La Storia è stata un susseguirsi graduale di idee e di realtà materiali, di mutamenti sopravvenuti con l’insorgere di nuove concezioni del mondo, dell’economia e dei rapporti tra gli uomini al termine di lunghi processi di natura socioeconomica o ambientale o in seguito a eventi traumatici come le guerre o le grandi migrazioni di popoli. In passato difficilmente un essere umano era in grado di percepire, durante la sua allora ancor più breve vita, i segni delle svolte epocali, a meno che non si trovasse direttamente coinvolto nell’occhio del ciclone di fatti traumatici come per l’appunto le guerre o le grandi migrazioni. Ma per la maggior parte degli abitanti della terra la vita è proseguita con le stesse abitudini e costumi per generazioni, senza che l’immaginario di quelle precedenti risultasse incomprensibile a quelle successive. Ecco dunque il persistere dell’oralità come forma di trasmissione del pensiero popolare, identica nella sua espressione dagli accampamenti dei popoli nomadi alla civiltà contadina giunta alle soglie della contemporaneità.
Ma con la contemporaneità i tempi cominciano ad accorciarsi e a sfuggire di mano al senso comune dei popoli. Il preludio veniva da lontano, era insito nell’istanza universalistica del Cristianesimo che si rivolgeva nello stesso modo a tutti i popoli del mondo allora conosciuto e di quello nuovo che sarebbe poi stato scoperto. Istanza idealistica, perché nella sostanza sia nelle zone tradizionali di radicamento che in quelle nuove essa veniva mediata o dal potere politico corrente o dalle culture locali tradizionali che ne mitigavano gli effetti dando origine a forme ibride di cristianesimo spesso molto diverse tra di loro.
Su questo principio universalistico, debitamente laicizzato già a partire dall’Umanesimo cinquecentesco, si sono innestati tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento i due fenomeni che hanno dato origine alla contemporaneità spazzando via il mondo precedente: la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale. A questo punto l’idea che gli uomini sono tutti liberi e uguali, patrimonio sia del Cristianesimo sia della cultura illuministica francese, si traduce nella richiesta di veder riconosciuto a chiunque il diritto di far valere le proprie qualità e il proprio ingegno in ambito politico ed economico, anche se la realizzazione concreta di questo diritto, per quel che riguarda il mondo occidentale, richiederà ancora due secoli per diventare effettiva e sarà un prodotto della civiltà industriale. Come essa si sia sviluppata nel corso di questi due secoli, a partire dalle tante vittime sacrificali lasciate per strada fino ai giorni nostri, è un pezzo tormentato di Storia che fa parte della nostra coscienza collettiva.
Se, infatti, lo spirito genuinamente industriale viene individuato dal sociologo Max Weber nell’etica protestante della borghesia calvinista europea e americana[1] – l’impresa come missione per il benessere collettivo – il succedersi delle varie fasi dell’industrializzazione, prima, seconda e terza rivoluzione industriale[2], ha dimostrato che l’istanza dominante dei ceti produttivi non è stata e, soprattutto, non è oggi quella idealistico/religiosa della borghesia a cui fa riferimento Weber, ma piuttosto quella di una borghesia assolutamente laica, spesso anche rapace, che ha nel proprio guadagno il fine esistenziale assoluto. Sono soltanto una minoranza gli imprenditori che hanno dimostrato e dimostrano senso di responsabilità e condivisione del disagio con le maestranze nelle crisi cicliche della produzione industriale. Anzi, buona parte di essi ha cercato di vendere le proprie aziende e di trasferire il ricavato nella speculazione finanziaria sottraendolo all’uso sociale. Un fenomeno questo che ha consentito ai grandi gruppi multinazionali di acquisire locazioni e marchi industriali da trasferire poi a proprio piacimento in quei paesi in cui il costo del lavoro è ancora irrisorio.
Sono queste tre istanze congiunte – cristianesimo, rivoluzione francese e rivoluzione industriale – che, oltre a determinare l’ordine economico contemporaneo, hanno prodotto le nostre democrazie, nel cui ambito viene assicurata al cittadino la libertà civile di agire nel contesto economico dell’offerta industriale in modo laico, razionalistico, senza remore religioso/irrazionali. Salvo garantire, in alcune Costituzioni come quella italiana, una condizione privilegiata alla confessione religiosa di maggioranza della popolazione.
Ma è davvero laica la libertà civile di agire che ci consentono oggi le nostre Costituzioni? O meglio: siamo in grado noi oggi di agire in modo laico e razionale come ci dicono le nostre Costituzioni? Il nostro vivere quotidiano, le nostre azioni, perfino i nostri pensieri, sono davvero liberi oppure siamo in qualche modo costretti in una coazione a ripetere indipendente dalle nostre convinzioni etiche e politiche, al di là delle Costituzioni?
E qui salta fuori il morbo che ci sta consumando. L’industrialismo, che secondo i suoi fautori ci ha tolto dalla fame (noi occidentali, ovviamente), dopo aver prodotto per anni sistemi di riduzione delle fatiche domestiche e professionali ha prodotto sempre più beni superflui reclamizzandoli in modo allettante con i vari canali di trasmissione informatica e televisiva che sono diventati il cibo quotidiano di frequentazione ticcosa della maggior parte della popolazione. E questo ci ha portati a compiere gesti automatici, completamente irrazionali, di cui ci rendiamo conto soltanto in qualche istante di barlume di coscienza per ritornare poi subito a farli come in una gabbia di dipendenza. Perché ormai sono come una malattia, e se non li facciamo ci sentiamo perduti, con davanti il vuoto del niente. Che poi sarebbe il tutto che abbiamo perduto, cioè quell’identità umana libera e consapevole di cui però non sappiamo più che cosa farcene.
Ma questo nostro agire, non è soltanto proprio del nostro quotidiano individuale, ma si ripropone anche in tutte le manifestazioni collettive politiche e culturali a cui ci illudiamo ancora di poter partecipare, sia on line che in presenza, al di là di ciò che è stata la pandemia che se mai ha accelerato ulteriormente il processo in corso. Anche in queste situazioni collettive il nostro agire segue ormai un cliché consolidato, fatto sempre delle stesse reiterate azioni o parole, come se non pensassimo più e la nostra testa fosse più attenta al rito della gabbia indotta che a sviluppare idee che ci scaturiscano dalla nostra idealità, qualunque essa sia. Sta di fatto che le azioni e le parole di tutti si assomigliano – del resto la gabbia che ci rinchiude è la stessa – e appena fatte o pronunciate sono già vecchie, consumate, e necessitano di altre che a loro volta si consumeranno in un baleno.
Oggi organizzare un evento collettivo o mettere in piedi un’associazione tra persone che vogliano ancora ragionare sul mondo per cambiarlo è praticamente impossibile, a meno che non si considerino tali le varie kermesse e passerelle di un ceto politico attoriale che si muove automaticamente dentro un sistema che l’ha generato e lo tiene in ostaggio. Fare politica nel senso più profondo della parola richiede mente libera, cultura, principi, ideologia, coerenza, tutti valori che non fanno più parte del bagaglio dell’uomo contemporaneo. Oggi, quelli che ancora assomigliano a questi ne sono la parodia e sono diventati il cavallo di battaglia della società dello spettacolo, che è il trionfo del consumo, del “sotto il vestito niente” della contemporaneità.
Ma se la maggior parte di questi valori perduti, anche perché spesso scimmiottati, non preoccupano minimamente il Moloch[3] del pensiero unico consumista, la coerenza ne è il bersaglio preferito proprio perché rappresenta la sua antitesi assoluta. Il sistema del consumo è infatti basato sull’incoerenza, sulla negazione sistematica di ciò che un istante prima sembrava l’obiettivo, l’oggetto del desiderio. È questa la sua forma di dominio, rilanciare di continuo la proposta con qualcosa che supera immediatamente la precedente. Perché oggi a decidere non siamo noi, ma gli oggetti del desiderio codificato che ci propongono, come se fossero loro i soggetti.
Credo che in questa fase storica dell’umanità occidentale, ma ben presto questo sistema annetterà il mondo intero, non ci resti dunque che una sola possibilità per reagire al dominio subdolo e beota del morbo del consumo: fare come i personaggi del libro “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury[4] e coltivare in silenzio quei valori perduti, manifestandoli anche con semplici atti concreti, con la speranza di riuscire a trasmetterli alle generazioni future affinché il mondo torni ad essere a misura d’uomo.
[1] Weber, Max, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991
[2] La quarta rivoluzione industriale, cioè il processo di automatizzazione e interconnessione della produzione industriale, è in fase di incubazione.
[3] Antica divinità cananea a cui venivano sacrificate vittime umane, soprattutto bambini
[4] Bradbury, Ray, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano 2016
Caro Gianni, è molto triste ma purtroppo vero. Non mi pare, al momento, ci siano altri spazi. Ma conservare quei valori è già una grande cosa. E le nuove generazioni mi pare sappiano riconoscere l’autenticità e la coerenza. Serve però non addormentare le menti e serve il ruolo degli intellettuali, come te!
Un abbraccio
Sabrina