L’apologo dello scrittore gentiluomo

In questi ultimi anni è esplosa la questione del “genere” come frontiera estrema della libertà individuale: i “generi” si sono moltiplicati e la prospettiva è che diventino sempre di più, soggetti duali o molteplici, temporanei e cangianti. E tutto questo è una grande conquista, rientra nel diritto naturale all’autodeterminazione dei corpi e delle menti, delle persone. Ecco, soprattutto delle persone. Perché come persone, almeno, siamo tutti uguali e se partiamo da ciò che ci accomuna immediatamente garantiamo i diritti di tutti. La nostra Costituzione lo fa con precisione e parole adeguate all’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ho riportato anche il secondo comma perché è fondamentale ai fini del mio ragionamento.

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Il compito della Repubblica è dunque quello di garantire l’effettiva uguaglianza di tutti i cittadini e di farlo con la legge, che in una repubblica democratica è una norma pacifica non violenta di mediazione del rapporto tra persone. La legge, con questo articolo 3, ci dice che le nostre diversità non possono e non devono essere un limite per nessuno. Le nostre meravigliose diversità che rendono le relazioni tra le persone più libere e intriganti.

Ma la violenza non viene fatta alle diversità, viene fatta alla persona che le rappresenta, chiunque essa sia. E tale violenza deve essere punita a norma di legge nello stesso modo per ogni nostra diversità. Perché è la violenza in assoluto che deve essere bandita, in qualsiasi forma essa si esprima. E per bandirla bisogna anche prevenirla con una costante educazione alla non violenza, che parta dalla famiglia e investa la scuola per poi divenire norma e costume in qualsiasi ambito e relazione sociale. Perché basta un gesto violento a rovinare una vita, a condizionarla per sempre, basta una violenza verbale ripetuta a sconvolgere l’equilibrio psicofisico di una persona, a renderla insicura, a farle vivere l’inferno. Insisto, una persona. Anche all’interno della dinamica tradizionale dei “generi”. È questo che ci chiede la nostra Costituzione.

Parlo della dinamica tradizionale dei “generi” perché mi trovo principalmente coinvolto in questo tipo di relazione. La relazione tra due persone che sono una maschio e l’altra femmina. Che sono naturalmente diverse, ognuna con la sua specificità, ma entrambe persone. Si tratta di un rapporto che ha vissuto, fortunatamente, grandi cambiamenti in questi ultimi cinquanta/sessant’anni e ha visto declinare inesorabilmente il tradizionale strapotere dei maschi mentre le donne prendevano consapevolezza dei loro diritti sia come persone che come donne. E se questo processo ha comportato per loro emancipazione da quella dipendenza storica, è stato invece per i maschi un vero e proprio terremoto e la maggior parte di loro non è stata in grado né di comprendere né di accettare il mutamento avvenuto. C’è dunque chi ha reagito ribellandosi, cercando di difendere con la violenza quel diritto antico sulla donna, chi l’ha somatizzato conservando sottotraccia un istinto di violenza pronto ad esplodere al primo contrattempo, chi si è adeguato perché in fondo gli andava bene così e già prima avrebbe preferito essere comandato, chi – pochi, veramente pochi – l’ha vissuto come il vero completamento del processo democratico come aveva sostenuto Teresa Mattei[1] nel suo accorato intervento all’Assemblea Costituente. Questo, però, senza rinunciare alla propria specificità e accettare di diventare a sua volta dipendente o comunque condizionato dal cosiddetto politically correct che sembra essere diventato una sorta de Il cortegiano di Baldassar Castiglione[2] della contemporaneità.

È difficile oggi per un maschio muoversi liberamente tra le macerie della relazione uomo/donna dopo la rivoluzione. E questo perché ogni atteggiamento che rientri nei termini, ormai antichi, del fare la corte a una donna rischia di essere interpretato come maschilismo. Basta una parola sussurrata, un gesto maldestro, ma innocente – non la pacca sul culo che un gentiluomo non darebbe mai – per provocare reazioni dalle conseguenze imprevedibili. Così anche per un gentiluomo è diventato difficile relazionarsi con una donna, perché i gentiluomini esistono ancora e per loro non è mai stato un problema il rapporto con le donne.

Ma chi è un gentiluomo? È innanzitutto un uomo sicuro di se stesso, del suo essere uomo nel senso storico, ontico e ontologico. Tutte cose che non hanno assolutamente niente a che fare con l’uomo macho – termine orribile e volgare coniato per definire un uomo presunto, sottolineo presunto, tutto pene e niente cervello – o con l’uomo padre padrone, sia nella versione familiare che in quella politico/sociale. Un gentiluomo vive secondo il più genuino spirito maschile che è quello di una malinconica fuga verso l’ignoto. Fuga da tutto l’avere, compresa l’idea che la donna sia un possesso, inseguendo un essere che spesso intravede, ma che non raggiunge mai. Un gentiluomo riconosce nella donna tutto quello che a lui manca, quella capacità conservativa di affrontare la vita che è l’unico argine al suo cupio dissolvi maschile. Solo in lei trova conforto, solo con lei si sente protetto, ma il suo istinto lo trascina spesso lontano senza possibilità di scampo. Come potrebbe mai un gentiluomo trattare male una donna? Come potrebbe mai farle violenza? Potrebbe solo amarla, esaltarla, o forse tradirla, deluderla, ma mai farle violenza.

Certo, un gentiluomo non può riconoscersi in una società falsa come quella contemporanea che ha imbalsamato il diritto naturale delle donne in quanto persone in norme offensive della loro dignità e maestà. Pensiamo alla viscidità della questione delle quote rosa nelle cariche pubbliche: se fossi donna mi sentirei profondamente offesa dall’essere tutelata come un animale in via di estinzione da maschietti per lo più depressi (molti tra coloro che fanno politica) che in quella presenza femminile intravedono più una possibilità per le loro inibizioni sessuali che una vera e propria occasione di confronto e di crescita con un pensiero che può essere prospetticamente diverso. Dico può essere, perché non sempre le donne che accedono a questi ruoli li interpretano con la loro specificità femminile, ma spesso si mascolinizzano in tutto e per tutto con gli stessi ormai stanchi rituali del fallimento della politica maschile. Del resto, se una donna vale veramente dal punto di vista politico e s’impone per le sue capacità oggettive, ma non rientra nei crismi – negati con autò da fé da emancipati – della visione maschile tradizionale della donna – culo, tette e viso d’angelo – viene sopportata, se non addirittura emarginata. È successo a Rosy Bindi, uno dei più lucidi e intelligenti esponenti politici italiani degli ultimi trent’anni, insultata in diretta televisiva nel suo essere donna dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi senza che nessuno, al di là di qualche generica dichiarazione di solidarietà, affrontasse la vicenda come un nodo cruciale della vita democratica italiana. Ma se tra i banchi del Parlamento si muove Maria Elena Boschi, “madre” dell’abortita riforma renziana della Costituzione, allora i sorrisi e le moine diventano bipartisan e persino le critiche a quello straccio di progetto diventano più morbide se non possibiliste. Poveri maschietti italiani privi di dignità! Un gentiluomo non potrebbe mai partecipare a questo circo…

Ma talora sono le stesse donne a ghettizzarsi, sia quando “vendono” la loro femminilità sui social con maschile cinismo – lato B, prova costume, un’impennata di visualizzazioni per una nota modella che si rivoltolava seminuda in un gigantesco piatto di spaghetti al pomodoro – sia quando alcune di loro cadono nella trappola dell’excusatio non petita maschile che pensa di riequilibrare la relazione di genere sostituendo le parole univoche maschili con dei neologismi femminili: basta con i suffissi di dipendenza – l’avvocato donna non è un’avvocatessa, ma un’avvocata,  il poeta donna non è una poetessa, ma una poeta, che però, accipicchia, è un termine maschile anomalo, di quei pochi che terminano con la – a, e quindi è lo stesso per i due “generi”, per differenziarsi bisogna farne il plurale, le poete, che per ora ci lascia un po’ perplessi… – rifondiamo il linguaggio alla luce dei “generi”, rendiamo giustizia alle donne anche sul piano linguistico…

Nel frattempo l’Istat comunica che nel 2020 le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5 per cento, con un sensibile incremento delle richieste da parte di giovanissime. Possiamo immaginare il linguaggio che sarà stato utilizzato in queste vicende, sicuramente non politically correct, ma il frutto di una cultura della violenza che continua a proliferare anche tra i maschi giovani cresciuti nell’epoca della consacrazione del rispetto formale. Maschi sempre più bambini capricciosi incapaci di reggere il confronto con una donna che, consapevolmente o inconsapevolmente, si sente libera rispetto al passato. Maschi che consumizzati fino al midollo dall’avere e dai suoi innumerevoli specchietti per le allodole non sono in grado neppure di intravedere quel cammino verso l’essere che caratterizza il gentiluomo. E l’amore fa parte di quell’essere, con tutte le sue sfaccettature che per fortuna non possono essere codificate in nessun codice di comportamento. Ma che non possono prescindere dal fatto che mettono in ballo il destino di due persone e che nei limiti della relazione tra persone devono essere vissute per essere vicendevolmente godute. Ogni aberrazione che travalica quei limiti fuoriesce dall’umanesimo di quella relazione e spalanca il baratro alla sopraffazione, alla mera bestialità. Quella su cui hanno spesso “giocato” tante espressioni della cultura contemporanea che hanno fatto del male e dell’eroe negativo l’oggetto morboso della loro rappresentazione.

“Sindbad era nato gentiluomo e scrittore in un mondo che non aveva più bisogno né di veri gentiluomini né di veri scrittori, perché non si dava l’uno senza l’altro, secondo Sindbad… Ma vi fu un tempo in cui ogni scrittore… era un vero signore… nobile e austero, come è necessario e si conviene di fronte alla lurida volontà del mondo…e a caratterizzare il signore non erano né il rango né il benessere, bensì la grandezza d’animo e la sincera disposizione con cui ci si prende carico del proprio destino e del proprio ruolo nel mondo. Ma adesso gli scrittori preferivano essere degli intrattenitori oppure darsi importanza come degli agrimensori, oppure tacevano terrorizzati, come se il carcere e la petulanza della burocrazia rappresentassero davvero un pericolo! Sindbad disprezzava la politica, e riteneva che lo scrittore, che deve educare la sua nazione ai sentimenti più nobili e alle verità supreme, debba parlare solo delle cose ultime: dell’autunno, oppure dell’onestà, oppure del destino umano, oppure delle donne, che a modo loro, a volte scostumatamente a volte con fervida purezza, custodiscono tra le braccia il senso della vita…”.[3]

È questo ciò che prova un gentiluomo di fronte all’umanesimo tradito del presente e prova una tale amarezza in fondo al cuore che ogni tanto si chiede, meravigliato, che cosa va ancora cercando tra gli uomini.

[1] Teresa Mattei, partigiana toscana, era la più giovane (solo 25 anni) delle cosiddette “madri costituenti”, le 21 donne che parteciparono ai lavori dell’Assemblea Costituente.

[2] Umanista e diplomatico italiano, ne “Il cortegiano”, la sua opera più famosa, tratta di quali siano gli atteggiamenti più consoni a un uomo di corte e a una dama di palazzo in epoca rinascimentale.

[3] Márai, Sándor, Sindbad torna a casa, Adelphi Edizioni, Milano 2011

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