò sulla folla colpendo a morte Lazzaretti e altre tre persone. David morì dopo una lenta agonia la sera stessa e i suoi seguaci furono arrestati e condotti prima nelle carceri di Arcidosso e poi in quelle di Santa Fiora, di Scansano, di Grosseto, di Livorno, di Firenze e infine di Siena dove si svolse il processo a loro carico. Il 9 novembre 1879 i giudici della Corte d’Assise di Siena pronunciarono la sentenza di assoluzione dall’accusa di “aver commesso atti diretti a rovesciare il governo e a mutarne la forma, nonché a muovere la guerra civile ed a portare la devastazione e il saccheggio in un Comune dello Stato”.