Quando in sogno diventai amico di Berlusconi

Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi e dell’idea di inconscio individuale, riteneva che “Il sogno è l’appagamento (mascherato) di un desiderio (represso, rimosso)”[1]. Carl Gustav Jung, teorico della “psicologia del profondo” e dell’idea di inconscio collettivo, affermava che “Il sogno è il teatro dove il sognatore è allo stesso tempo sia la scena, l’attore, il suggeritore, il direttore di scena, il manager, l’autore, il pubblico e il critico”[2]. Lascio a voi l’interpretazione di questo mio sogno alla luce del punto di vista di questi due grandi studiosi dell’inconscio.

Era il marzo 2014 ed ero stato condannato a tre mesi di reclusione dal tribunale di Milano per “resistenza a pubblico ufficiale” durante una manifestazione antagonista per le vie della città. Il giudice aveva poi predisposto che scontassi la pena svolgendo tre mesi di servizio sociale presso l’Istituto per disabili e anziani Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Io allora abitavo a Buccinasco, che è a un tiro di schioppo da Cesano, per cui non mi dispiacque la destinazione. E, anche se quel servizio dovevo farlo perché costretto, l’idea di aiutare degli anziani bisognosi mi stimolava, perché era un modo concreto di stare dalla parte del popolo.

Cominciai i primi giorni di aprile e grazie alla disponibilità degli operatori professionali feci presto ad ambientarmi nel lavoro. E man mano che lo svolgevo mi rendevo conto che spesso nella vita ci riempiamo la bocca con parole altisonanti, ma sono poi i gesti concreti a sostanziarle, altrimenti restano soltanto aria fritta. Ascoltare, senza mostrare insofferenza, un anziano che ripete per ore le stesse parole, parlargli e farlo sorridere sottraendolo per qualche istante al suo ossessivo isolamento, lavarlo quando la sua incontinenza è ormai una norma valgono certamente di più di qualsiasi epica assemblea o documento politico di lotta.

Mi ero dunque ormai ambientato e svolgevo con passione il mio lavoro quando il 15 aprile si diffuse in Istituto la notizia che anche Silvio Berlusconi, condannato a quattro anni di carcere per frode fiscale, tre dei quali coperti da indulto, nel processo per i diritti tv Mediaset, avrebbe scontato il restante anno svolgendo servizio sociale presso la Sacra Famiglia. Pochi giorni dopo la direzione dell’Istituto comunicò quale sarebbe stato l’impegno del Cavaliere all’interno della struttura: quattro ore un giorno alla settimana, il venerdì, in quanto dal martedì al giovedì aveva il permesso, in deroga alle disposizioni domiciliari del tribunale, di recarsi a Roma per svolgere il suo ruolo di parlamentare. Potete immaginare la mia incazzatura: io ero stato condannato a tre mesi e per quei tre mesi sarei andato a fare il mio servizio in Istituto cinque giorni la settimana, lui nell’arco di un anno avrebbe prestato la sua opera per meno giorni di me. Ma lui era Berlusconi, mentre io ero un lavoratore precario senza un posto fisso e, spesso, anche senza fissa dimora. Ma se a me la cosa andava di traverso, in buona parte degli ospiti dell’Istituto l’idea che Berlusconi andasse a “lavorare” lì con loro suscitò una forte aspettativa ed emozione.

Venne dunque il giorno fatidico, era il 9 maggio, e Berlusconi arrivò alla Sacra Famiglia in Mercedes nera accompagnato dall’autista e da due guardie del corpo, mentre nei pressi dell’Istituto stazionavano anche due auto della polizia. Il direttore sanitario era ad attenderlo sul portone d’ingresso assieme ad alcuni medici del suo staff, mentre i poliziotti tenevano lontano i fotografi e i cronisti giunti per immortalare l’evento. Silvio, come al solito, sorrideva a destra e a manca, con quell’espressione plastificata del viso che era ormai diventata il suo biglietto da visita. Salutò calorosamente il direttore e i medici e si concesse – come poteva non farlo – alcune delle sue battute disarmanti, a me sembravano cretine, soprattutto se si pensava che quell’uomo era stato capo del governo italiano e probabilmente, nonostante le condanne, lo sarebbe diventato ancora.

Il Cavaliere, appena entrato, sparì nell’ufficio del direttore, mentre alcuni degenti erano arrivati fin sulle scale per vederlo. Tutti aspettavano con ansia a quale reparto sarebbe stato assegnato, ma, passati cinque minuti, Silvio uscì dall’ufficio con il suo ineffabile sorriso e se ne andò così come era venuto. E così quei vecchi restarono delusi, sia quelli che speravano di incontrarlo già quel giorno sia quelli che non vedevano l’ora di mandarlo a quel paese.

Quando poi le acque si furono calmate, venne da me il direttore e mi disse che aveva deciso di affiancare l’onorevole Berlusconi – così lo chiamò – a me, in modo che lo introducessi un po’ al servizio. Ma di tenere conto di chi si trattava e che quindi la sua presenza sarebbe stata in pratica un pro forma. Mica poteva uno che aveva fatto il Presidente del Consiglio pulire il culo a un paziente! A queste parole trattenni a stento un gesto di stizza: io, che consideravo quell’uomo il morbo della politica italiana, colui che aveva sfasciato il nostro paese, io che non lo sopportavo per quel suo essere sempre e comunque “baüscia” nel senso più deteriore del termine, proprio io dovevo sorbirmelo? Stavo per dirglielo, quando mi balenò l’idea che forse avevo in mano la possibilità di umiliare il padrone borioso della tv commerciale e che dunque dovevo approfittarne. E se questo mi avesse comportato delle conseguenze le avrei sopportate tranquillamente pur di togliermi quella soddisfazione. Accettai, il direttore mi ringraziò. Non sapeva che cosa covavo dentro di me.

Jean Lecomte du Nouÿ The Dream of a Eunuch, 1874

Berlusconi tornò per il suo primo effettivo giorno di lavoro il 16 maggio. Solita parata di cronisti e fotografi fuori ad aspettarlo – non avevano proprio argomenti, si vede – lui sempre a far battute e sorrisi di plastica e gli anziani ospiti del nostro reparto RSA, il San Pietro, in attesa febbrile di vederlo finalmente girare in mezzo a loro.

Il direttore lo accompagnò in reparto e me lo presentò. Lui disse che era ben lieto di lavorare con un giovane come me e aggiunse a battuta… Purché non sia un interista… Cominciamo bene, pensai, visto che sono un interista e che il Milan del Cavaliere avevo dovuto subirlo anche troppo prima che vincessimo il triplete. Ma abbozzai, il calcio era l’ultimo argomento che mi divideva ideologicamente da quell’uomo. E iniziai subito a fargli conoscere i pazienti.

Le donne lo squadravano da capo a piedi, ma poche mostravano di riconoscerlo. Solo la Rina disse… Oh, è bello, ma è più bello in televisione… Gli uomini erano per lo più indifferenti, tranne Vincenzo che, come lo vide, cominciò a urlare…È arrivato il diavolo, è arrivato il diavolo… che ti venisse… Lui non si scompose, sempre con la parata dei denti in bella mostra, ma con la coda dell’occhio mi accorsi che aveva portato furtivamente la mano ai genitali come per scongiurare quella maledizione. Nel frattempo mi avevano chiamato per ripulire un paziente allettato. E allora gli dissi di venire con me ché gli avrei fatto vedere come si faceva. Lui mi rispose… Fai, fai, che io intanto faccio alcune telefonate… No, signor Berlusconi, gli dissi incazzato, qui, quando si lavora, non si possono fare le telefonate… Lui mi sorrise strafottente e continuò imperterrito a spippolare sul telefonino… Ascolti, signor Berlusconi, lei è qui per fare quello che faccio anch’io… quindi metta via il telefono e mi dia una mano a ripulire quest’uomo… Lui mi guardò sbalordito, come se nessuno gli avesse mai parlato in quel modo, e poi mi disse… Forse tu non hai mica capito chi sono io… ma già, magari sei anche tu uno dei tanti comunisti fancazzisti di questo paese, quelli che credono di poter dettare legge a me… poverino, pensa che se volessi potrei farti sbattere dentro in un minuto… ma ti compatisco, con quell’aria da sfigato che ti ritrovi… A quel punto, nonostante mi ripetessi… Gianni, lascialo perdere, ché questo è una carogna… mi andò il sangue al cervello e allora gli strappai il telefonino di mano e glielo buttai per terra. Ma non l’avevo ancora fatto che mi sentii afferrare per le braccia e sollevare da terra: era una delle sue guardie del corpo che mentre mi teneva così sospeso per aria mi sussurrò… Non ci provare mai più, hai capito? La prossima volta ti spezzo le ossa… e poi mi lasciò andare pesantemente per terra.

Intanto Silvio aveva raccolto il telefonino. E io, anche se ancora mi mancava il fiato per quella morsa tremenda, gli dissi… Lei è un condannato che sconta la sua pena come me… lei qui non può fare il Berlusconi, qui siamo tutti uguali… e se lavoro io lo deve fare anche lei… Lui mi guardò e con il suo solito sorriso presupponente disse… Figa, doveva proprio capitarmi un comunista…

Intanto aveva cominciato a radunarsi intorno a noi un po’ di gente, pazienti e operatori sanitari. E allora il Cavaliere roteando intorno il suo faccione disse a tutti di stare tranquilli che si era trattato soltanto di uno scambio di vedute con il suo giovane amico, proprio così disse. E subito dopo mi venne ad aiutare, o meglio, si avvicinò al letto e assistette alle operazioni di ripulitura di quel vecchio.

Lo rividi il venerdì della settimana successiva. Stavolta arrivò in modo più discreto, senza creare scompiglio né fuori né dentro. E venne a cercarmi in reparto con un inaspettato ramo d’ulivo… Senti, mi disse, sono riuscito a far fare la pace a Putin e a Bush e a mettere fine a cinquant’anni di guerra fredda, credo che possiamo farla anche io e te… Devo dire che mi prese in contropiede, non me lo sarei mai aspettato da lui. E, sebbene un po’ sempre diffidente, gli strinsi la mano.

Lavorò con me tutta la mattina, riuscì anche ad essere simpatico con qualcuno dei degenti, lui che normalmente, appena apriva la bocca, diceva solo stronzate. E anche con me fu più gentile, mi chiese della mia famiglia, del mio lavoro e di come mai ero stato condannato… L’ho capito subito che eri un comunista, c’avete tutti la stessa aria… disse ridacchiando. E poi, prima che finisse il turno, mi invitò a cena a casa sua. Io subito restai sconcertato dalla sua proposta e pensai che ci fosse dietro qualche tranello, magari che lo facesse per sputtanarmi con il Movimento, e allora gli rigirai la frittata… Se ti va di cenare con me, ti porto io in un bel posticino… Ma lo dissi così, tanto per sottrarmi a quell’invito. E lui invece accettò… E va bene, disse… se preferisci vengo io… ma mi raccomando, che sia un posto degno di gente come me…  Ma non capii bene se l’avesse detto sul serio o a presa per il culo. E allora rimasi qualche istante lì impalato, non sapevo davvero cosa rispondere. Poi ebbi un’illuminazione… D’accordo, gli dissi, ci vediamo stasera alle otto qui a Cesano, all’incrocio tra via Rosselli e via Don Minzoni, lì dove inizia il quartiere Tessera. C’è un posto in via Kuliscioff dove si mangia bene e si può stare tranquilli. Vedrai che ti piacerà… E mentre glielo dicevo mi rosolavo in un brodo di giuggiole. L’avrei portato, infatti, a mangiare nel Circolo Arci “Cesare Terranova”, uno dei circoli di Sinistra più attivi del milanesato. E solo a pensarci, mi scappava da ridere, gliel’avrei fatto un bello scherzo al Cavaliere…

La sera, alle otto, arrivò puntuale con la solita Mercedes nera. Lo accompagnavano le due guardie del corpo, scendere in mezzo al popolo era sempre rischioso. Mi disse che avrebbero mangiato anche loro al ristorante, non poteva rinunciarci, ma a un tavolo per conto proprio, discretamente lontane da noi. Quando poi vide che, imboccata via Kuliscioff, mi dirigevo verso l’entrata del Circolo Arci, mi trattenne per un braccio e mi disse un po’ alterato… Ma… dove andiamo?… questo è un covo di comunisti… Beh, e allora?…gli risposi… che problemi può avere uno come te che ha fatto fare la pace a Bush e a Putin?… stai tranquillo, vedrai che ti troverai bene… e tirai dritto. Lui si fermò… E no, eh… questo è un colpo a tradimento… ma dovevo saperlo, sono stato un cretino a fidarmi di te… Allora io, senza fare una piega, gli dissi… Non vuoi andare?…benissimo, andiamo da un’altra parte, ma questo dimostra il quacquaraquà che sei… Come ti permetti… disse lui diventando paonazzo. Poi, però, scrollando la testa aggiunse… me la sono cercata, la colpa è solo mia… Io intanto sogghignavo trionfante.

Entrammo nell’atrio d’ingresso del Circolo, dove si radunavano a fumare gli “incalliti”. E dal fumo che c’era là dentro pareva di entrare in un banco di nebbia. Subito ci diedero un’occhiata distratta, lì entrava gente in continuazione, poi uno mi riconobbe e mi salutò. Ma non eravamo ancora entrati nel bar che si sentì dire… Ma hai visto chi era quello lì con il Gianni?… Noo, non ci posso credere… sembrava il Berlusca…Ma cosa dici? Il Berlusca con il Gianni?… Ti dico che era proprio lui…

Quando poi entrammo nel bar, dopo il primo istante di stupore, si zittirono tutti. Chi stava bevendo il caffè restò con la tazzina a mezz’aria, chi giocava a carte impietrito nel gesto di calare la carta prescelta, mentre al barista cadde di mano il bicchiere che stava asciugando. Io, fingendo indifferenza, mi rivolsi a Gino, il gestore, che era dietro il banco, con lo stesso tono di tante altre volte… Si può mangiare? Siamo in quattro… Lui mi guardò come se fossi un’apparizione, poi si riscosse e, uscito da dietro il banco, ci fece strada verso la sala da pranzo. Silvio pareva aver perso tutta la sua baldanza e teneva la testa china rinunciando al suo sorriso smaltato. Come fummo di là cominciò ad alzarsi dal bar un bisbiglio sempre più insistente che in pochi istanti divenne un vociare tempestoso in cui si percepivano alcune parole ripetute… Berlusca di merda… Bastardo… Cavaliere dei miei coglioni… Porco… Ladro… Massone piduista… Bisognerebbe rompergli il muso… Il muso? Il culo…

Intanto dalla cucina era venuta fuori Giulia, la moglie di Gino, che mi salutò calorosa dando poi un’occhiata tra il divertito e l’incredulo al Cavaliere e ai due colossi che l’accompagnavano… Volete mangiare?, mi chiese… Sì. Però, se non ti dispiace, in due tavoli separati… Ah, per me, se va bene per voi… l’unica cosa è che stasera non c’ho tanta scelta… E sarebbe?… Di primo posso farvi un risotto oppure darvi del minestrone e di secondo c’è la cassöeula o la büsèca… o posso farvi, se proprio le volete, delle polpette… Io guardai Silvio per sentire cosa ne pensava… La cassöeula e la büsèca? Ostia, è una vita che non ne mangio… da me sai, prima con Veronica e ora con Francesca, si mangia tutto light, spesso anche vegano. E la cassöeula e la büsèca me le sogno anche di notte… le prendo tutte due!

Ci sistemammo. Il Cavaliere mangiò tutto, anzi, la büsèca se la fece portare due volte. Vino c’avevano un Barbera dell’Astigiano, tredici gradi e mezzo di piacere. E lui ci diede ben ben dentro, tanto c’era l’autista che lo portava a casa. A fine pranzo aveva due orecchie rosse come due papaveri e, nonostante la chiacchiera l’avesse sempre pronta, allora addirittura straparlava… Mi sa che avevi ragione, compagno comunista… era un po’ che non mangiavo così bene… la signora lì cucina divinamente, ha fatto questi nostri piatti milanesi proprio come li faceva la mia mamma… Poi cominciò a chiamare fuori Gina e gridava così forte che dovetti dirgli di abbassare la voce.  Ma lui era così sbronzo che non riusciva più a controllarsi e cominciava a mangiarsi le parole. Finché la Gina venne fuori dicendo, vengo vengo, non sono mica sorda, e si avvicinò al nostro tavolo. Lui le prese una mano e ci mise cinquanta euro… Questi sono per lei, signora, se li è proprio meritati… lei cucina divinamente… Giulia lo guardò seria, poi mise i cinquanta euro sul tavolo e disse… Se con questi intende pagare il conto, va bene. Altrimenti io non accetto regali da nessuno… e senza dire altro tornò in cucina. Lui rimase lì incredulo che avesse rifiutato il suo regalo… Hai fatto una bella figura da cafone, gli dissi… questa potevi davvero risparmiartela… E allora lui iniziò con la sua solfa… È che siete… tutti… le parole gli slittavano in bocca… comunisti… e i comunisti sono… dei poveri… ottusi… ecco cosa sono… Meglio comunisti che cafoni come te, replicai…  Il merito… caro compagno… il merito va premiato… e la signora è una brava cuoca… non è giusto che prenda… solo quei quattro soldi… che voi comunisti le date… Lo guardai in modo sprezzante… Tu pensi davvero di poter comprare tutti, che tutti ragionino nel tuo stesso modo meschino… tu non ti rendi conto che in questo cazzo di paese, nonostante ci siano al governo tipi stronzi come te, c’è ancora tanta gente che ha orgoglio e dignità personale e non è disposta a svenderli per nessuna ragione al mondo, neanche per il tuo maledetto denaro… per cui riprenditi i cinquanta euro, ché qui pago io… E andai in cucina a pagare, non solo per noi, ma anche per i due molossi.

Ripassammo dal bar e anche stavolta si zittirono tutti. E ci guardavano, con gli occhi che sprizzavano rabbia e un profondo disprezzo. Ma sotto si sentiva un ribollio sordo come di pentola. E appena usciti ricominciò il diluvio di minacce e d’imprecazioni e stavolta ero anch’io bersaglio di quella valanga di epiteti.

Quando raggiungemmo la macchina, Silvio mi disse con la lingua ancora legata dal’alcol… C’hai goduto, eh… a portarmi… in mezzo al popolo bue… quello che ha… le pelli di salame sugli occhi… volevi umiliarmi… credevi di umiliarmi… ma io… io c’ho la scorza dura e… e non mi fanno paura… quattro… quattro comunisti di merda… e salì sulla Mercedes nera che partì a tutta velocità.

Non rividi più Silvio da quella sera. In Istituto mi dissero che aveva avuto una licenza dal servizio per partecipare a una sessione importante dei lavori parlamentari. Nel frattempo io il 31 maggio finii il mio di servizio e anche se poi una volta la settimana continuai ad andare a trovare i miei pazienti non lo feci mai di venerdì, l’unico giorno in cui lui era a Cesano Boscone. Dopo di che ebbi un’offerta di lavoro stagionale in Liguria, ci andai e tornai  a Buccinasco soltanto alla fine di settembre.

Ero ormai a casa da qualche giorno, quando decisi di fare un salto all’Arci “Cesare Terranova” per salutare i compagni. Come entrai nell’atrio, il fumoir, gli “incalliti” mi si rivolsero immediatamente, come se stessero già parlando di me… Toh, guarda chi si vede… Eh, sì, ci hai fatto proprio un bel regalo… Ora s’è messo anche a fare il comunista… Io non capivo, mi sembrava strano quello che dicevano, ma non chiesi spiegazioni ed entrai dritto nel bar.

Come aprii la porta, fui investito da un vociare assordante… Ma cosa cali!… Ou, questo qui non capisce proprio niente… Ma come ha fatto a fare così tanti soldi, sto ciaparàtt! … E tra queste voci riconobbi anche quella inconfondibile del Cavaliere e ci restai di stucco… Ah, voi di sicuro non li potevate fare, ciùciamanuber che non siete altro! Voi comunisti volete prendere quelli degli altri, ecco che cosa volete fare… Ma  io vi ci copro tutti con i miei soldi, vi ci annego dentro… Tu l’hai rubati i soldi, mica l’hai guadagnati… Mena no el turun!, ribatté il Berlusca, io ho lavorato, e anche sodo… Buuuuuuuuuuh, fecero in coro tutti gli altri. Io li guardavo esterrefatto, mai più mi sarei immaginato di ritrovare lì il Berlusca addirittura seduto a un tavolo a giocare a tressette con i miei amici operai. Finché lui mi vide e allora cominciò a sbracciarsi e a gridare… Compagno Gianni, vieni, vieni qui con i tuoi amici comunisti… gli sto dando una lezione a tressette, perché questi non sanno mica giocare… Gli altri scoppiarono a ridere a crepapelle… E invece tu sai giocare? Ma se non conosci neanche il valore delle carte… Tu sai fregare, quello lo sai fare bene… Ma lo puoi fare con i ciula delle tue televisioni, mica con noi operai… Alla classe operaia nessuno glielo mette nel culo!… Gino, dai da bere a Gianni, che se non gliene offro io qui c’hanno tutti il braccino corto, disse il Berlusca… Nel frattempo suonò il telefono dietro il banco. Gino rispose… Pronto?… Il cavalier Berlusconi?… Sì, è qui… Glielo chiamo… Gino mise una mano sulla cornetta… Cavaliere, la cercano…  Chi è?, gli chiese Silvio accompagnando la domanda con un gesto plateale della mano… È un tal Cusani, gli sussurrò Gino… Oh, ci mancava anche ’sto pirla… Digli che non ci sono, anzi, digli che non ci voglio proprio parlare con lui… capirai, è uno strozzino di merda… un affamatore di popolo… Uèla! Il Berlusca é diventato comunista… Ma va là! Sarà qualcuno a cui deve dei soldi… e allora non si fa trovare… È per questo che è entrato in politica, per ripianare i suoi debiti… Continuate a sparare cazzate, continuate… e intanto io accuso… e mise giù sul tavolo i quattro assi… Signori, questa è classe!, disse ammiccando in giro con il suo faccione… Questo è culo, altro che classe!… ma…  aspetta un po’… cosa c’hai lì sotto il culo?… Ma cosa dici, gli rispose Silvio sistemandosi meglio sulla sedia… No, no, lì c’hai delle carte… Ma che porco! Neanche a tressette riesce ad essere onesto…

A quel punto me ne andai, con nelle orecchie tutto quell’ambaradano. Il giorno dopo lessi sul giornale che in un comizio a Milano Berlusconi aveva detto che i comunisti non avrebbero vinto le elezioni neanche se se le fossero giocate a tressette.


[1] Freud, Sigmund, L’interpretazione dei sogni, Einaudi, Torino 2014

[2] Jung, Carl Gustav, Aforismi, Bollati Boringhieri, Torino 2012

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