Ho visto il lago del Padü e ho pianto.

Tira un marino gelido quando io, Paolo della Fuìa (il figlio de “Il vecchio della Fuìa”), suo figlio Francesco, suo cugino e la sua donna, attraversiamo il Piota alla cascina Palazzo per salire al lago del Padü. Camminiamo in mezzo a un crocchiare di foglie, quanta “fuiacca”!, il bosco si sta spogliando rapidamente per prepararsi all’inverno. Seguiamo la strada dell’Alberghino, bella cascina che mostra ancora i segni di una presenza sapiente: c’hanno abitato per ultimi dei parmigiani, Paolo dice che erano più evoluti rispetto alla gente di questi monti e avevano organizzato i terreni razionalmente, praticando un’aratura tipo pianura, sconosciuta agli autoctoni. Quando parla, Paolo mi ricorda suo padre: misurato, parole appropriate, ma assolutamente senza reticenza; ciò che c’è da dire va detto, anche se viene a nostro svantaggio, come ammettere che quelli erano più avanti. E il tutto condito da una sottile vena di autoironia che non guasta mai per tenere i piedi per terra. Suo cugino, poi, completa il discorso, lui da Masone, dove abitava, scappava ogni anno appena finita la scuola per venire alla Fuìa. E gli è rimasto addosso il segno di quegli anni, e anche oggi non può fare a meno di venire qui a cercare… è impossibile dire che cosa, uno lo fa e basta, perché così sta bene e la sua giornata si riempie ogni volta di incanto.

Saliamo ancora fino alla cascina Padü: qui i ruderi hanno contorni nuragici, con un originale cortile chiuso da un muro a secco di rara bellezza. “Ci tagliavo il fieno in questi prati alla stagione” mi dice Paolo. Poi, rivolto a suo cugino: “Ti ricordi quando ci venivamo a giocare a pallone?”. E io me li immagino correre ansanti sul prato dietro la cascina, povere stelle che facevano del calcio davvero il gioco più bello del mondo. Eh sì, perché quando lo giochi così al Padü o in una valle sperduta del Tibet il gioco miliardario, l’oppio dei popoli contemporaneo, riprende il suo fascino di gesto virtuosamente gratuito.

“Il lago è lì ” dice Paolo segnando su verso monte. ” Potremmo seguire la vecchia strada dei Fontanassi, ma se tagliamo su dritti ci arriviamo lo stesso”. È la prima volta che io lo raggiungo da questa parte: ci sono arrivato, invece, la prima volta in assoluto da monte, più di quarant’anni fa, con mio zio, eravamo venuti per funghi, scendendo da Ciapassin; poi, in tempi più recenti, sempre risalendo il Rian de l’Âse (rio dell’Asino) guadando il Piota a valle del Palazzo. Ma quella prima volta fu per me davvero magica: abituato a vedere i laghi del Piota e del Gorzente, trovarmi di fronte quel lago tondo, a mezzacosta, come se fosse nel cratere di un vulcano, mi lasciò senza respiro. Sembrava proprio un lago delle fiabe! E poi la cornice di alberi sulle sponde, che avevano forme strane, come le masche di Punti! Ne restai affascinato, e mio zio contribuì ad alimentare la mia immaginazione raccontandomi una sorta di leggenda per cui sotto il lago c’era un passaggio segreto e qualcuno diceva di aver visto strani esseri immergervisi e non tornare più indietro…

Ci ritornai soltanto molti anni dopo al Padü, verso la fine degli anni settanta, quando cominciai a pensare che il nostro sogno di cambiare il mondo passava attraverso le nostre radici e soltanto recuperando esse avremmo costruito una società migliore. Restai deluso, perché al posto dello specchio d’acqua limpidissima che ancora rammentavo nitidamente mi trovai davanti una palude melmosa, boccheggiante, triste metafora della nostra montagna. Ma nonostante questo tornai ancora molte volte a rivederla, con la segreta speranza che un giorno… e invece ogni volta era sempre la stessa, anzi, peggiore, che ora orde di cinghiali vi si rivoltavano dentro!

“Il lago l’ha rovinato l’alluvione del ’77” mi dice Paolo. “C’è smottato dentro del materiale che ha ostruito la sorgente. Non solo: ha innalzato il livello del fondo sicché l’acqua, impetuosa, si è aperta un varco nelle sponde finendo per svuotarlo”. “Pensi che sia ancora così?” chiedo, sperando ciò che so bene che non può essere vero. “Anch’io è un po’ che non ci vengo, ma credo proprio che sarà tale e quale”. Ci stiamo avvicinando e comincio a trattenere il respiro. “È qui” dice. Guardo? Non guardo? Perché ancora una delusione… Ma… no… non è possibile… è come allora… ancora… ancora più bello! Corro avanti e indietro come un matto, inciampo, rischio di caderci dentro. Il vento spazza la superficie disegnandovi leggero delle onde. Tiro su con il naso, ora mi ha preso il magone. “U l’è turna u lagu di ’na vóta, nu m’è u credèivu” dice Paolo. “Vedi com’è la natura: basta lasciarla lavorare e lei prima o poi sistema le cose. Certo, i suoi tempi non sono più i nostri, ma sta tranquillo che, se non ci si mettiamo noi a farla tribolare, lei arriva sempre”. Non era un sortilegio, dunque, che aveva inaridito il lago del Padü, bisognava solo saper aspettare che l’acqua si riaprisse un varco, nel modo giusto, come soltanto lei sa fare. “Ne sono sparite tante fonti dopo l’alluvione del ’77, ma pian piano stanno ributtando tutte, anzi, anche più copiose”. Ma allora la siccità, l’inaridimento preannunciato della nostra montagna, che senso hanno di fronte a tutto questo? Non sarà soltanto una questione di fretta? La natura è troppo lenta per gli interessi del nostro mondo. Interessi? Quali interessi? Non certo quelli di chi vuole ancora berci a queste fonti, di chi vuole continuare a specchiarsi nei laghi del Piota e del Gorzente, nel lago del Padü. Gli interessi, se mai, di chi vive la natura come un interesse bancario, e vuole che si adegui ai suoi tempi e alle sue esigenze, altrimenti… si può sempre cambiarla, no? Non è forse l’uomo l’essere più intelligente in natura? “D’estate gli animali venivano tutti qui, era uno spettacolo. E anche d’inverno, perché nel punto in cui zampillava la sorgente l’acqua non ghiacciava e così potevano bere”. Come una Provvidenza… come la mano di un dio. Che ha pensato a tutto, nei minimi particolari. Più guardo l’acqua, più mi pare di intravedervi una luce speciale, come se irradiasse. “Mio padre mi ci portava qui a vedere la luna che si specchiava nel lago. Ci stavamo a ore, lui non sarebbe mai venuto via. Allora non è che lo capissi tanto, non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Ma ora, quando ci penso, mi rendo conto di che cosa ci cercava”. La montagna delle scarpe grosse è questa, della puzza di letame, delle castagne mangiate nella “zutta”, della magia dei segni taumaturgici e delle fiere di bestiame. Roba da villani. Villani e pagani, che in chiesa ci vanno per forza, ma vivono solo di istinti. Cercare dio? Ma che, stiamo scherzando? “Ognuno cerca il suo di dio, che non è quello delle religioni. Ma qualcosa di più profondo, senza il quale ci prende la malinconia. Come un sentimento interiore che ci fa dire sì, è questo quello che volevamo nella vita. E qui, in mezzo a questi monti, è facile sentirne il respiro”. Guardo Paolo, il modo in cui dice queste cose, e il ricordo di suo padre, del mio e di tutti coloro che sono passati su questa terra leggeri, amandola come una sposa, m’ingolfa il cuore, lo fa straripare. E allora capisco perché un uomo debba dare la vita per il bosco, per l’acqua, per la più minuscola creatura della terra, perché senza di essa si altera un’armonia che ha richiesto migliaia di anni per realizzarsi, e nessuno ha il diritto di farlo. “Bisogna tenere duro, e prima o poi capiranno. Del resto non è che abbiamo altra strada, se vogliamo continuare la nostra storia”. Grazie, Paolo. È proprio vero che non bisogna essere principi dell’Accademia o magnati dell’economia per cogliere il senso più profondo della vita. Che è lì, a portata di mano, basta avere l’umiltà di riconoscerlo. Ti sarò sempre grato, come lo sarò a tutta la gente della nostra montagna che in questi anni mi ha somministrato saggezza. Siete stati voi la mia scuola.

Scendiamo con il lago nel cuore, anche Francesco che l’ha visto per la prima volta. Non credo che lo dimenticherà tanto facilmente. E forse un giorno andrà a vederci specchiare la luna come faceva suo nonno.

INVASO SÌ, INVASO NO

Leggo sul Secolo XIX un lungo articolo sulla nuova offensiva del “Consorzio della Madonna della Rocchetta” per svuotare il lago vecchio della Lavagnina, e allora vorrei fare alcune considerazioni.

Innanzitutto è singolare che si faccia un sopralluogo sul sito, che ricade interamente nel territorio del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo, senza non dico invitare, ma almeno avvisare il Parco stesso. Si parla tanto di collaborazione tra gli enti, e io credo che essa debba cominciare dal rispetto dei ruoli che ogni ente svolge sul territorio. Parlare dell’invaso vecchio della Lavagnina senza interpellare l’ente che ha il compito istituzionale di normare l’uso e la fruizione di quella porzione di territorio mi sembra quantomeno improvvido in quanto si rischia di parlarne senza avere ben chiaro il quadro normativo vigente.

In secondo luogo mi pare che già in altre situazioni si sia ragionato su interventi all’interno del territorio del Parco delle Capanne di Marcarolo senza ascoltare chi ammoniva, per dovere istituzionale, come si dovesse tener conto delle norme del Piano dell’Area che non prevedevano quelle tipologie di intervento. E tale ammonimento non era il frutto di posizioni personali, ma semplicemente il richiamo a quanto sancito sulla carta da decisioni assunte da un Consiglio democraticamente eletto. Pertanto, al fine di evitare cocenti delusioni, era forse meglio prima confrontarsi con le norme, ben consapevoli che in democrazia non esistono figli e figliastri, ma la legge vale nello stesso modo per tutti.

Per quanto riguarda infine l’ipotesi di ripristino del vecchio bacino, al di là del sottolineare le peculiarità naturalistiche che ormai la zona ha assunto con questa morfologia (e il conseguente rilevamento di specie animali, in particolare insetti, presenti in Piemonte soltanto qui da noi), non riesco a capire perché ci si scaldi così tanto sul suo svuotamento quando si potrebbe attingere copiosamente da quello nuovo (l’azienda che lo gestisce ha ribadito ancora recentemente la sua disponibilità) che attende da anni la certificazione di idropotabilità. Oppure l’acqua non è la stessa? O c’è qualcos’altro? Una volta tanto che c’è una soluzione che mette d’accordo gli interessi antropici con quelli naturalistici perché non perseguirla? La nostra montagna è stata ed è con noi generosa d’acqua, vediamo di non esagerare.

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