Tradizione locale e cultura universale negli epigoni del Lazzarettismo

LINGUAGGIO, SCRITTURA E MEMORIA ORALE

“… Vorrei concludere dicendole che il Lazzaretti fu un semplice, e fu un compagno dei semplici, perché parlava di loro lo stesso linguaggio e noi siamo i nipoti e i pronipoti di quei grandi vegliardi che continuiamo a conservare quel lievito da lui lanciato che a tempo giusto ci verranno fatti tanti pani”[1].

Quali parole meglio di queste con cui Turpino Chiappini, ottavo sacerdote giurisdavidico, concludeva la sua risposta a un redattore de “La rivista dolciniana” nel 1993 possono sintetizzare il significato più profondo della Fratellanza Giurisdavidica? In esse c’è tutta l’essenza di una fede limpida, immediata – priva di “calchi” intellettuali o di interessi individuali – e di una serena consapevolezza che la verità, come principio spirituale, è semplice e quindi non ha bisogno di essere cercata speculativamente, ma soltanto riconosciuta e accettata con fede; e quanto più uno è scevro delle deformazioni della ragione tanto più sarà in grado di comprenderla.[2]

In queste parole Turpino Chiappini fa una considerazione che ha valenza sia di forma sia di sostanza: da un lato “lo stesso linguaggio” dei semplici che parlava il Lazzaretti è il linguaggio proprio dei Vangeli, che usa termini e modi di dire legati alla tradizione popolare e contadina, e perciò è concreto, essenziale, inequivocabile[3]; d’altro canto il riferimento costante a fenomeni fisici, biologici e di consuetudine rurale (in questo caso il lievito e i pani) non è soltanto espediente allegorico-linguistico, ma vera e propria enunciazione del principio fondante dell’escatologia cristiana, il potere del “verbo” di propagare la verità e di trasformare la prospettiva umana da materiale e finita in spirituale e infinita.[4]

È secondo questi principi che si sviluppa l’esperienza degli epigoni del Lazzarettismo. Così come fu per gli Apostoli con Cristo, anche per i seguaci del Lazzaretti la “parola” rivelatrice del profeta fu il motore di energie psichiche e spirituali che altrimenti sarebbero rimaste inespresse, magari latenti e talora affioranti, ma mai consapevoli e finalizzate. O perlomeno tutte ricondotte all’interno del contenitore orale millenario della memoria popolare, che è fondamento di identità e di tradizione, ma proprio per questo anche chiusura nei limiti ambientali e culturali del gruppo subalterno che la esprime.

Con i seguaci del Lazzaretti avviene dunque il salto da una cultura locale fortemente identitaria ad un’altra universalistica come è quella del Vangelo; e questo senza mutare niente del sé esteriore, che rimane pienamente radicato nel locale, ma catapultando addirittura il sé interiore in una dimensione cosmica, assoluta, dove le appartenenze materiali e sociali non hanno più ragione di esistere. Ecco dunque il bisogno di scrivere, di trasmettere con le proprie parole la memoria autentica di quei giorni, adempiendo il compito irresistibile che Dio ha loro assegnato in quanto apostoli e discepoli del divino maestro. “Voi siete il sale della terra: ora, se il sale diviene insipido, con che lo si salerà? Non è più buono a nulla se non a essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo: una città posta sopra un monte non può rimaner nascosta; e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio; anzi, la si mette sul candeliere ed ella fa lume a tutti quelli che sono in casa”[5].

Del resto se era Dio che aveva scelto di manifestarsi così, come era possibile sottrarsi a questo compito? Inizialmente dovette essere duro per dei montanari abituati al lavoro e alla propria sobria tradizione vincere la ritrosia a esporsi e a cimentarsi in discorsi che fino ad allora erano stati appannaggio esclusivo dei preti e degli uomini di cultura. Ma poi prevalse la fede nel maestro e la convinzione – questa sì tutta evangelica, ma anche di classe – che la voce di Dio non sarebbe stata tale se non si fosse manifestata attraverso gli umili, i più semplici. Questo concetto fu espresso compiutamente da Francesco Tommencioni, discepolo del Lazzaretti, il quale nella prefazione a “Memorie e manoscritti, 1920” dice a proposito della decisione di affidare alla scrittura le sue riflessioni: “… Non fui fino ad ora troppo propenso nel registrare i fatti del mio divino maestro unicamente per il mio sconcio carattere e poi per la maniera rozza e villana dell’uomo idiota, semianalfabeta quale sono io.

Ora però mi pare di comprendere che l’infinita sapienza di Dio come si è rivolta sempre agli uomini semplici incolti idioti altrettanto vuole che sia tramandata alla memoria dei posteri per mezzo di uomini del popolo incolti ed ignoranti. I dotti e i sapienti del mondo non hanno fatto altro che alterare con la loro arroganza e presunzione il vero senso e la sostanza delle Sacre Scritture…”[6].        

È chiaro come qui l’atavica soggezione dei subalterni nei confronti della cultura ufficiale sia completamente ribaltata e, anzi, veda nel pensiero “colto” delle classi dominanti un ostacolo alla proclamazione del “verbo”. Ma da qui al “è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco vada in paradiso”[7] il passo è breve. E non per ragioni di carattere politico – sociale, ma, anzi, prepolitiche o postpolitiche potremmo dire, in cui il discrimine economico è un elemento ontologico, non un fattore sociale. Avere impedisce di sapere, perché il sapere prescinde dall’avere, è tutto essere. E l’essere è l’oggetto e lo strumento della nostra ricerca spirituale, al di là delle apparenze della realtà materiale. Quanto più l’essere si allontana dalla materia, tanto più si avvicina al fine della sua ricerca, la pura essenza spirituale, il principio generatore, “res generans et non generata” di bruniana memoria.[8]

Un’altra esperienza di scrittura di influenza lazzarettiana, diversa nei modi e nello stile da quella del Tommencioni e di altri giurisdavidici, è quella di Angelo Pii, detto “il poetino”, apostolo incarcerato, che scrisse in ottave di endecasillabi la “Storia di David Lazzaretti”. Sotto un certo aspetto questa forma di scrittura è più scontata rispetto a quella memorialistica o di commento dottrinale praticata da altri, in quanto il verseggiare orale nel modo dei rispetti, dei contrasti o dei rimbrotti è patrimonio secolare delle plebi toscane. La grande novità è la scrittura del testo (ottave, schema metrico: AB, AB, AB, CC) e la sua ampiezza da vero poema. Della qualità dei versi può essere testimonianza questa ottava (Canto Terzo, ottava n. 268) sul compimento della missione del divin maestro: Sappi che in cielo su l’eterno banco / è stato decretato a conclusione / a lettere di fuoco in foglio bianco / l’eseguimento della tua missione / tu con la carne, ài vinto pur’anco / l’essenza spirituale nel concione / or l’incredulità vincere aspetta / che nel cuore degli uomini prospetta. Solo “l’effetto alone” di un leader carismatico[9] riesce a motivare istanze che sì possono essere innate, ma che restano sotterranee senza una grande, formidabile motivazione. Lo dimostra anche l’esperienza dell’ideologia politica e sociale che, quando è stata vissuta con empito potremmo dire religioso, ha trasformato “uomini idioti e semianalfabeti”, come dice Tommencioni, in abili politici o sindacalisti. “Effetto alone” illuminante, dunque, ma inefficace senza una dedizione totale alla causa fatta di lavoro, apprendimento e rinunce. Ma del resto è così anche per la fede: senza un grande desiderio di cercarla, senza una grande disponibilità ad accettarla, si tratta soltanto di un’istanza volontaristica che vacilla al primo ostacolo. Per intenderci: la “fiammella” che scende sugli apostoli e vivifica la loro parola e la loro azione non è niente senza la loro pronta e totale adesione. Come dire: il “miracolo” non è a senso unico, ma biunivoco[10].

Ma se l’esperienza della Fratellanza Giurisdavidica si caratterizza per questo proliferare di scritti da parte dei seguaci, non si può tuttavia dimenticare il ruolo che continua ad avere, soprattutto nella trasmissione all’interno del gruppo della vicenda lazzarettiana, la memoria orale[11]. Del resto è questa la modalità di comunicazione consolidata nei secoli dalle classi subalterne, modalità divenuta nel tempo immediata, automatica, ripetitiva, almeno nell’impostazione generale, e pertanto di facile acquisizione; ma rivivificata e innovata ogniqualvolta venga interpretata da qualcuno con particolari qualità di narratore, un contafòle ad esempio. È possibile immaginare quei “vegliardi” dalle lunghe barbe bianche quando, seduti nel consesso familiare o addirittura di borgata, raccontavano la storia del Lazzaretti citando ripetutamente le parole dei suoi scritti e cospargendo il loro racconto di un alone di esaltazione a un tempo epica e spirituale. E la reazione dei ragazzetti che formavano il loro immaginario su questi racconti e lo rimuginavano e lo interiorizzavano fino a diventarne loro stessi depositari in un passaggio di testimone naturale. Mi ripeteva sempre queste cose Turpino, quando confrontava il suo presente, ormai privo di una situazione comunitaria, con l’esperienza che aveva vissuto lui da bambino e che l’aveva fortemente segnato.    

È quanto si evince dalla lettura di alcune testimonianze orali raccolte nell’agosto 1978 da Aurora Milillo che, citando un punto di vista di Gramsci da Il Risorgimento, rilevava come l’esperienza orale lazzarettista si poneva, rispetto ad altre analoghe, come quella che possedeva il più alto grado di iniziativa autonoma, di indipendenza rispetto ai gruppi dominanti sia per i contenuti sia per il linguaggio. Oppure da quelle raccolte da Antonio Giustarini e pubblicate su “Quaderni di Amiata Storia e Territorio”, supplemento alla rivista omonima, dicembre 1988, tra cui spicca quella di Aristodemo Fatarella, l’ultimo anziano all’epoca che aveva sentito narrare i contemporanei di David, custode dell’archivio giurisdavidico di Poggio Marco. “Il mi’ babbo Raffaello andò per curiosità quando fu la tragedia, non che credeva in Davide, aveva diciotto anni; salì sopra un muro e vide proprio i pagati, sotto al muro, che tiravano i sassi ai Carabinieri, vidde proprio tutto il fatto!… il Delegato De Luca sparò a salva, gli fece cecca il fucile; allora comincionno a di’ che aveva la corrazza Davide Lazzaretti… poi ancora il brigadiere Caimi sparò ma ancora lui fece cecca, perché non volevano esse i carnefici… c’era anche la mia mamma, aveva dieci anni. I vecchi al monte ci andavano nei giorni addetti, perché erano perseguitati, andavano ora da’na parte ora da ’n’altra; si riunivano tutti ne la capanna di Cherubino Cheli sotto il monte Labbro; lì facevano il circolo e ragionavano di tutte le su’ cose; da ragazzettacci andàvamo, ascoltàvamo ma piuttosto ci ridevamo; s’era con quei regazzi de’ Cardali… erano come santi, quando uno parlava quell’altri ascoltavano e approvavano; facevano le su’ preghiere, i canti, i su’ racconti”[12]  

LA CONTINGENZA DEL SECONDO DOPOGUERRA

Che cosa avvenne di questa carica dirompente che il divino maestro aveva trasmesso ai suoi apostoli e discepoli? Fu per un naturale processo di lontananza che essa si esaurì nelle seconde e, soprattutto, nelle terze generazioni? Perché un conto è narrare ciò che si è vissuto e un altro narrare per sentito dire, per fede indiretta. C’è dunque un inevitabile esaurimento della forza del “logos” man mano che ci si allontana dalla sua manifestazione?

A ripercorrere la storia delle religioni rivelate parrebbe proprio così, un graduale spegnersi dell’effetto alone suscitato dall’evento. Il problema è se l’affievolirsi del messaggio sia dovuto semplicemente al passare del tempo oppure se il declino delle religioni sia indissolubilmente legato al mondo moderno e all’affermarsi della scienza[13]. La teoria scolastica della doppia verità[14] e la condanna da parte del Sant’Uffizio di Copernico e di Galileo sembrerebbero confermarlo e Einstein, nel suo saggio “Come io vedo il mondo”, sostiene a proposito dell’antagonismo tra religione e scienza: “ Secondo considerazioni storiche, si è propensi a ritenere scienza e religione antagonisti inconciliabili, e questo si comprende facilmente. L’uomo che crede nelle leggi causali, arbitro di tutti gli avvenimenti, se prende sul serio l’ipotesi della causalità, non può concepire l’idea di un Essere che interviene nelle vicende umane, e perciò la religione – terrore, come la religione sociale o morale, non ha presso di lui alcun credito; un Dio che ricompensa e che punisce è per lui inconcepibile perché l’uomo agisce secondo leggi esteriori ineluttabili e per conseguenza non potrebbe essere responsabile verso Dio, allo stesso modo che un oggetto inanimato non è responsabile dei suoi movimenti… Si capisce quindi perché la Chiesa abbia in ogni tempo combattuto la scienza e perseguitato i suoi adepti”[15].

Fatto sta che, nel secondo dopoguerra, scomparsi ormai tutti i protagonisti diretti, la Fratellanza Giurisdavidica vive un momento di crisi drammatica. Nel pieno della scristianizzazione propria dello sviluppo industriale, anche per molti Lazzarettisti l’opzione politico – sociale laica diventa il  principale motivo d’interesse e confina in secondo piano, od oscura addirittura, la fede religiosa. Il nucleo dei seguaci si assottiglia e la Fratellanza perde molto del suo battagliero vigore[16].

Finché, nel 1953, avviene un tentativo di sostanziale innovazione nella comunità giurisdavidica portato avanti da parte di un gruppo di seguaci romani che si era costituito attorno alla figura di Filippo Imperiuzzi, primo sacerdote giurisdavidico, e di Elena Cappelli, sua moglie.

Capeggiavano questo gruppo Elvira Giro, una visionaria, che si definiva la “gran madre dell’universo”, e Leone Graziani, ingegnere alle acciaierie di Terni, che profondendo risorse economiche considerevoli intervennero sulle strutture fatiscenti di Monte Labbro, ristamparono alcuni libri del Lazzaretti e organizzarono eventi pubblici di rievocazione lazzarettista.

Inizialmente questo intervento, dopo anni di ostilità da parte della società circostante, fu bene accetto dalla comunità lazzarettista amiatina e sfociò nella nomina di Leone Graziani, in quanto fornito di titolo di studio superiore, come rappresentante ufficiale della Fratellanza Giurisdavidica nei rapporti con lo stato italiano, fatto che portò al riconoscimento della Fratellanza stessa come chiesa. Ma dopo i primi entusiasmi, legati a questo effimero rifiorire del culto giurisdavidico, la sostanziale estraneità delle idee sostenute dalla Giro e da Graziani rispetto alla tradizione davidiana[17] e la pesante ritualità da essi imposta provocarono una reazione nel gruppo amiatino che  il 7 maggio 1961 impose ai cosiddetti “culturali” romani “di riconoscere nuovamente il vecchio  sacerdote Nazzareno Bargagli come capo della Chiesa” e di rimettere ogni controversia a periodiche assemblee generali di tutti i fedeli[18].

Il più deciso in questa presa di posizione e l’artefice materiale della mozione presentata nella discussione fu Turpino Chiappini. Essa tra l’altro diceva: “Concludo ricordando ai culturali di non beffarsi delle timide pecorelle, perché Iddio s’è servito sempre del basso popolo perché grande e potente è da sé medesimo”. È il Turpino che già conosciamo dalla citazione iniziale, quello che si richiama alla semplicità della tradizione giurisdavidica. Ma è lo stesso capo sacerdote che controfirma il documento apparso sul “Quaderno di Amiata Storia e Territorio” del dicembre 1988 e che dice: “La nostra attività consiste nel cercare di tenere una vita conforme al Suo Insegnamento e a praticare periodicamente, specie e più spesso d’estate, la grotta sulla cima del Monte Labbro, per le nostre funzioni e preghiere comuni. Il nostro impegno principale attuale è la conservazione, per quando i tempi saranno maturi e l’umanità potrà riceverli, degli scritti originali e manoscritti di David e dei suoi apostoli e primi discepoli e seguaci, che sono riuniti nel nostro Archivio”. E ancora: “Siamo fiduciosi che i tentativi delle nostre deboli energie, inadeguati alla bisogna, servano, con l’aiuto del cielo e dello Spirito di David, a farci superare questo periodo buio, amorale e corrotto, perché i posteri redenti possano giungere, attraverso “l’orrida tempesta” della purificazione forzosa, al solo Dio, alla sola Legge e alla Fraternità tra i popoli sulla Terra, senza confini e frontiere delle antiche profezie”.

Vengono qui ribaditi due cardini essenziali del credo giurisdavidico: la conservazione e la fedeltà agli scritti originali del Lazzaretti e dei suoi discepoli e seguaci; la fede nella futura purificazione attraverso il diluvio di fuoco e l’instaurazione sulla Terra della legge del Diritto. Due cardini che ci rimandano immediatamente al mondo che li esprime, quello contadino.

La fedeltà alla tradizione è un modo empirico di difendersi dalla disgregazione nella piena consapevolezza che l’apertura e il confronto rendono sicuramente altra la propria realtà. Pertanto, anche se le inferenze ricevute dovessero essere positive, avrebbero comunque un effetto alienante. Ritorna dunque l’osservazione gramsciana sulle difficoltà di iniziativa autonoma dei ceti subalterni che pare più che mai inverata dalla contemporaneità. Anche oggi, anzi, soprattutto oggi che le conquiste del movimento operaio vengono messe pesantemente in discussione, c’è una sorta di ritorno alla subalternità dei ceti proletari che hanno perso i modi tradizionali di espressione politica e sociale, il partito e il sindacato, e si ritrovano orfani di un’illusione che pareva averne sancito non solo l’autonomia, ma addirittura l’egemonia. Oggi, nella società dominata dai media, ogni tentativo di far sentire la propria voce viene immediatamente stravolto e ricondotto nei canoni feroci del consumo. Ecco allora farsi largo la perdita di dignità individuale, il mettersi alla berlina nella perenne ricerca di un riconoscimento sociale, di uno status, che non c’è se non nella forma-massacro dell’oggetto di consumo globalizzato[19].

Alla luce di tutto questo, la “resistenza” dei Lazzarettisti su posizioni tradizionaliste non ci appare dunque come un moto oscurantista di quelli che caratterizzano il presente, in cui uomini respingono altri uomini per il diverso colore della pelle o per il fardello di drammi che si portano appresso; perché il lazzarettismo coniuga, nella sua fede genuinamente cristiana e davidiana, tradizione locale e cultura universale uscendo con strumenti propri e originali dal rischio del localismo. L’idea di comunità della Fratellanza Giurisdavidica non ha niente della pervicace difesa etnica, o presunta tale, che qualcuno vorrebbe che facessero le nostre ormai dissolte comunità locali, ma è tutta vissuta, sull’esempio del santo David, come una preparazione-anticipazione della comunità ideale cristiana che è ontologicamente universale. In essa le categorie materiali dell’avere si riducono alla mera necessità[20] e il principio fondante è quello sconvolgente “gli ultimi saranno i primi, e i primi saranno gli ultimi” cardine del messaggio cristiano[21]. L’hanno capito quegli “idioti semianalfabeti”, non ci riusciamo noi con la prosopopea delle nostre culture.

La fede nella “maturità dei tempi” ha nella fedeltà alla tradizione il suo riferimento dottrinale ed è rinforzata dalla sete di giustizia sociale che contraddistingue da sempre il mondo contadino. Giustizia  intesa  nella sua accezione più alta in senso escatologico, la terza era del Diritto o dello Spirito preannunciata da David ne “Il libro dei Celesti Fiori[22], ma che non può non risolversi anche in una palingenesi terrena più “vicina” alla mentalità rurale e alla sua concretezza. Il paradiso “spirituale” della tradizione cattolica comporta un’astrazione innaturale che recide radici e certezze faticosamente conquistate. Diventa difficile parlarne, perché vengono meno le categorie di pensiero della vita quotidiana. Qui non si tratta di nostalgia dei beni terreni, ma di legame con la terra, che è vita, madre, religione. E un contadino senza terra perde anche la fede.

Ora l’anelito alla giustizia divina sulla Terra è il sogno dei millenaristi di ogni tempo ed è scaturito in luoghi diversi tra di loro, ma sempre in mezzo a popoli o gruppi sociali che avevano un profondo legame con la terra, soprattutto tra i contadini. La terra, infatti, non è un’aspirazione a un bene materiale, ma il naturale compimento di un percorso di giustizia[23]. È il frutto concreto della creazione e a nessun dio “contadino” passerebbe mai per la mente di distruggerla in nome di un bene superiore. Perché non esiste niente di superiore alla Terra, origine e fine dell’esperienza umana. Fine nella sua duplice accezione di obiettivo e di conclusione.

Nessuno degli epigoni del Lazzarettismo ha mai reciso il suo legame con la terra. Contadini, pastori o operai-contadini tutti hanno avuto nella loro esperienza quotidiana la misura della terra. L’ha avuta anche Turpino, nella sua casa in mezzo ai castagni alla Zancona. E ogni suo gesto, ogni sua parola, era naturalmente impregnato di questa condizione esistenziale. Non sarebbe stato lo stesso a Grosseto, a Firenze o a Roma.

L’INCONTRO CON TURPINO

Conobbi Turpino nell’estate del 1975. Figlio di contadini viticoltori, studente presso l’Università di Genova, mi venne affidata dal mio professore di sociologia, Italo Bertoni, una tesi un po’ speciale: lui conosceva il mio interesse per le esperienze comunitarie di base di matrice cristiana per quella convivenza in esse sia di ragioni sociali sia di istanze spirituali, per cui dopo vari colloqui mi disse di fare una tesi sull’esperienza socioreligiosa di David Lazzaretti. Figurarsi il mio entusiasmo: si trattava di venire sull’Amiata a riscoprire la storia di un profeta contadino, un profeta della mia classe sociale.

Allora ero molto attento a queste caratterizzazioni e nel pieno del movimento degli anni ’70 portavo avanti un’indagine sociale e un’attività politica basate su una forte concezione di classe. Ma nonostante un’adesione sostanziale alle idee del movimento operaio, avevo la netta convinzione che in quella realtà di lotta di classe si nascondesse un pericolo nascosto che presto sarebbe diventato dominante: il consumismo. Pertanto, ripensando alla mia storia personale e sociale, ritenevo che forse soltanto rifacendosi all’etica della sobrietà contadina si potesse scongiurare la fagocitazione che vedevo in atto nel processo di consumizzazione di ogni conquista operaia. Fu così che, mentre gli altri compagni del movimento spingevano all’eccesso il protagonismo operaio, io partivo per l’allora per me sconosciuto Amiata alla ricerca di risposte ai miei dubbi e alla mia ansia sociale e spirituale. Eh, sì, perché anni di analisi storico-materialistica della realtà sociale e dell’economia capitalistica non avevano mai intaccato in me la convinzione che esistesse uno spirito, un’anima, che doveva vivificare quelle cose che altrimenti si sarebbero dimostrate aride e si sarebbero ritorte contro di noi[24].

Venni dunque ad Arcidosso, con la precisa convinzione che non avrei lavorato soltanto a una tesi, ma che avrei vissuto un’esperienza importante per la mia crescita umana.

L’approccio fu contraddittorio: una certa reticenza da parte dell’arciprete a cui mi rivolsi per i primi ragguagli (“Ma che senso ha fare una tesi sui Giurisdavidici, in pratica non c’è più nessuno”), l’incontro a Monte Labro con Leone Graziani – di cui percepii immediatamente, da viscerale contadino, l’istanza “culturale” e cittadina che lo caratterizzava, ma che fu di quella generosa umanità che supera ogni diversità – e infine l’incontro con Turpino alla Zancona. Fu breve, dovevo rientrare in Piemonte, ma mi diede il segno di che cosa avrei trovato.

Ciò avvenne nel dicembre successivo, quando ritornai alla Zancona sempre alla mia maniera di globe trotter con zaino e tenda sulle spalle. Significativo fu il fatto che quel giorno, 5 dicembre 1975, viaggiai su un treno per Roma pieno di militanti di Lotta Continua, che diedero vita nella capitale a una grande manifestazione che segnò la prima lacerazione nel movimento. Loro andavano

incontro alle loro contraddizioni, io iniziavo un cammino che sarebbe stato determinante per la mia vita futura[25].

Sistemai la tenda sotto i castagni appena sopra la casa e Turpino, da buon padre di famiglia, era preoccupato che avessi freddo nella mia tendina canadese. “Tu sei come le lumache, che hanno la loro casina sulle spalle” mi diceva.

Ragionammo a lungo in casa vicino al fuoco, alla presenza discreta di Fernanda, ma anche fuori, sotto le stelle, nell’aria pungente di quei primi giorni di dicembre. Allora mi ritornarono spesso alla mente le famose parole di Immanuel Kant: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me…”[26].

Ci si comprese subito, senza reticenze. Io gli raccontai del mio sentire cosmico, da religione universale laica[27], lui mi parlava del Lazzaretti, citando passi delle sue opere per ogni cosa di cui si discuteva. C’era una piena armonia tra di noi: io percepivo in lui la chiusura del cerchio che andavo cercando, il fatto che senza quella fede nessuna palingenesi del genere umano sarebbe mai stata possibile; lui mi parlava del Lazzaretti consapevole che il mio interesse per quell’esperienza era una delle tante risposte che andavo cercando, non la risposta in assoluto; e che non ero venuto per magnificare per l’ennesima volta l’esperienza sociale a cui aveva dato vita, ma per conoscere e percepire l’istanza spirituale che lo contraddistingueva.

La tesi fu scritta, cinquecento pagine dense di note e di richiami alla storia del pensiero religioso, e mi valse il massimo della votazione. Il mio relatore, il professor Bertoni, mi propose già allora di ricavarne un libro, ma io in quegli anni ero senza terra ferma e già mi ero buttato in qualche altra avventura.

Ritornai spesso sull’Amiata, e la visita a Turpino era una necessità spirituale a cui non potevo rinunciare. Partecipai anche ad alcune celebrazioni su alla grotta ed ero felice di poter godere di quel privilegio. Senza infatuazioni, nella piena serenità di quella comunione spirituale. “Vedi, Gianni, ognuno deve seguire la sua strada, secondo i propri mezzi. L’importante è giungere a una conclusione comune, la pace e la giustizia sulla Terra. Noi ci arriviamo con le parole del santo David, tu magari ci arrivi con la filosofia”[28].

Ecco ciò che ho percepito sempre in quegli incontri e che mi pare essere un elemento costante negli epigoni del Lazzarettismo: difesa della tradizione, della propria voce storicizzata, e comprensione del principio universale unificante al quale ognuno perviene per la sua strada, nel pieno rispetto delle altre. Come dire il meglio della tradizione contadina delle nostre campagne che, prima dell’omologazione consumistica dell’ultimo trentennio del secolo scorso, era costituita da una miriade di culture locali, radicate e attive, capaci di accogliere la diversità ogniqualvolta essa si presentasse come interlocutrice e non come prevaricatrice[29].

Ne deriva un modello di coesistenza pacifica e solidale che, purtroppo, pare oggi essere minoritario nell’Italia contemporanea in cui molti scambiano l’identità con l’avversione nei confronti del diverso, forse proprio perché si rendono conto, più o meno consciamente, di averla ormai perduta in modo irrimediabile per cause che non sono imputabili a nessun altro se non a loro stessi. Gioverebbe loro la lezione di Leopold Senghor, grande poeta e uomo politico africano, premio Nobel per la letteratura, il quale sosteneva che “quanto più uno è radicato consapevolmente nella sua storia tanto più è aperto verso quella degli altri”[30].

Tradizione locale, dunque, che se vuole conoscersi meglio e sopravvivere deve assolutamente interagire con le culture di carattere universale, che, facendola uscire dall’isolamento, ne valorizzano le peculiarità. E qui emerge in tutta la sua forza l’universalità del messaggio cristiano che, proprio perché universale, travalica i limiti del confessionalismo e diventa strumento di unità spirituale, di condivisione di regole morali che prescindono dai vari credi[31].

Ecco che ritorna in ballo l’eterna lotta tra il bene e il male e la necessità di ricondurre la loro definizione – come cercava di fare Socrate nell’Eutifrone – a criteri generali di oggettività. La tendenza alla relativizzazione della società contemporanea ha “intorbidito” il concetto e una malcelata simpatia da parte del cinema e della letteratura per l’eroe negativo, l’Erostrato, ha contribuito a rendere retorica e “mielosa” la figura del “cavaliere senza macchia e senza paura”, colui che antepone l’interesse comune al proprio. Anzi, si ricorre spesso nei suoi confronti al gioco al massacro, cercando di smitizzarne la positività e di denigrarne la figura cogliendo, o addirittura costruendo, le sue eventuali debolezze. È l’autodifesa spietata e insieme disperata della società contemporanea che non tollera chi mette in discussione le sue fondamenta. È il modo migliore che hanno i malvagi per giustificare i loro comportamenti.[32]

Un esempio lampante di questa campagna denigratoria nei confronti del bene comune è ciò che sta succedendo alle Costituzioni che si vorrebbero trasformare da carte di garanzia di principi condivisi in aride norme tecniche per favorire le azioni più o meno lecite dei vari esecutivi. Il pragmatismo materialistico contrapposto ai fondamenti etici di una nazione. E allora mi ritornano in mente sia Cristo sia David Lazzaretti, quando entrambi ribadiscono che il regno di Dio, la giustizia in assoluto, non appartiene al mondo materiale, ma è un’entità spirituale. E mi illudo di poter interpretare laicamente le loro parole come se non si riferissero a due mondi ontologicamente diversi, uno terreno materiale e l’altro metafisico spirituale, ma a due diverse consapevolezze dell’esistenza umana: una distruttiva, contraddistinta dall’avere,che genera incessantemente conflitto per il bisogno di conquistare-difendere la proprietà delle cose materiali, e una costruttiva, finalistica, che trova nella necessaria e preventiva condivisione di alcuni principi dell’essere la misura salvifica della convivenza umana anche nella gestione di quelle cose.


[1] La rivista dolciniana, periodico semestrale a cura del Centro Studi Dolciniani, numero zero, dicembre 1993, Novara. Cfr. Matteo, cap.13, 33.

[2] Cfr Luca, cap. 10, 21-22; a proposito del verbo che si manifesta soprattutto nei semplici cfr. anche Origene, Contra Celsum, in cui l’autore afferma che la conoscenza di Dio è naturalmente preclusa all’uomo e gli è concessa solo nella fede, ottenuta per grazia divina; pertanto la filosofia dei dotti, senza la fede, è una conoscenza vana e inutile; la stessa cosa sostiene Pier Damiani nel De Sancta semplicitate: se la filosofia fosse stata necessaria alla salvezza degli uomini, Dio avrebbe mandato dei filosofi per convertirli, invece di mandare, come ha fatto, dei pescatori e delle persone semplici; e Agostino, nel De doctrina christiana, III, XV, 23, afferma che la ragione senza fede è desperatio verum inveniendi.

[3] Il linguaggio evangelico, concretamente ancorato alla tradizione linguistica della ruralità, ha oggi senz’altro qualche problema di comprensione da parte delle generazioni cresciute nell’epoca del consumismo, in quanto quei riferimenti allegorici a pratiche della ruralità sono ad esse completamente sconosciuti.

[4] Cfr. Tommaso d’Aquino, Somma contro i Gentili, a cura di T.S. Centi, L. III, cap. XLVIII, Utet, Torino 1975, là dove l’aquinate afferma che l’ultimo fine dell’uomo è l’ultimo fine della sua natura, ovvero dell’operazione intellettiva della sua anima spirituale e immateriale; e cfr. Platone, Fedone, 78b – 81°, trad. di Manara Valgimigli, in Platone, Opere complete, Laterza, Bari 1982, dove il filosofo fa esporre a Socrate le principali prove a sostegno dell’immortalità dell’anima.

[5] Cfr. Matteo, cap. 5, 13-14-15.

[6] Cfr. Paolo, in Corinti, cap. 1, 19, quando, riguardo alle divisioni nella chiesa di Corinto, ribadisce il verso biblico “Io farò perire la sapienza dei savi, e annienterò l’intelligenza degli intelligenti”.

[7] Cfr. Matteo, cap. 19, 24.

[8] Cfr. Bruno G., De la causa, principio et uno, libro II, a cura di Guzzo A., Mursia, Milano 1985; e cfr. Matteo,  cap. 6, 19-34.

[9] Cfr.Weber M., Economia e società, pag. 457- 458, Edizioni Comunità, Milano 1961

[10] Cfr. Agostino, op. cit., laddove afferma l’interazione necessaria tra ragione e fede: non si può sapere senza fede e quindi crede ut intelligas; ma nello stesso tempo occorre chiarire e fortificare la fede con l’intelligenza per cui anche intellige ut credas.

[11] A questo proposito si veda l’ottimo saggio di Milillo, Aurora, Il Lazzarettismo tra oralità e scrittura, contenuto negli atti del convegno “Davide Lazzaretti e il Monte Amiata. Protesta sociale e rinnovamento religioso”, Siena e Arcidosso, 11-13 maggio 1979.

[12] Per i riferimenti teorici del lavoro di ricerca con fonti orali si vedano, in particolare, l’opera monumentale Bauernwerk in Italien di Paul Scheurmeier (1943 e 1956), Passerini (1988), Bermani (1999) e Portelli (2000 e 2007).

[13] Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1972.

[14] Averroé (1126 – 1198), arabo, autore di un fondamentale commento ad Aristotele, fu l’ispiratore di un indirizzo filosofico cosiddetto “della doppia verità” per il quale esisteva una verità valida per l’ambito della fede e un’altra per quello della ragione. Tra i cristiani fu soprattutto Sigieri di Bramante (1235 ca-1282) a sostenere queste tesi all’Università di Parigi, contestato fortemente dal ministro generale dell’ordine francescano Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca. – 1274).

[15] Einstein A., Come io vedo il mondo, Newton Compton Editori, Roma 1988.

[16] A proposito della politicizzazione di istanze etiche di varia natura nel secondo dopoguerra si veda il capitolo “Una gioventù in bilico tra continuità e rottura” contenuto in  Marino G. C., Biografia del sessantotto, Bompiani, Milano 2004.

[17] È possibile prendere visione documentale di questa profonda discrasia tra il credo della Fratellanza Giurisdavidica amiatina e le idee del gruppo “romano” consultando i materiali prodotti da Elvira Giro e da Leone Graziani contenuti nel Fondo Graziani presso il Centro Studi “David Lazzaretti” di Arcidosso.

[18] Questa controversia e il suo esito di riconquistata “autonomia” da parte dei subalterni amiatini ci rimanda a un’acuta osservazione di Gramsci contenuta ne “Il Risorgimento”, Editori Riuniti, Roma 1971, laddove dice: “I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti anche quando si ribellano e insorgono (…). Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe però essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere”.

[19] Si vedano a questo proposito le acute osservazioni anticipatrici della crisi del movimento operaio  in Marcuse H., L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967 e in Carr E. H., From Napoleon to Stalin and other essays, London 1980.

[20] Cfr. Matteo, cap. 6, 25-26.

[21] Cfr. Matteo, cap. 19, 30 e cap.20, 16.

[22] Lazzaretti D., Le livres des Fleurs Céleste, Impr. Pitrait Ainé, Lyon 1876; Il libro dei Celesti Fiori, S.T.E.M., Grosseto 1950.

[23] A proposito del legame dei contadini con la terra che travalica il semplice possesso si veda Jovine F., Le terre del Sacramento, Donzelli, Roma 2012.

[24] La diatriba tra soggettivismo e oggettivismo era allora all’apice nel movimento e il testo di riferimento era Lukács G., Storia e coscienza di classe, Editori Riuniti, Roma. Ma la mia inquietudine era piuttosto di stampo spiritualistico, anche se scevra da qualsiasi forma di adesione a religioni storiche.

[25] Per quel che riguarda la storia di Lotta Continua si veda Bobbio L., Lotta Continua, Roma 1979.

[26] Dalla conclusione della Critica della ragion pratica, 1966, pp. 201-202.

[27] Si vedano, a proposito della libertà di coscienza religiosa, le parole illuminanti di Montaigne M. in Saggi, vol.II, cap. XIX, Mondadori, Milano 1986.

[28] Cfr. Kant I., Per la pace perpetua, in Scritti politici, Utet, Torino 1956, pp.292-305.

[29] Si veda, a proposito del tramonto della multiculturalità italiana, il famoso “articolo delle lucciole” di Pasolini P.P., apparso sul “Corriere della Sera” il primo febbraio 1975 con il titolo “Il vuoto del potere in Italia” e contenuto nel volume “Scritti corsari”, Milano, 1975.

[30] Senghor L. S., Oeuvre poetique, Points Editore, 2006.

[31] Ancora Einstein A., Op. cit., pag. 25: “I geni religiosi di tutti i tempi risentono di questa religiosità cosmica che non conosce né dogmi né dei concepiti secondo l’immagine dell’uomo. Non vi è perciò alcuna Chiesa che basi il suo insegnamento fondamentale sulla religione cosmica. Accade di conseguenza che è precisamente fra gli eretici di tutti i tempi che troviamo uomini penetrati di questa religiosità superiore e che furono considerati dai loro contemporanei più spesso come atei, ma sovente anche come santi”.

[32] “Il giusto verrà flagellato, torturato, messo in catene, gli si abbruceranno gli occhi e infine, dopo aver sofferto mali di ogni genere, sarà messo in croce, sì da portarlo al convincimento che quel che conta non è voler essere giusto, ma averne l’apparenza”. Platone, Repubblica, 361 E – 362 A, in Opere complete, cit., vol. VI.