L’ambientalismo contadino

L’ambientalismo come approccio ideologico-politico alla natura del pianeta Terra viene spesso ritenuto, per mancanza di un’adeguata informazione storica, una particolare branca del cosiddetto pensiero di sinistra con il quale, invece, sebbene nelle evoluzioni di entrambi sia in qualche modo avvenuto un incontro, non ha teoreticamente nulla da spartire. Esso, infatti, è il portato di una cultura elitaria arcaica che possiamo ascrivere innanzitutto alla proprietà aristocratica della terra. E, se è già presente nella civiltà della Grecia antica (in particolare con Teofrasto che critica l’’antropocentrismo aristotelico[1]), emerge  in tutta la sua evidenza nella cultura rurale romana (si pensi alle “Bucoliche”[2] e alle “Georgiche”[3] di Virgilio, ma soprattutto al “De Rerum natura”[4] di Lucrezio) e si rafforza nel Medioevo con l’approccio signorile alla natura nelle sue due istanze laica e religiosa: da un lato la nobiltà di terra che, più che occuparsi della conduzione agricola dei fondi, pensa alle cacce nei boschi e nelle macchie, suo appannaggio esclusivo; e lo fa con spirito selvaggio, istintuale, come se fosse un innatismo, il segno ancestrale di un’appartenenza e di una identificazione pressoché ontologica con il bene natura di cui gode; dall’altro i monaci, espressione della coscienza religiosa aristocratica, che intervengono sull’ambiente circostante in modo armonico, cercando di mantenere un equilibrio tra naturale e artificiale (San Benedetto[5]),  o interpretano la natura vegetale  e animale come disegno di Dio, per cui tutte le creature ci riportano a lui (San Francesco[6]). Queste due istanze evolvono poi in epoca moderna: la prima diventa il desiderio demiurgico del Principe rinascimentale di ridisegnare la natura imitandola (giardini[7]) o cambiando l’assetto stesso dei territori (sperimentazione di nuove tecniche di coltivazione nelle proprie residenze di campagna); la seconda innerva la concezione evangelico-teocratica del mondo del nuovo ordine monastico dei Gesuiti[8], che fonde insieme l’amore francescano per tutte le creature e i fenomeni naturali e lo spirito di laboriosa interazione con l’ambiente della tradizione benedettina (pensiero che caratterizza anche oggi il pontificato di papa Francesco, gesuita, espresso compiutamente nell’enciclica “Laudato si!”[9]). 

Ma lo sviluppo teorico e ideologico del concetto di conservazione ambientale è, tuttavia, opera successiva e avviene soltanto nel XIX secolo ad opera di quel ceto intellettuale borghese che, contro gli interessi sfrenati e predatori della propria classe sociale, si muove in controtendenza e prende coscienza della prospettiva di disastro ambientale che porta con sé l’esasperazione della Rivoluzione industriale. Presa di coscienza che nasce da un’analisi oggettiva della situazione, ma che per la maggior parte degli ambientalisti storici, soprattutto gli americani, ha il suo ascendente in un’idea religiosa della natura come opera divina contrapposta, in modo manicheo, all’attività diabolica dell’uomo. Del resto il retroterra culturale di questi ambientalisti è quello della tradizione più intransigente del fideismo protestante, in particolare delle varie diramazioni del calvinismo, che non si riconosce nel concetto cattolico del libero arbitrio, ma nella predestinazione, per cui l’unica possibilità di salvazione dell’uomo è quella di dedicarsi alla conservazione dell’opera di dio, anche a discapito della propria condizione umana.

È questo l’approccio alla natura di H. D. Thoreau[10], il mito degli ambientalisti contemporanei di tutto il mondo, autore di “Walden”, il diario di due anni di vita solitaria e frugale trascorsi nei boschi di Concord, Massachusetts. Thoreau, per lungo tempo, aderì al movimento trascendentalista americano, di ispirazione calvinista, fondato dal suo amico e mentore Ralph Waldo Emerson[11], per poi allontanarsene elaborando un concetto di autodeterminazione della natura con cui negava ogni realtà al di fuori dell’immanenza: la natura non era semplicemente un mezzo per comprendere il divino, ma il vero e proprio oggetto della ricerca filosofica, l’unico per il quale e nel quale valesse la pena di vivere.

Ma questa idea di purezza esclusiva della natura è un leit motiv ricorrente nella cultura ambientalista americana: verso la fine del XIX secolo John Muir[12], figlio di un pastore protestante, celebrò con accenti lirici ed estatici la valle di Yosemite come la più grande cattedrale della California per niente preoccupato della strage di nativi che era stata fatta pochi anni prima per liberare la valle dalla presenza “demoniaca” delle tribù indiane. Ma, se andiamo a rovistare tra le radici più recenti dell’ambientalismo contemporaneo, scopriamo che anche Rachel Carson[13], l’autrice di “Silent spring”, simbolo del risveglio ambientalista americano degli anni ’60 del Novecento, era la figlia di un devoto presbiteriano calvinista. Ma, a onor del vero, il suo impegno per la conservazione ambientale, portato avanti tra diffidenze e discriminazioni di carattere sessista, non fu mai di integralismo naturista, come dimostrò nella campagna contro l’uso del  DDT (“Spruzza il meno che ti sia possibile” anziché “Spruzza al limite delle tue capacità”).

Ciononostante, possiamo affermare senza timore di smentite che l’ambientalismo contemporaneo del mondo occidentale, così come lo conosciamo noi oggi, è figlio di questa cultura fondamentalista americana che si è innestata, in altri paesi del Nord opulento, su ceti borghesi intellettualmente consimili, magari con ascendenze diverse, sia religiose che atee, ma con le stesse aspirazioni; e ha trasmesso loro il suo totalitarismo fideistico e la sua adorazione incondizionata della natura, compresa l’insofferenza nei confronti della presenza umana vista come un ostacolo alla realizzazione del disegno naturale. Ceti cittadini, con una tradizionale avversione nei confronti delle campagne – non meno pesante anche quando ne hanno fatto oggetto del loro interesse di fruizione o di studio – i cui abitanti sono stati visti come retrogradi, incivili, incapaci di gestire quelle terre che conducono da generazioni, anzi, avvelenatori di quelle terre e che quindi sarebbe meglio che non ci fossero.

È questo ambientalismo che ha determinato a sua volta la profonda avversione nei confronti della parola stessa da parte di contadini e pastori dell’epoca contemporanea, che già lottano economicamente per tenere in vita le loro aziende e in più devono anche sentirsi continuamente attaccare da questi cultori della purezza ambientale da salotto che non esitano a farli passare come dei criminali. Pochi sono quelli che cercano di calarsi nei panni di chi vive della terra e soltanto di quella (altro sono i neoruralisti velleitari che giocano a fare il contadino con stipendi di mogli o mariti o prebende di ricchi genitori) e di capire come mai si è arrivati al degrado ambientale e di chi è in effetti la responsabilità. Perché l’avvelenamento della terra non l’hanno voluto i contadini: loro ne sono stati le vittime sacrificali, lasciati soli a fronteggiare il grande inganno della chimica di sintesi.

Ma se questa è la linea ambientalista che si è affermata nella società contemporanea, non è che non siano esistiti e non esistano altri approcci conservazionistici all’ambiente che siano in grado di mediare tra la natura e la presenza umana con risultanze benefiche per entrambi. Gli intransigenti ambientalisti cittadini in genere non conoscono la storia della campagna, le sue tappe evolutive, la cultura e le lotte sociali che l’hanno caratterizzata e neppure quell’attaccamento alla terra che contadini e pastori hanno sempre dimostrato prima che la sirena dell’industria e del consumo li travolgesse. Dire, dunque, come fa talora questa gente, che il degrado ambientale è iniziato con la scoperta dell’agricoltura è un’affermazione antistorica e qualunquistica che solo un cittadino economicamente soddisfatto può fare – magari dipendente dello Stato e con tanto tempo  libero a disposizione, sicuramente consumatore seriale di prodotti biologici –  oltretutto non accorgendosi di negare in questo modo se stesso e la sua esistenza che sono il frutto ultimo, questo sì avvelenato, di quella scoperta.

Si pensi innanzitutto ai nativi di ogni luogo della terra che hanno fatto del loro godere dei beni naturali una relazione di equilibrio con quei beni stessi: la loro idea di conservazione nasceva dall’esperienza e veniva tramandata con la Memoria per evitare alle generazioni successive gli errori di gestione della Terra che già erano stati fatti (si pensi, ad esempio, alla pratica del “debbio”[14]); il ricorso all’assistenza della divinità, oltre ad essere una forma di rassicurazione individuale e collettiva, era il riconoscimento del dono ricevuto e della sua simbolica restituzione attraverso le offerte rituali[15]. Ed è stato così nelle varie fasi di sviluppo dei popoli, dalle comunità arcaiche di raccoglitori e di cacciatori a quelle più evolute di pastori e di agricoltori, con l’obiettivo primario della sopravvivenza che nessun Dio poteva garantire senza che fossero maturate all’interno del gruppo le necessarie competenze.

Su questo substrato di storie ed esperienze particolari si è innestato due millenni fa l’universalismo del Cristianesimo che, per avere ragione del paganesimo animista delle campagne, ne ha dovuto accettare gli elementi rituali fortemente materializzati e farli convivere con l’intransigenza spirituale della componente gnostica del messaggio evangelico. Questa sincresi, rappresentata in particolare dal Cristo della croce, simbolo condiviso di concretezza terrena e di ascesi spirituale, è diventata la regola pastorale sia della struttura monacale che del clero secolare che, nell’opera di conversione degli abitanti del pagus[16],non hanno esitato neppure ad accogliere e ad assimilare divinità pagane omologandole al ruolo di santi ( una per tutte, Santa Brigida d’Irlanda[17]), riuscendo poi nei secoli a trasformare le campagne nella “roccaforte” della fede e della devozione cristiana e a consacrare il lavoro dei contadini, i “ricamatori” della Terra, come l’attività umana che più avvicina a Dio e alla custodia del suo creato.

Ma proviamo ad esplorare la natura di questo compromesso e ad individuare quanto le due componenti abbiano influito sull’approccio ecologico alla Terra del mondo rurale e sullo sviluppo nei fatti di un vero e proprio ambientalismo contadino.

La cultura cristiana pone, sulla base delle Scritture, l’uomo al centro del disegno divino[18], lo riconosce come signore della natura, ma gli attribuisce anche la responsabilità della sua conservazione; la cultura animistico-pagana[19] (che non ha niente a che fare con la successiva codificazione trascendente e gerarchica della nomenclatura politeista) pone l’uomo in mezzo alla natura, che è sacra, divinamente animata in ogni sua componente (si pensi alle tante “pietre nere” dei culti arcaici), rispettata, temuta e placata con opportuni sacrifici rituali.

C’è dunque una sostanziale differenza di prospettiva tra i due punti di vista: i cattolici intervengono sulla natura e la modificano convinti di conformarsi al disegno divino; gli animisti agiscono nei limiti della natura in modo compatibile ai suoi cicli. Ma la fusione di questi due approcci, antropocentrico il primo e biocentrico il secondo, riesce a garantire nelle campagne cristianizzate d’Europa per circa due millenni un sostanziale equilibrio tra uomo e ambiente. E la misura di questo atteggiamento deriva ai contadini soprattutto dal portato ancestrale dell’animismo pagano e dalla sua sacralizzazione di ogni elemento naturale.

Essa è innanzitutto una cultura botanica e questo è determinante ai fini dell’elaborazione di un’idea interconnessa della natura che, istintivamente, i primitivi avevano, anticipando di millenni l’intuizione, suffragata scientificamente, di Alexander Von Humboldt [20] sulla “rete”, sulla “forza globale” del mondo naturale che “parla all’uomo con una voce familiare al suo animo”.

Dal culto dell’albero cosmico[21], presente in quasi tutte le antiche tradizioni, albero gigantesco che s’innalzava, prima che l’uomo apparisse sulla Terra, fino al cielo costituendo l’asse dell’universo, ai vari alberi sacri presso le diverse popolazioni (il frassino Ygqdrasill in Scandinavia, la betulla in Siberia, il fico in India e nella tradizione buddhista, la quercia in Epiro, in Grecia e un po’ ovunque in Europa, ecc.) che avrebbero dato origine agli uomini e spesso avevano funzione oracolare (il bosco sacro di Dodona, quello di Nemi), gli alberi erano un microcosmo naturale a cui si attribuivano capacità divinatorie universali e di conseguenza se ne interpretavano lo stormire delle fronde, la particolare ramificazione, il fogliame, il pigmento della corteccia, il libro dove scorrevano le linfe, le radici che succhiavano nel terreno, perfettamente in sintonia con le ricerche botaniche contemporanee che ipotizzano nelle piante sentimenti e vita di relazione[22].

E così, per la comprensione dello spirito vitale che le muove, l’attenzione per le loro linfe, consacrate a Dioniso o a un Dio equivalente presso altri popoli. Un Dio poco tollerato nelle nomenclature divine istituzionalizzate, spesso cancellato dai vari Olimpo, ma ogni volta riemergente dal ventre dell’immaginazione popolare. È il Dio del fermento enzimatico, della trasformazione della materia grezza in sostanza nutritiva, così come avviene nel processo che porta la suzione radicale fino alle foglie dove si trasforma in clorofilla.

Ma è soprattutto come Dio del vino che esprime tutta la sua forza e testimonia quanto quegli enzimi nell’antichità venissero ritenuti simbolici di un’interpretazione esistenziale. Del resto il vino è la linfa per eccellenza, che fermenta quando è mosto fino a trasformarsi in vino, ma lo fa anche una volta finito questo processo primario, e continua a vivere instabilmente, sollecitato da fattori climatici e ambientali, fermentando e ribollendo. E questa sua vivacità si esprime spesso contemporaneamente ad un’altra identica nelle funzioni vitali della vite, quando essa in primavera sparge nuvole di polline fecondatore, così come fa il pino, altro albero consacrato a Dioniso.

Ma è così forte l’energia del Dio che, ci narra Pausania, ad Elis, in Grecia, riesce a riempire di buon vino tre catini vuoti posti in una sala chiusa e messa sotto sigilli. E i cittadini e gli stranieri che hanno constatato con i loro occhi il fenomeno lo testimoniano alle autorità locali sotto giuramento[23]. Ma non corrisponde forse questo fatto al  miracolo che Gesù fece a Cana, riportato dai Vangeli? E le “viti di un giorno” che in poche ore fiorivano e producevano uva matura pronta per essere pigiata? Non è forse rimasta memoria di tutto questo nei tanti noce di San Giovanni che ancora si dice mettano i fiori e li trasformino in frutti la notte della festa del santo (24 giugno)? E che dire dell’albero del maggio, rituale probabilmente di origine celtica, ma già assimilato dalla cultura religiosa romana nel rito del pino sacro legato al culto della dea Cibele? Diffuso in tutta Europa, in particolare nella tradizione tedesca (maibaum) e in quella anglosassone (maypole), resiste nel rito del Màs di Ponte Nossa, in Val Seriana: il pino viene abbattuto il 25 aprile, trasportato in paese per la presentazione pubblica, rivestito di un bendaggio come fosse un cadavere, piantato sul Pés, il Corno falò del Monte Guazza, il 1° maggio e poi bruciato il 1° giugno[24]. Un particolare non irrilevante ai fini del compromesso cristianesimo-animismo pagano: sul Pés, a fianco del pino, c’è una grande statua della Madonna. Quale miglior esempio di sincresi religiosa di questo, tenuto conto che anche il pino sacro romano veniva innalzato vicino a una statua della dea Cibele?[25] Ma basterebbe indagare quanti, tra i pochi contadini tradizionali rimasti, hanno preservato una quercia con una conformazione particolare sui loro terreni per renderci conto come quell’istinto primordiale nei confronti degli alberi sia giunto incredibilmente fino a noi.

Gli esempi di sopravvivenze cultuali animistiche sono innumerevoli nella cultura contemporanea occidentale e fino alla metà del Novecento sono state praticate attivamente nelle campagne non soltanto a livello simbolico, ma anche effettuale. Si pensi, ad esempio, all’etnomedicina[26] e alla schiera di cosiddetti “mediconi” che fino ad allora sono stati punto di riferimento costante per le popolazioni rurali. Poi, a partire dal secondo dopoguerra, lo sviluppo sfrenato dell’industrialismo e del razionalismo ha bollato tutte queste manifestazioni tradizionali di relazione con lo spirito della natura come assurde superstizioni e le ha sostituite materialmente con la “divinità” dei prodotti chimici di sintesi, definiti nella vulgata contadina le “medicine”, come se si trattasse di pozioni prodotte da uno sciamano.

È stato questo il grande inganno che ha distrutto la tradizione culturale delle campagne e spesso anche la vita dei contadini in questi ultimi sessant’anni. E insistiamo sulla vita in quanto le prime vittime del diluvio pestilenziale dei prodotti chimici in agricoltura sono stati proprio loro, i contadini. E anche se se ne sono a un certo punto accorti, non hanno più potuto tornare indietro, perché il mercato richiedeva prodotti che solo quei veleni riuscivano ormai a garantire, anche perché piante e sementi avevano subito in laboratorio variazioni genetiche che non potevano prescindere da essi.

Nessuno allora è stato in grado di metterli in guardia dalle conseguenze di questo grande inganno e i pochi che ci hanno provato sono state voci che predicavano nel deserto, perché dicevano sì cose sacrosante, ma non erano in grado di garantire concretamente gli stessi livelli qualitativi e quantitativi di produzione. E i contadini dovevano uscire dalla miseria e questo è stato il prezzo della loro emancipazione.

Il cammino del cosiddetto biologico – che poi fino ad allora era stata la normalità della produzione, quindi sarebbe meglio dire del ritorno al biologico – è stato lungo e contradditorio e nel frattempo la terra è degenerata e l’ecatombe contadina si è compiuta. Malattie un tempo sconosciute per le campagne hanno cominciato a falcidiarli e le nuove generazioni, allettate dal benessere cittadino, salario sicuro e tanto tempo libero, hanno per lo più preferito i fumi delle fabbriche e delle città alle nubi tossiche degli antiparassitari necessari per mandare avanti le colture.

Ma come se non bastasse, a partire dagli anni ’70 del Novecento, sono nati anche nel nostro paese quei movimenti ambientalisti radicali e apodittici che li hanno messi sul banco degli imputati, schiacciandoli nella morsa da una parte della loro intransigenza e dall’altra del ricatto chimico-industriale; e hanno spinto affinché anche in Italia, sull’esempio dei paesi più evoluti, in primis gli Stati Uniti, si costituissero aree a Parco Naturale in cui fosse preferibilmente bandita ogni attività umana pur tradizionale e ogni forma di presenza dell’uomo. Qualora esse preesistessero, dovevano adeguarsi a rigide norme conservazionistiche, dettate da tecnici cittadini, abituati a lavorare sulla carta, con nessuna cultura pratica della campagna. Se pertanto c’erano pastori, dovevano convivere con i ripopolamenti faunistici, in particolare quello del lupo, perché questo richiedeva il bisogno di wilderness del cittadino frustrato nelle ore “d’aria” dalla follia urbana; che poi il pastore non potesse più far pascolare liberamente le sue greggi, non era un problema che lo riguardasse, c’erano ottimi cani da gregge negli allevamenti specializzati, bastava prenderne un paio; oppure farsi dare il recinto con il filo elettrico dagli uffici tecnici dei Parchi o tenere sempre chiuse le bestie, forse era la soluzione migliore. Capite: avere un pascolo e non poterlo utilizzare, essere sul proprio podere e doversi chiudere in casa. In barba alla libertà personale e al diritto alla proprietà privata sanciti dalla Costituzione. Se invece c’erano contadini, si volevano dettare loro i tempi e le regole delle operazioni e magari pretendere che falciassero l’erba soltanto all’inizio di giugno – in qualche caso addirittura dopo il primo agosto – rinunciando a un taglio di fieno per non disturbare i lepidotteri, e lo facessero tenendo la lama della falciatrice alta sei centimetri per non intaccare, eventualmente, le larve di quegli stessi insetti. Ma si rendono conto questi signori che su quei prati quei contadini e i loro antenati hanno sfalciato a regola d’arte per secoli consentendo, grazie al loro lavoro, il perpetuarsi di queste specie?

Costoro, invece di porre in discussione il modello di sviluppo della società opulenta che distrugge e poi ti offre a risarcimento una naturalità artificiale, consapevolmente o inconsapevolmente hanno contribuito ad azzerare una storia millenaria che, finché ha potuto basarsi sui saperi tradizionali, è stata in grado di conservare pressoché intatto il patrimonio di biodiversità del nostro continente. E lo ha fatto rispettando sapientemente e religiosamente i cicli naturali e avendo ben chiaro che la rinuncia, la sobrietà dell’uso, erano spesso necessarie per continuare a godere del bene Terra. Ecco dunque il susseguirsi dei sistemi di rotazione colturale che, pur mirando a un maggior rendimento dei terreni, non perdevano mai di vista la conservazione della loro fertilità in quanto investimento per il futuro. Ecco il taglio oculato del bosco, vissuto come un’opera d’arte e sempre improntato a una sua rigenerazione fiorente. Ecco la meticolosa canalizzazione delle acque meteoriche che ha preservato per secoli dal dissesto idrogeologico le nostre colline.

È stato tutto questo l’ambientalismo contadino, e ora che è venuto meno, il nostro territorio si sta sgretolando sotto i colpi di un mutamento climatico che soltanto quei tenaci “ricamatori” della Terra sarebbero stati in grado di arginare.


[1] Teofrasto, Della pietà, Isonomia Editore, Torino 2001. Teofrasto, discepolo di Aristotele, a lui succeduto nella guida del Liceo di Atene, esprime nel trattato Della pietà un’idea di giustizia e di pietà per tutti gli esseri viventi nettamente in contrasto con quella del suo maestro.

[2] Publio Virgilio Marone, Bucoliche, BUR, Milano 1993.

[3] Publio Virgilio Marone, Georgiche, Garzanti, Milano 2009.

[4] Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, Einaudi, Torino 2003. Una visione materialistica della natura che esclude ogni intervento o finalismo divino.

[5] San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 circa – Montecassino, 21 marzo 547) è il fondatore dell’ordine monastico di San Benedetto o dei benedettini. La sua regola monastica aveva come cardine la locuzione “ora et labora” e i benedettini si distinsero nella colonizzazione dei territori e nella loro trasformazione agricola.

6 Francesco d’Assisi (Assisi, 1181 – Assisi, 3 ottobre 1226) è il fondatore dell’ordine monastico  francescano e assieme a Santa Caterina da Siena è il patrono d’Italia. Il suo rapporto con la natura (famosa la predica agli uccelli e l’incontro con il lupo di Gubbio) è magnificamente sintetizzato nel Cantico delle creature.

7 Il più antico giardino rinascimentale esistente è quello fatto costruire da Giovanni de’ Medici, figlio di Cosimo, a Villa Medici a Fiesole su indicazioni di Leon Battista Alberti che fu il primo ad occuparsi di architettura dei giardini nel De re edificatoria e poi in Villa, trattato sull’architettura delle ville di campagna.

[8] Istituto religioso maschile di diritto pontificio fondato da Ignazio di Loyola nel 1534 a Parigi.

[9] Papa Francesco, Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015

[10] Henry David Thoreau (Concord, 1817 – Concord, 1862) è stato un filosofo, scrittore e poeta statunitense.

[11] Ralph Waldo Emerson (Boston, 1893 – Concord, 1882) è stato un filosofo, scrittore, saggista e poeta statunitense, teorico e fondatore del movimento trascendentalista.

[12] John Muir (Dunbar, Scozia, 1838 – Los Angeles, 1914) è stato un ingegnere industriale, naturalista e scrittore statunitense di origine scozzese, tra i primi teorizzatori del conservazionismo naturale.

[13] Rachel Louise Carson  (Springdale, 1907 – Silver Spring, 1964) è stata una biologa e zoologa statunitense, ispiratrice e icona del movimento ambientalista americano della seconda metà del Novecento.

[14] Il “debbio” è un’antica pratica di fertilizzazione del terreno tramite l’incendio delle erbe, dei residui colturali o della vegetazione arborea che lo ricopre.

[15] Cfr. Mauss, Marcel, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002; Godbout ,Jacques (con Caillé, Alain), Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

16 Era il termine latino che, in epoca romana, indicava in linguaggio amministrativo un territorio rurale che faceva riferimento a uno specifico luogo di culto prima pagano e poi cristiano.

17 Alcuni studiosi dell’antica cultura pagana irlandese, in particolare John Sharkey, ritengono che esista un legame tra la Brigida cristiana e la dea madre Brigid della religione celtica.

[18] Vedi Siracide 17, versetti 1-2-3-4. È uno dei libri dell’Antico Testamento che i cattolici definiscono deuterocanonico, mentre i protestanti lo ritengono apocrifo

[19] L’animismo è una forma di religiosità primordiale che attribuisce un’anima a tutti gli elementi fisici naturali, siano essi fenomeni, esseri viventi, luoghi o oggetti inanimati.

[20] Alexander Von Humboldt (Berlino, 1769 – Berlino, 1859) è stato un naturalista, geografo ed esploratore tedesco. La sua opera di divulgazione scientifica “Kosmos”, in quattro volumi, voleva essere un “saggio di descrizione scientifica del mondo” con cui l’autore si proponeva di dimostrare la concatenazione armoniosa di tutte le leggi della natura.

[21] Cfr. Brosse, Jacques, Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al mito della Croce, BUR, Milano 2016

[22] Cfr. Mancuso Stefano e Viola Alessandra, Verde brillante, Giunti, Firenze 2013; Wohlleben, Peter, La vita segreta degli alberi, Macro Edizioni, Cesena 2016.

[23] Cfr. Brosse, Jacques, Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al mito della Croce, op. cit.

[24] Vedi Affanni, Giorgio, Màs. Il sacrificio della montagna, Om video e Lab 80 film, 2015

[25] Cfr. Rolle, Alessandra, Dall’Oriente a Roma. Cibele, Iside e Serapide nell’opera di Varrone, ETS, Pisa 2017.

[26] Cfr. AA.VV. Medicina e pratiche tradizionali di guarigione. Etnomedicina nell’Oltregiogo, I quaderni del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo, Pesce, Ovada 2000.

3 thoughts on “L’ambientalismo contadino

  1. ciao gianni,
    ottima lettura di questa complessa vicenda , l’ho sempre pensato anche io che i contadini sono gli indigeni colonizzati e quasi del tutto sterminati d’europa.
    Sarebbe bello che studiassi e scrivessi un approfondimento sulla neocontadinità o contadinità “resistente ” che esiste oggi nei nostri territori. Magari posso anche mandarti qualche spunto se ti interessa.
    Comunque grazie e a presto
    giovanni

Lascia un commento