Una donna presidente? Un presidente donna

In vista delle elezioni del Capo dello Stato all’inizio dell’anno prossimo da più parti ci sono stati pronunciamenti affinché il prossimo presidente sia finalmente una donna. Persino il presidente uscente Mattarella ha caldeggiato questa soluzione che servirebbe, secondo le intenzioni dei proponenti, a svecchiare la cultura maschilista del nostro paese e a “sdoganare” definitivamente le donne dalla subalternità patita finora in politica. Ebbene, io trovo tutto questo un’anomalia, l’ennesima dimostrazione che buona parte del ceto politico maschile italiano, nonostante la sua crisi ormai cronica, intende questa cosa come un atto straordinario di emancipato liberalismo di genere, non come una normale consuetudine derivante dalla parità sancita dalla Costituzione. E lo fa, secondo me, senza l’intima convinzione che le donne abbiano le competenze, le capacità e l’autorevolezza per svolgere quel ruolo e che se mai le caratteristiche di un’eventuale candidata debbano essere compatibili con la loro consolidata pratica di spartizione delle cariche dello Stato, indipendentemente dalla sua oggettiva e indiscutibile caratura politica.   

Che questi pronunciamenti siano un’anomalia lo sostiene anche Rosy Bindi che, in un’intervista a La Stampa, dice: “Questo lo ripeto da anni fino alla noia. E trovo siano un’anomalia gli appelli in tal senso, dovrebbe essere normale prendere in considerazione questa ipotesi”[1]. E io concordo con lei, ma devo anche dire che, nel nostro paese, ci sono tante cose che dovrebbero essere normali, dal diritto al lavoro alla moralità della politica, dalla tutela dell’ambiente al pagamento delle imposte, ma tutti sanno che non è così, se ne parla in continuazione, ma non si risolve mai niente.

E allora, per trattare  la questione di una donna al Quirinale, parto dalla dicotomia del titolo di questo articolo che, scambiando di posto i due sostantivi della stessa frase nominale, introduce due concezioni nettamente differenti della candidatura di una donna a presidente.

La prima, “Una donna presidente”, insiste sul fatto che il prossimo presidente della Repubblica Italiana debba essere una donna, indipendentemente dalle sue qualità intrinseche, ma purché consenta una convergenza delle varie forze politiche sul suo nome. Anzi, molti dei protagonisti uomini di questa vicenda sperano di trovare un accordo su una figura neutra, che s’impicci poco degli affari dello Stato, ma abbia una bella immagine da copertina, che soddisfi il politically correct e un certo glamour di noi incorreggibili latini.

La seconda, “Un presidente donna”, sta a indicare che innanzitutto i deputati dovrebbero eleggere una persona in grado di svolgere il suo incarico ad alto livello, con il massimo delle competenze possibili, e che oltre a questo sia anche una donna, perché, come ci sono degli uomini (anche se sempre meno!) che avrebbero il profilo per farlo, ci sono altrettante donne che potrebbero rivestire quel ruolo. E una di queste è proprio la Rosy Bindi che, nell’intervista citata a “La Stampa”, a proposito di una sua candidatura avanzata da più parti, dice testualmente: “Devo dire che me lo sto gustando e, siccome so che non accadrà, non sono neanche accompagnata dalla preoccupazione e dai polsi che tremano solo all’idea di dover ricoprire una responsabilità così alta[2]».

PROF BACHELET VITTORIO

Ma perché Rosy Bindi sa che non accadrà? Non ha forse un curricolo di studio e politico prestigioso che abbraccia in qualche modo la prima e la seconda Repubblica? La Bindi si è laureata in Scienze Politiche all’Università Luiss di Roma, ha fatto la ricercatrice in diritto amministrativo presso la facoltà di Scienze Politiche de La Sapienza di Roma, è stata assistente del professor Bachelet (amico e collaboratore di Aldo Moro) ed era con lui il giorno (12 febbraio 1980) in cui venne assassinato dalle BR. Ha fatto poi la ricercatrice presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Siena e contemporaneamente è diventata dirigente nazionale dell’Azione Cattolica. Nel 1989 è stata eletta parlamentare europeo nelle file della Democrazia Cristiana e ha vissuto le vicissitudini del suo partito travolto negli anni seguenti da Tangentopoli. Successivamente ha sostenuto Mino Martinazzoli nella fondazione del Partito Popolare Italiano e assieme a Romano Prodi e a Beniamino Andreatta ha costruito il progetto dell’Ulivo, coalizione di centro-sinistra che nel 1996 ha vinto le elezioni con Prodi presidente del Consiglio. Fondatrice convinta  nel 2007 del Pd come “ponte” tra il centro moderato e la sinistra, è stata deputata al Parlamento Italiano ininterrottamente dal 1994 al 2017 ricoprendo dal 1996 al 2000 il ruolo di ministro della Sanità nel primo governo Prodi e nel primo e secondo governo D’Alema, dal 2006 al 2008 quello di ministro delle Politiche per la Famiglia nel secondo governo Prodi, dal 2008 al 2013 quello di vicepresidente della Camera dei Deputati e infine dal 2013 al 2017 quello di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia.

Rosy Bindi ha attraversato, al di sopra di ogni sospetto, gli anni più difficili della nostra Repubblica, da quelli di piombo a Tangentopoli, dalla discesa in campo del “cavaliere” alla nascita dell’Ulivo, dalla caduta del secondo governo Prodi (rottura con Rifondazione) alla caduta del quarto governo Berlusconi e al «governo di impegno nazionale» salvaconti di Monti, fino all’avvento del Movimento 5 Stelle e a quello di Renzi. E lì si è fermata la sua corsa e vedremo perché. Conosce tutti i personaggi vecchi e nuovi che hanno popolato lo scenario politico italiano e probabilmente ne conosce anche i pregi e i difetti. E negli incarichi prestigiosi che ha rivestito le sono state sempre riconosciute competenza e imparzialità da chi, a destra e a sinistra, non aveva pregiudiziali politiche o personali nei suoi confronti. Ha dunque un profilo di alto livello culturale e politico e una moralità ineccepibile, che sono i criteri indispensabili per un aspirante presidente. Eppure lei sa che non accadrà.

Non accadrà perché è stata la più implacabile oppositrice di Silvio Berlusconi fin dal suo primo governo nel 1994. La Bindi, persona seria e ligia alle regole della nostra democrazia, ha contrastato in modo intransigente e puntuale l’idea disinvolta della politica del “cavaliere”, improntata a favorire la propria parte e sé stesso con leggi, le tristemente famose leggi  ad personam, così evidenti e sfacciate da far rabbrividire anche il politico più scafato. Come poteva la Bindi, cresciuta alla scuola del cattolicesimo democratico di Giuseppe Dossetti, acerrimo difensore dei “beni comuni” di cui devono godere tutti in modo egualitario, accettare che venissero promulgate dal Parlamento italiano, frutto di quella Costituzione nata dalla Resistenza e dai suoi principi di libertà e democrazia, leggi come la Tremonti del 1994 (detassò del 50% gli utili reinvestiti dalle imprese, purché riguardassero l’acquisto di “beni strumentali nuovi”; Mediaset la utilizzò per risparmiare 243 miliardi di lire di imposte sull’acquisto di diritti cinematografici per film d’annata che non sono beni strumentali, ma immateriali, e sono vecchi; Tremonti con una circolare correttiva estese il concetto di beni strumentali a quelli immateriali e il concetto di beni nuovi a quelli vecchi già usati all’estero), quella sulle Rogatorie del 2001 (legge che cancellava le prove giunte dall’estero per rogatoria ai magistrati italiani, comprese ovviamente quelle che dimostravano le corruzioni dei giudici romani da parte di personaggi legati a Berlusconi; poi, per fortuna, i tribunali scoprirono che la legge contraddiceva tutte le convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e tutte le prassi seguite da decenni in tutta Europa; e, siccome quelle prevalgono sulle leggi nazionali, disapplicarono la legge sulle rogatorie, che restò lettera morta), quella sulla depenalizzazione del falso in bilancio del 2002 (Berlusconi aveva cinque processi in corso per falso in bilancio), le Gasparri 1 e 2 del 2003-2004 (a difesa di Rete 4 di Mediaset che doveva essere spenta entro il 31 dicembre 2003 perché eccedeva il tetto antitrust; venne modificato il tetto, non più calcolato sulle dieci emittenti nazionali, ma su 15; inizialmente Ciampi la respinse per incostituzionalità; l’anno dopo fu ripresentata con la motivazione che entro il 30 aprile il 50% degli italiani avrebbero captato il segnale del digitale terrestre con la possibilità di usufruire di centinaia di nuovi canali; in realtà il segnale era captato solo dal 18% degli italiani; ma poi l’Agcom diede un’interpretazione estensiva della norma: bastava che in un certo luogo arrivasse il segnale digitale di una sola emittente, per considerare quel luogo totalmente digitalizzato) e il lodo Alfano del 2008 (venne approvato dal nuovo governo Berlusconi alla vigilia del processo Berlusconi–Mills: sospendeva sine die i processi ai presidenti della Repubblica, della Camera, del Senato e del Consiglio; fu bocciato nell’ottobre 2009 dalla Consulta in quanto incostituzionale)? E questo per citarne solo alcune, perché ce ne sono tante altre promulgate dai governi Berlusconi che contraddicono i fondamenti di una democrazia. E chi si opponeva a tutte queste violazioni dello spirito costituente era soprattutto lei, Rosy Bindi, senza sconti nei confronti di un uomo politico che disprezzava la politica, il Parlamento e lo Stato a meno che non fosse lui a rappresentarlo (L’État c’est moi, qualcuno l’aveva preceduto…); e senz’altro l’ha fatto più di tanti altri suoi colleghi di partito che, come Massimo D’Alema, hanno sempre fronteggiato Berlusconi con un pragmatismo ai limiti dell’ammiccamento (Il governo D’Alema, nel 1999, concesse a Rete 4 un’ “abilitazione provvisoria” a continuare a trasmettere senza concessione; quando poi D’Alema fu eletto presidente della Commissione Bicamerale continuò a rimandare alle calende greche la discussione sul conflitto d’interesse, con il doppio obiettivo – forse pensando di essere troppo furbo –  da un lato di accreditarsi presso il “cavaliere” come avversario politico riconosciuto e dall’altro di tenerlo in pugno con quella spada di Damocle).

Ma è proprio il lodo Alfano il paradigma dello scontro tra due modi di intendere la politica e la sua dialettica.È la sera del 7 ottobre 2009,  a Porta a porta[3] si discute del lodo Alfano e della bocciatura ricevuta dalla Consulta. Sono ospiti in studio, oltre a Vespa, Rosy Bindi, vicepresidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, l’editorialista de “La Stampa” Riccardo Barenghi, il ministro della Giustizia Angiolino Alfano e il suo predecessore Roberto Castelli. È quasi l’una di notte e, inaspettatamente, telefona Silvio Berlusconi per esprimere il suo parere sulla decisione della Consulta. E attacca pesantemente il capo dello Stato Napolitano. “Il presidente della Repubblica – dice esplicitamente Berlusconi – aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta, posta la sua nota influenza sui giudici di sinistra della Corte”. A queste parole, inopportune e offensive  da parte di un presidente del Consiglio nei confronti del capo dello Stato e dell’indipendenza della Consulta, Rosy Bindi scuote la testa e commenta: – È gravissimo… quello che dice è gravissimo -. Immediatamente Berlusconi si scaglia in modo sarcastico contro di lei superando il limite della decenza e della dignità che compete al suo ruolo: – Lei è più bella che intelligente. Non mi interessa nulla di ciò che eccepisce -.

Scende il gelo sullo studio, sembrano tutti annichiliti. Solo la Bindi, pur sensibilmente scossa, risponde: – Evidentemente io sono una donna che non è a sua disposizione -. Gli altri zitti, con lo sguardo per terra o perso nel vuoto. Nessuno che abbia umanamente un moto di indignazione per quell’attacco volgare e oltraggioso che un presidente cafone si permette di fare a una donna  davanti a centinaia di migliaia di telespettatori della TV pubblica. Tutti maschi e tutti zitti, conniventi come pecorelle sotto i colpi di bastone del padrone. Anche Vespa, che se non altro per dignità professionale dovrebbe interrompere immediatamente la trasmissione per protesta contro l’arroganza maschile di quelle parole, chiunque le abbia pronunciate. Che abbia paura di perdere il suo salotto televisivo? Ma c’è di più: nessuna “donna del presidente” ha il coraggio di intervenire a stigmatizzare quel suo comportamento e a manifestare solidarietà nei confronti della Bindi. Ma non lo fanno nemmeno quelle del suo partito che, per quella manifestazione di maleducazione e di oltraggio sessista, avrebbero mille ragioni per chiederne le dimissioni.

Ecco, quella sera da Vespa è stata l’emblema dello scontro in atto nel nostro paese ormai da molti anni tra il becerismo ignorante e avventurista delle soubrette della politica e la serietà di chi conosce le leggi e i fondamenti di una democrazia e pretende che vengano realizzati e rispettati. 

Non accadrà perché è stata la più implacabile oppositrice di Matteo Renzi fin da quando lui era presidente della provincia di Firenze. Lei lo ha sempre definito, per il suo modo di fare politica, un “figlio” di Berlusconi. Secondo lei Berlusconi nel ventennio della sua attività politica non aveva soltanto “sdoganato” gli ex fascisti portandoli al governo, ma anche molti che si definivano di sinistra ma avevano lo stesso approccio alla politica fatto di commistione tra affari pubblici e privati. E se prima l’avevano sotto traccia, inibito per una certa storia e tradizione, ora si sentivano liberi di manifestarlo e di praticarlo in una logica di occupazione del potere. E Renzi ne era l’esponente più significativo. «Renzi non rappresenta una minoranza, ma dà voce a quella maggioranza silenziosa del Paese che Berlusconi ha avuto la stragrande capacità di forgiare[4]».

Ecco ciò che ha sempre pensato Rosy Bindi di Matteo Renzi, collocandolo già a priori fuori del Partito Democratico che era nato proprio per opporsi al berlusconismo. Lui le rispondeva dicendole che lei non era di sinistra, specificando che “essere di sinistra” era «cercare di fare come fa Obama e non come Rosy Bindi: fare come uno che ha osato, rischiato, si è messo in gioco contro il suo partito[5]».

Del resto lui aveva cercato di fare la stessa cosa lanciando la campagna della “rottamazione” della vecchia classe politica del PD che, a suo parere, non aveva la capacità di coniugare in modo creativo l’azione politica necessaria per riportare il centrosinistra al governo. Al che lei replicava che “mandare a casa una classe dirigente che ha combattuto per vent’anni contro Berlusconi significa dare ragione al Cavaliere[6]”.

La mancata elezione di Prodi a presidente della Repubblica nell’aprile del 2013 ha segnato poi il loro diverso destino: la Bindi dimissionaria da presidente del partito in polemica anche con Bersani colpevole di averla tenuta all’oscuro delle scelte fatte; Renzi apparentemente sconfitto, perché Prodi era anche una sua proposta (i franchi tiratori erano altri?), ma pronto ad approfittare della situazione di sbando del partito – anche Bersani si era dimesso – candidandosi alla segreteria nelle primarie del dicembre successivo. Risultato: Renzi è stato eletto segretario con la stragrande maggioranza dei voti (gli altri candidati Cuperlo e Civati erano piuttosto deboli) e si è preso letteralmente il partito mettendo suoi fedelissimi in tutti i ruoli cruciali. Ha poi fatto il golpe  contro Letta (Stai sereno!), è diventato presidente del Consiglio (22 febbraio del 2014) ed è iniziato il suo delirio di onnipotenza, pienamente convinto di rinnovare la politica e di essere un grande statista. Ha fatto una politica di riforme a tutto spiano ( ma non è detto che le riforme migliorino sempre le cose, anzi, talora le peggiorano), in particolare il Job Acts, contestato dalla Cgil, ma soprattutto dai lavoratori, e la riforma costituzionale Renzi-Boschi che, sottoposta a referendum il 4 dicembre del 2016, è stata bocciata dalla stragrande maggioranza degli italiani e gli è stata fatale.

Ma nel frattempo che cosa ha fatto la Bindi? Dopo essersi dimessa da presidente del Pd in seguito allo “scandalo” della mancata elezione di Prodi, il 22 ottobre del 2013 viene eletta presidente della Commissione Parlamentare Antimafia tra le proteste del centrodestra. Che cosa temono le opposizioni? Il suo rigore? Il suo modo di lavorare serio, senza guardare in faccia a nessuno? Sta di fatto che la Commissione Antimafia presieduta dalla Bindi lavora sodo e produce, approvate all’unanimità, sei relazioni discusse in Parlamento e due proposte di legge, la riforma organica del Codice Antimafia e quella dei Testimoni di Giustizia. Tutti i partiti presenti in Parlamento hanno loro rappresentanti in seno alla Commissione per cui vuol dire che l’unanimità delle decisioni scaturisce da un modo corretto e coinvolgente di presiedere i lavori da parte della presidente Bindi. E questa efficienza costringe Matteo Renzi, nel frattempo diventato presidente del Consiglio, a sopportare la sua presenza e il suo prestigio istituzionale.

Ma i due vivono come separati in casa e lei non partecipa più alle assemblee sempre più trionfalistiche del partito. Anzi, il 24 aprile 2015 nel corso di un’intervista a Otto e mezzo su LA 7, dichiara che non si ricandiderà alle prossime elezioni politiche. E pochi giorni dopo, il 29 e 30 aprile, non partecipa ai voti di fiducia richiesti dal governo Renzi sulla nuova legge elettorale (Italicum) e il 4 maggio, durante la votazione specifica sulla legge, vota contro. Ma a fine mese scoppia la bomba: alla vigilia delle elezioni regionali, la Commissione Antimafia rende nota, sulla base di una relazione “in materia di formazione delle liste” approvata dai due rami del Parlamento, un elenco di candidati con procedimenti penali in atto, tra cui figura anche Vincenzo De Luca candidato a governatore della Campania, che sarebbero “impresentabili”. De Luca va su tutte le furie e minaccia di denunciare la Bindi, cosa che poi farà una volta eletto governatore; ma è soprattutto Matteo Renzi a scagliarsi contro la sua irriducibile nemica: “Mi fa male una cosa: che si utilizzi la vicenda dell’Antimafia per una discussione tutta interna, per regolare dei conti interni a un partito. L’Antimafia è un valore per tutti, non può essere usata in modo strumentale, è il luogo dove tutti devono potersi riconoscere. La mafia non è un tema da campagna elettorale, va combattuta giorno dopo giorno[7]“. Immediata la replica della Bindi a tamburo battente: “Ho taciuto per tutto il pomeriggio di fronte al tentativo di delegittimare la Commissione e la mia persona. Ed ora per il nome di un candidato, la cui condizione era conosciuta da tutti, ci si indigna contro il lavoro di Commissione e presidente. Giudicheranno gli italiani chi usa le istituzioni per fini politici, certamente non sono io”.

Da quel momento in poi inizia una campagna di denigrazione nei confronti della Bindi che impegna tutto il quartier generale di Matteo Renzi. Si spara a zero su di lei, cercando di farle terra bruciata intorno, visto che anche la minoranza del partito non ne approfitta per insorgere, ma sembra disinteressarsi della vicenda, nonostante molti dei suoi componenti abbiano condiviso con lei gran parte del percorso di costruzione del Pd. Si comincia a dire che “ha deciso da sola”, che ha tenuto all’oscuro i colleghi di Partito in Commissione, nonostante le smentite dei commissari dell’opposizione.

Rosy Bindi continua a fare la presidente della Commissione Antimafia fino alla fine della XVII legislatura e nel frattempo le sue parole in risposta a Renzi sulla querelle della Commissione Antimafia diventano profetiche: “… Giudicheranno gli italiani chi usa le istituzioni per fini politici…[8]”. Il 4 dicembre 2016 il 59% dei votanti dice No alla riforma costituzionale di Renzi e mette di fatto fine al suo governo e alla sua avventura politica personale.  

La Bindi non si candida alle elezioni politiche del marzo 2018 e non partecipa più alle riunioni della Direzione del Pd fino all’uscita di Renzi dal partito. Rientra con Zingaretti segretario, ma al referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari annuncia il suo voto contrario in aperto disaccordo con la linea ufficiale del Pd e del suo segretario. Nel 2021 non rinnova più la tessera, perché non si riconosce più nel partito che aveva contribuito a fondare.

Non accadrà perché è stata la più implacabile oppositrice della lobby dei medici. Quando divenne ministro della Sanità nel primo governo Prodi mise mano a un progetto di riforma che voleva ripristinare nel Sistema Sanitario Nazionale lo spirito e i principi della legge 883 del 1978 che avevano subito una serie di “ferite” gravi negli anni successivi, in particolare con la riforma del 1992 di De Lorenzo.

Ministro De Lorenzo

Essa, infatti, aveva introdotto in un corpo legislativo, preoccupato essenzialmente del trattamento egualitario dell’individuo paziente da parte del Servizio, elementi di mercato, sia con la trasformazione degli ospedali in aziende sia con l’esercizio intramoenia della libera professione medica e dell’offerta di una percentuale di camere a pagamento con servizi aggiuntivi rispetto al trattamento in corsia. La Bindi non contestava l’aziendalizzazione, ma il malinteso del suo concetto. Secondo lei l’aziendalizzazione doveva servire a non sprecare le risorse pubbliche – che comunque sono risorse limitate, e anche risorse private a carico delle famiglie – ed era uno strumento per conseguire quel risultato, non un fine. E invece, in alcuni modelli organizzativi, rischiava di diventare un fine a cui spesso si sacrificava la tutela della salute. Del resto già la 883 conteneva le norme e le indicazioni procedurali affinché la spesa fosse tenuta sotto controllo attraverso una corretta programmazione e l’analisi dei bisogni, perché se chiaramente la salute non ha prezzo, è anche vero che la sanità ha un costo. Ma in quella riforma la sanità era considerata un bene comune imprescindibile, gravoso ma necessario, e non un settore contro il quale si potevano accanire le leggi finanziarie per tenere a bada il debito pubblico. E il diritto alla salute, se tale è, non può essere condizionato dalle risorse economiche.

Nella riforma Bindi si definiva anche la caratteristica della relazione tra pubblico e privato in sanità. Secondo lei l’introduzione di regole di mercato dentro il sistema sanitario avrebbe dilapidato risorse e avrebbe finito per stravolgere il concetto di salute contenuto nella legge 833. E non era accettabile lucrare sulle fragilità della persona malata e sui bisogni di salute. Chi voleva fare impresa in quel settore doveva sapere che per entrare nel sistema pubblico bisognava accettare la logica della programmazione e del controllo delle risorse, che sono pubbliche e sono destinate a promuovere la salute di tutti e non a moltiplicare i profitti di pochi. La regola della competizione del mercato non si poteva applicare al Sistema Sanitario Nazionale che è fondato su un principio di equità come quello dell’universalità. Il rapporto tra pubblico e privato nel Sistema Sanitario non poteva che essere quello dell’integrazione, basato su regole chiare e trasparenti. Non era pensabile una spartizione delle risorse tra di loro, perché avrebbe finito per favorire le imprese private svincolate dagli oneri anche etici del sistema pubblico. Occorreva dunque preservare attraverso la programmazione e il controllo dei risultati il primato pubblico della sanità.

E i medici? La Bindi è stata chiara con loro: bisognava porre fine alla pratica di utilizzo della struttura ospedaliera pubblica come palestra e ancella per le loro performance private, avere contratti part-time per tenere i piedi dentro il Sistema Sanitario Nazionale e utilizzarlo per procacciarsi clienti in proprio e laute parcelle. La sua proposta suscitò all’epoca diverse proteste, perché sconvolgeva le abitudini professionali della maggior parte delle categorie e ne regolamentava il rapporto con il servizio pubblico. Essa prevedeva una distinzione tra medici con rapporto esclusivo con la struttura ospedaliera in cui operavano (Medici intramoenia ) e medici che esercitavano anche un’attività privata esterna (Medici extramoenia) I primi potevano ricevere pazienti privati nelle strutture pubbliche applicando le tariffe stabilite dall’Asl. Dovevano pagare all’azienda sanitaria il 10 % del ricavato oltre alle spese per l’uso dei macchinari. Per questo impegno esclusivo ricevevano in più rispetto allo stipendio un milione e mezzo di lire lordo al mese come indennità esclusiva. I secondi potevano esercitare la loro attività privata senza alcun limite al di fuori delle strutture pubbliche. Essi non ricevevano, ovviamente, alcuna indennità di esclusiva. Subivano una penalizzazione mediamente di 500.000 – 800.000 lire lorde al mese. La formula del part time, che era quella più critica e scandalosa, era esclusa dalla riforma sanitaria, ma poteva essere ripristinata per le figure professionali che dimostravano di non utilizzarla per aggirare la distinzione fra attività esterna e interna, in particolare donne con figli piccoli.

Chi protestava dunque? Protestavano coloro che avevano fatto della loro professione sanitaria un mercato speculativo, spesso anche completamente al di fuori delle leggi che lo regolamentavano. Medici che chiedevano parcelle di centinaia di migliaia di lire, talora in nero, per visite frettolose che fruttavano loro mattine o pomeriggi milionari. Gli altri, quelli che credevano ancora che fare il medico fosse una professione elettiva, con una deontologia di servizio, non avevano ragione di protestare, la loro scelta esclusiva era trasparente e rafforzava il prestigio delle strutture ospedaliere in cui operavano. Ed erano la maggioranza, l’85 % dei medici ospedalieri.

Ministro Veronesi, 20 novembre 2000

Ma già nel 2000, con il governo Amato, il nuovo ministro della Sanità Veronesi criticava la riforma Bindi e nel 2002, con il ritorno al governo di Berlusconi, il suo successore Sirchia presentava un progetto di legge che prevedeva addirittura un ritorno alle modalità del servizio sanitario prima della legge 883 del 1978. Era il principio dello sfascio del Servizio Sanitario Nazionale che abbiamo poi pagato duramente in questi anni di pandemia.

Ministro Sirchia

Chi, dunque, più di questa donna volitiva, capace di andare in direzione “ostinata e contraria” per difendere gli interessi dei cittadini dalla politica partitica e dalle corporazioni, sostenitrice convinta che in una democrazia esistano dei beni comuni inalienabili che nessuno può permettersi di comprare, ma appartengono ai cittadini tutti e soprattutto a coloro che senza di essi sarebbero esclusi dalla fruizione di quelli del mercato, politico che crede nello Stato non come Moloch che divora i suoi cittadini, ma che in base a una delle Costituzioni più emancipate al mondo dà a essi delle garanzie di tutela e di promozione sociale e civile, chi più di Rosy Bindi in questo momento cruciale e drammatico per il nostro paese e per il mondo intero potrebbe rappresentare il bisogno di pietas solidale che abbiamo, di sentirci davvero, come dice papa Francesco, “tutti fratelli”?


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[1] Bindi: “Al Quirinale è l’ora di una donna, fa bene Mattarella a dire no all’ipotesi bis, articolo online de “La Stampa” di Carlo Bertini, 15/11/2021 

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[2] Ivi

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[3] È possibile vedere il video su YouTube all’indirizzo https://youtu.be/lz8Q910TJUk.

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[4] Renzi: mai con Montezemolo. Ma per Rosy Bindi è già fuori dal partito, articolo on line de Il Sole 24 Ore di Sara Bianchi, 11/09/2012

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[5] Primarie, Renzi replica alla Bindi: “La sinistra è come Obama, non come lei”, articolo di redazione online de Il Fatto Quotidiano, 22/11/2012

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[6] Bindi non molla: chiederò la deroga al Pd, articolo on line de il Giornale di Nico Di Giuseppe, 21/11/2012

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[7] Impresentabili, Renzi a Bindi: “Usi Antimafia per regolare i conti in Pd: E lei:”Giudicheranno gli italiani”, articolo di redazione de “La Repubblica  on line”, 29/05/2015

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[8] Ibidem

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