Batte il mio cuore batte

Tip. Pesce, Ovada 2010

Indice

Prefazione

Non c’è vita senza amore. Quello fisico, carnale e spirituale intendo. Da un lato ce lo impone una pulsione, quella “scoperta” della pubertà che cambia radicalmente la nostra esistenza, dall’altro il senso di solitudine che ci accompagna per tutta la vita e in certi momenti ci fa persino pensare che non vada la pena di essere vissuta.

È bello fare all’amore, ma anche conveniente. È l’unico modo, infatti, per superare indenni i momenti di crisi, le angosce, i dolori più grandi. E invece spesso, proprio quando siamo in difficoltà, noi ci rinunciamo, come se fosse cosa inopportuna in quei frangenti. Perché, secondo la nostra cultura, ci vogliono delle condizioni particolari per fare all’amore, dobbiamo essere pronti fisicamente e spiritualmente. Dobbiamo preparare la scena, come in un film.

Personalmente credo che l’amore più bello, più gustoso, più necessario – sì, necessario – sia quello che si manifesta nei momenti meno dedicati, quando in genere si fa tutt’altro che amarci perché abbiamo altre preoccupazioni. Per me è lì che si capisce il senso taumaturgico dell’amore, la sua imprescindibilità: è lì che bisogna avere il coraggio di mettere da parte i ragionamenti e darsi, senza pensarci un istante. Liberiamoci una volta tanto da questa zavorra…

L’amore è salvezza materiale e spirituale, escatologica direi. Regola il nostro fisico e le sue pulsioni, ci mette di buonumore, ci fa “sopportare” il lavoro più sereni, talora anche piacevolmente languidi. Ma nello stesso tempo ci indica un fine teoretico di questa vita, quello di godere.

Spesso si considera il piacere come un bene effimero, legato alla contingenza materiale; e, gerarchicamente, lo si pospone ad altre priorità. C’è da risolvere il problema dell’avere, grande o piccolo che sia, e le nostre energie devono essere incanalate in quella direzione. Qualcuno, poi, persegue anche il potere e lo ricerca così intensamente da ridurre l’amore a una “marchetta”, e il suo percorso è livido, rancoroso, l’antipiacere per eccellenza.

No, cari amici, non si può rinunciare al piacere: esso è alla base di ogni nostra azione che avrà un risultato migliore o peggiore a seconda di quanto stiamo godendo. Perché il piacere è un continuum, un percorso di scoperta sensoriale che non si arresta mai e segue fisiologicamente il nostro declino fisico. Bisogna assecondarlo se si vuole stare bene, in ogni sua fase, senza paventarlo o cercare di correggerlo con rimedi chimici: il piacere è abbandonarsi finalmente all’idea che il coito è solo una piccola parte di quel percorso, e che la nostra sensualità è per fortuna più complessa, polimorfa, e basta talora una carezza, una mano appoggiata amorevolmente su una spalla o sulla schiena, a lasciare su di noi il segno per tutta la vita.

E poi ci sono le parole e la loro irresistibile malìa. Non c’è rapporto che possa farne a meno, magari diverse a seconda degli amanti, dolci, sferzanti, suadenti, imperiose, lascive, pudiche, ma ci sono. Parole pronunciate nell’intimità o pubblicamente, parole per manifestarsi o per ingannare. Parole che possono essere carezze amorevoli o autentiche pietre.

Ecco, la poesia si dibatte tra questi estremi e il poeta che racconta l’amore lo fa con voce incantata quando s’innamora, appagata e sensuale nel pieno della storia per poi abbandonarsi spesso a invettive anacreontiche o a languidi rimpianti quando essa finisce. Non fa dunque nient’altro di quello che fanno gli altri comuni mortali e anche lui come loro diventa di volta in volta amante, bambino, seccatore, carogna e perfino aguzzino. Con una differenza, però: lui l’amore lo deve raccontare; ha bisogno di fissarlo eternamente nelle parole, ha bisogno di scriverne per sentirsi appagato, ha bisogno di rendere la normalità eccezionale. Per darsi una speranza, per dare una speranza. La speranza di un’illusione. Amanti, diffidate dei poeti, ma sappiate che scrivere poesie d’amore è il modo più intimo di raccontare la storia del nostro piacere.

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Quel sorriso che ti sfugge
quando fingi indifferenza
è come una carezza
rubata al destino
è il lampo di una freccia
che coglie il bersaglio.
E ogni volta scoprirlo
è un grido di stupore
e ogni volta sognarlo
è un fuoco che s’accende.
Se anche un giorno
lo farai senza velo
mi resterà per sempre
il ricordo di quel segno.

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Ti chiedo una parola
che rassereni il cuore
e l’accarezzi da mattino a sera.
Ti chiedo una parola
che asciughi ogni languore
e tolga al sentimento la bufera.
Ti chiedo una parola sola,
una parola antica,
che renda morbida e leggera la mia vita.
Ti chiedo una parola ripetuta,
una parola amica,
gridata, sussurrata, anche cantata,
che echeggi nella mente e dentro il cuore
e sciolga ogni frammento di dolore.

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C’era una ragazza
con i pantaloni rossi
quella sera,
rossi come il sangue
di noi popolani.
Una ragazza esile e sottile,
tremula fiamma nel vento della notte.
Affascinato da quella macchia antica
seguivo la sua traccia sul piazzale.
C’era un ombelico
sopra i pantaloni,
un ombelico fresco di ragazza.
Ruotava come un vortice di fiume,
ci finii dentro e ci sono ancora.
Chissà se quella ragazza
indossa sempre i pantaloni rossi della sera…
Oggi è una donna e non trema nel vento
sventola la sua bandiera sul pennone più alto.

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Pensiamo a ciò che c’è
tocchiamoci, abbracciamoci,
in questi tempi crudi
ignoranti e appariscenti
la nostra imperfezione
accende di speranza
il buio della notte.
Quando ti abbraccio ti amo
come il migliore degli amanti
e mi sento amato
come il più fortunato degli innamorati.

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Se ci troviamo un baratro davanti
che non ci molla e ci tira dentro,
se ci prende la malinconia degli anni
e temiamo di non reggerli di più,
se chiediamo risposte alla vita
che è sorda e ci strapazza indifferente,
avvinghiamoci l’uno all’altro come serpi,
anneghiamoci in un mare di baci.
Prima di smarrirci forse è meglio amarci.

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Lascia che s’alzi il vento,
la brezza della sera,
che scacci lontano
la fredda tramontana.
Lascia aperta la finestra
della tua camera accesa
che possa entrare il soffio
che solo rasserena.
Lascia che i ricordi
si perdano nel tempo
e scordino una storia
svanita in un momento.
Lascia che le mie parole
sull’alito di vento
ti sussurrino l’eco
del mio desiderio.

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Nei giorni del dolore
se avessimo saputo stringerci nei corpi
se avessimo saputo sciogliere le angosce
se avessimo saputo sussurrarci parole
se avessimo saputo guardarci nell’anima
se avessimo saputo incrociare gli sguardi
al di là dell’orgoglio
se avessimo saputo…
Nei giorni del dolore
ci stringevamo soltanto al nostro dolore.