I presupposti del pensiero democratico

La discussione su che cosa sia la democrazia politica è un leit motiv che accompagna questo sistema di governo delle comunità e dei popoli da quando per la prima volta è stato applicato nella Storia fino ai giorni nostri, con le inevitabili differenziazioni se si parla della democrazia antica o di quella contemporanea. Oggi, però, che la democrazia politica si è diffusa un po’ in tutto il mondo e nello stesso tempo mostra segni di crisi proprio nelle democrazie più mature, non è possibile discuterne se prima non si hanno ben chiari quali siano i presupposti affinché essa si sviluppi sia teoreticamente sia praticamente in modo consapevole e non diventi invece un confuso guazzabuglio di idee democratiche o di altre che addirittura non lo sono affatto.

Ma prima di indicare quali sono, secondo noi, i possibili presupposti di una discussione democratica occorre fare una premessa: tutte le specie animali hanno a livello istintuale la necessità di stare insieme. È infatti l’istinto di sopravvivenza individuale che le ha spinte a riunirsi in gruppi, in quanto questo comportamento consente loro una maggiore possibilità di riuscire a difendersi anche da quelle insidie che difficilmente sono sostenibili individualmente. Ne deriva che, per stare insieme, la prima prerogativa dell’interazione interindividuale è la capacità di accettare l’altro, il diverso da noi che c’è in ogni specie. Se un individuo non è in grado di fare questo, difficilmente sarà poi in grado di accettare un sistema di governo che una maggioranza di persone che non la pensa come lui ha eletto. Accettare l’altro e il suo pensiero, dunque, pur non condividendolo, indipendentemente da altre ragioni di natura etnica o razziale, sessuale, economica e sociale.

Ma l’accettazione dell’altro comporta necessariamente la conoscenza dell’altro, se non individualmente almeno come soggetto sociale, e quindi anche la conoscenza fisica e psicologica della sua condizione. E se l’altro non gode, per ragioni naturali o traumatiche, della stessa nostra condizione fisica e psicologica, cioè non più o meno diversa, ma menomata nella sua normalità, accettarlo vuol dire non approfittare di questa sua “debolezza”, ma se mai metterlo in condizione di “contare” quanto noi nel contesto relazionale e nelle decisioni che eventualmente si assumono, facendogli superare le “barriere” che glielo impediscono e lo rendono “fragile”.

Accettato pienamente in questo modo l’altro occorre poi accettare anche il dialogo interattivo con lui. Perché non basta, ovviamente, accettare l’altro purché non parli e non si permetta di contraddire ciò che pensiamo noi o contestare i nostri modi di fare, ma bisogna accettarlo e cercare di conoscerlo senza pregiudizi e prevenzione alcuna, magari determinati dal sentito dire e non, per l’appunto, dalla conoscenza. E una volta conosciuto confrontarsi con lui sulle proprie idee, senza giudizi aprioristici di condanna. Spesso persone demonizzate dalla voce popolare per un fraintendimento stereotipico delle loro idee, se conosciute e frequentate, risultano essere tutt’altre rispetto a quello che se ne dice, con maggiore disponibilità all’interrelazione rispetto a quella dei loro detrattori. Del resto la vox populi è spesso il sedimento di sentimenti antidemocratici coltivati dalla massa sia per ignoranza che per cattiveria ed espressi nella forma peggiore della relazione interumana che è l’invidia. Che colpisce soprattutto chi ha qualcosa da dire al di fuori del coro, perché incrina ipocrite certezze e porta alla luce scabrose zone d’ombra.

Ecco allora che il dialogo interattivo è dunque l’approccio più democratico all’interrelazione. Dialogo, infatti, non vuol dire semplicemente parlarsi scambiandosi luoghi comuni e ovvietà, ma avviare una discussione tra persone che sostengono un proprio punto di vista e ascoltano attentamente quello che dicono l’altro o gli altri per condividerlo oppure per confutarlo. E un dialogo non è interattivo se uno degli interlocutori non ascolta l’altro o gli altri, ma espone semplicemente le proprie idee e poi, nel momento in cui dovrebbe ascoltare l’altro o gli altri, attende soltanto di riprendere il proprio discorso dal punto in cui l’ha lasciato indipendentemente da ciò che essi hanno detto. È il caso del solipsismo, quell’atteggiamento mentale in base al quale il soggetto pensante non può affermare che la propria idea individuale in quanto tutta la realtà si risolve nel suo pensiero. Esso è l’ostacolo più grande al pensiero democratico perché chi lo esercita è convinto di essere democratico discutendo le sue idee che sono ovviamente per lui le uniche degne di essere prese in considerazione. Tutto ciò che riguarda i successivi passaggi del dialogo interattivo, accettare e fare obiezioni, riconoscere aspetti del pensiero altrui migliori dei propri e di conseguenza correggere o addirittura cambiare il proprio punto di vista, cercare una mediazione tra le diverse posizioni, avere l’aspirazione a condividere possibilmente delle conclusioni e, in definitiva, un pensiero collettivo che sancisca e tuteli il bene comune, è assolutamente impossibile per i soggetti solipsistici.

Ciò che rende, invece, interessante e proficuo l’esercizio del dialogo interattivo è l’uso da parte degli interlocutori del pensiero critico. Spesso esso viene confuso semplicemente con il piacere perverso della critica di chi non è mai d’accordo con quello che si dice, il cosiddetto “criticone”, ma non c’entra proprio niente, anzi, ne è assolutamente l’antitesi. Il pensiero critico è la capacità di analizzare informazioni, situazioni ed esperienze in modo oggettivo, senza farsi influenzare dalle proprie impressioni soggettive o da altri condizionamenti ambientali, al fine di fare scelte responsabili sia a livello personale che collettivo. È il modo più proficuo di analizzare i problemi in situazioni di dialogo in quanto è quello che tende all’assunzione da parte del gruppo della soluzione più oggettiva ed equilibrata a tutela degli interessi generali.

Ma per avere un pensiero critico bisogna informarsi adeguatamente sulle questioni che si vogliono dibattere, non basta il sentito dire magari ancor più diluito a causa del “passa parola”. Pensare criticamente è il frutto di una più ampia conoscenza possibile dei fatti e di una successiva riflessione che valuta i pro e i contro di ogni situazione. Presuppone quindi sia capacità che volontà di conoscere e successivamente obiettività nel giudicare i contenuti delle nostre conoscenze. Se poi il confronto di idee deve necessariamente giungere a una conclusione condivisa – come nel caso della democrazia politica – oltre alla competenza dimostrata nel corso della discussione ne occorre un’altra che renda proficuo il risultato del confronto: la capacità di mediazione. È infatti difficile, per non dire impossibile, che la discussione si concluda con il trionfo assoluto delle idee di qualcuno, ma ciò che viene fuori da una discussione tra persone che credono nel dialogo è sempre una mediazione tra le varie posizioni. Sta qui il destino del confronto democratico: la capacità degli interlocutori di trovare sempre una soluzione condivisa ai problemi affrontati, frutto di una mediazione tra le parti, che talora può essere più soddisfacente per qualcuno che per altri, ma che viene accettata come l’unica possibile in quel determinato momento.

Questa soluzione frutto di mediazione deve comunque sempre soddisfare un obiettivo che tutti coloro che credono nel dialogo politico interattivo devono avere come fine del loro agire: il bene comune. Socrate sosteneva che soltanto gli ignoranti vogliono il male, proprio perché ignorano il bene[1]. E la critica moderna al suo pensiero ritiene errata la sua affermazione in quanto, secondo molti, coloro che fanno il male sono tutt’altro che ignoranti, ma anzi, ben consapevoli di ciò che stanno facendo. Noi riteniamo invece che chi sa veramente sa che il male, soprattutto nel lungo periodo, è controproducente per tutti, sia per chi lo persegue che per gli altri che lo subiscono, e la sua reiterazione sistematica finisce per minare le basi solidali di una comunità contraddicendo la sua ragione di esistere. Ne è uno specchio la contemporaneità in cui la maggioranza dei sistemi politici sono dilaniati dall’assenza di sapere e si barcamenano tra scandali e malversazioni che incrinano la fiducia dei cittadini. È la crisi epocale della politica e delle democrazie in generale che rischiano di veder riemergere prima o poi il mito dell’uomo forte, l’uomo del destino, quello che ha sempre condotto i popoli alla catastrofe.

Per quel che ci riguarda, il bene comune non è il paese di Bengodi, ma l’attenzione da parte di chi fa politica nei confronti di tutti i membri della comunità di riferimento, sia essa una piccola comunità locale o un grande stato. E soprattutto dei più deboli, di coloro che spesso soltanto con le loro forze non riescono a vivere dignitosamente. Ecco dove sta la soluzione democratica per il bene comune: far sì che tutti i cittadini godano degli stessi diritti civili e che nessuno di essi sia escluso da quelli sociali, ma abbia una casa e un lavoro che gli consenta di mantenere se stesso e i suoi famigliari. Questo è il bene comune che è possibile e necessario raggiungere in ogni luogo della Terra e soltanto un’educazione permanente al dialogo e al confronto democratico sarà in grado di formare cittadini e uomini politici capaci di realizzarlo.  


[1] Platone, Gorgia, Rizzoli, Milano 1994

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