L’identità contadina.

Per millenni, nelle campagne, il lavoro del contadino si è svolto con le stesse modalità e gli stessi ritmi, utilizzando gli stessi strumenti e le stesse pratiche colturali. Se, infatti, periodicamente ci sono state delle modifiche innovative, esse hanno soprattutto migliorato la resa dei terreni (si pensi alla rotazione triennale) o hanno ottimizzato la forza della trazione animale (il collare rigido per i cavalli). Ma di fatto non hanno modificato la condizione di lavoro delle masse rurali, pur contribuendo ad aumentare la produzione e quindi a garantire margini più consistenti di sopravvivenza. Lo stesso è avvenuto quando sono state introdotte nuove piante provenienti dall’Asia o dalle Americhe, che hanno diversificato le possibilità produttive e nutrizionali e hanno consentito di sfamare popolazioni che altrimenti non ce l’avrebbero fatta (ad esempio, la patata per le popolazioni dell’Europa centrale o la castagna per le nostre genti appenniniche). Ma, sostanzialmente, per secoli il lavoro del contadino non è cambiato, e lui ha continuato a rivoltare la terra con la forza delle sue braccia, assecondato in questo da una serie di animali che hanno sostenuto la fatica maggiore della sua azione: cavalli, muli, asini, buoi si sono rivelati compagni insostituibili, assolutamente determinanti ai fini della riuscita dell’impresa; perdere un animale da lavoro era la peggior disgrazia che potesse capitare a una famiglia, spesso significava doversi indebitare per poterlo sostituire, con il rischio di finire a fare il servo di qualche potente creditore. Se si dovesse fare un monumento al lavoro contadino, non si potrebbe dimenticare nessuno di questi animali.

Tutto è cambiato nel giro di pochi decenni. Ancora alle soglie del ’900 il grano si tagliava con la falce e si batteva con la verzélla così come si faceva nel Medioevo o nell’antichità romana. Poi, come un cataclisma, il trionfo delle macchine ha sconvolto le nostre campagne. È diminuito drasticamente l’impiego di manodopera, si sono introdotte macchine specifiche per ogni tipo di attività, si sono razionalizzati i poderi per poter utilizzarle al meglio, sono state sostituite le colture tradizionali con altre industrialmente più redditizie, persino il volto della cascina è cambiato con la costruzione di silos per l’immagazzinamento dei prodotti e capannoni per il ricovero delle macchine. Ma insieme a tutto questo è cambiata anche la percezione che il contadino ha di se stesso. Ancora sessanta-settanta anni fa essere contadino era la condizione sociale più diffusa, oggi è una condizione marginale sia numericamente che socialmente. Basta guardare i dati Istat relativi agli addetti all’agricoltura nel nostro paese: 5%. Se si pensa che nel 1951 erano il 42%, si ha l’esatta dimensione dell’esodo biblico determinato dalla meccanizzazione delle campagne e dal concomitante sviluppo industriale del cosiddetto “boom” economico degli anni ’60.

Parlare, dunque, oggi di identità contadina pare un’impresa ardua, fuori dal tempo, l’idealizzazione nostalgica di un mondo che non c’è più. Il contadino oggi è un isolato, politicamente ininfluente e psicologicamente depresso. Vive la sindrome dell’accerchiamento, sempre più strangolato dalle politiche urbanistiche e dalle norme burocratiche e sanitarie. Raramente è soddisfatto del suo lavoro e si ritrova a farlo per non aver avuto l’occasione, o non essere stato capace di coglierla, di un altro lavoro. Oggi i contadini (per contadini s’intendono qui esclusivamente i coltivatori diretti) che operano sui nostri territori si possono dividere in due categorie motivazionali: coloro che lo sono per tradizione familiare e coloro che, invece, hanno scelto coraggiosamente di fuggire dal caos della città e del lavoro coatto per cambiare radicalmente la loro vita. In entrambi i casi l’approccio odierno all’agricoltura e alla vita dell’agricoltore è difficile e fornisce esiti spesso molto diversi: situazioni di partenza analoghe vedono aziende prosperare e altre affondare in base a una serie di variabili che raramente sono dovute alla casualità. Variabili che, se analizzate rigorosamente, ci offrono una serie di indicazioni necessarie per sopravvivere in agricoltura, una sorta di vademecum dell’agricoltore contemporaneo.

Innanzitutto occorre premettere una considerazione di carattere etico-ideale: non si può fare l’agricoltore senza l’intima convinzione che si tratti dell’unico lavoro degno di questo nome, scevro dall’ossessione coattiva della prestazione d’opera industriale. Ciò non significa il vagheggiamento di una condizione arcadica, il quadro oleografico del benessere della vita agreste, ma piuttosto un’adesione viscerale alla terra come elemento indispensabile per il proprio equilibrio esistenziale. Terra madre e amante, mai guardata con occhio rapace, ma amorevole, proprio di chi sa come conservarla. Si tratta di una precondizione indispensabile, senza la quale nei momenti difficili non è possibile resistere alle sirene dell’abbandono. E oggi, in agricoltura, i momenti difficili sono ordinaria amministrazione.   

È chiaro che tale primitiva predisposizione risulta vana se l’agricoltore non riesce a coniugare con essa un piano economico credibile, di buon senso diremmo. Ma se uno non è in grado di farlo, vuol dire che non è un agricoltore che ha nel suo DNA millenario la parsimonia e la lungimiranza. Chi nel tempo non ha saputo comprendere che gli indirizzi produttivi di mercato sono, per la piccola azienda a conduzione familiare, un pericoloso specchietto per le allodole si ritrova oggi a fare i conti con aziende che devono “regalare” il prodotto e sperare in qualche forma di sovvenzione assistenziale. Ciò che è avvenuto sulle nostre colline è emblematico: si sono convinti i pochi agricoltori rimasti a puntare esclusivamente sulla coltura della vite e oggi l’uva e il vino vengono pagati a prezzi che non compensano neppure le spese sostenute nella conduzione del vigneto, figuriamoci il lavoro. Aver abbandonato la produzione integrata della piccola azienda agricola tradizionale è stato un errore gravissimo che sta minando le basi economiche delle aziende e le motivazioni degli agricoltori. Essere ridotti a fare “la vendemmia verde” è l’umiliazione più cocente che un vignaiolo possa ricevere. Mi ricorda tanto quando qualche anno fa si pagavano gli allevatori purché eliminassero i capi in stalla. Come si deve sentire un uomo quando gli si chiede di negare la sua storia?

Oggi, se una piccola azienda vuole sopravvivere, deve ripartire dal concetto di economia di sussistenza e trasformarlo in una multispecializzazione di nicchia. Occorre puntare su più raccolti, in modo che l’annata cattiva di uno di essi possa essere compensata dagli altri, e rendere l’offerta dell’azienda diversificata, capace di rispondere alla domanda del cliente ricercatore, quello che non si accontenta di comprare i prodotti della terra comunque, ma vuole vedere e capire da dove vengono e chi li produce, e stabilire un rapporto di fiducia reale tra produttore e consumatore. È il caso dei GAS (Gruppi di acquisto solidale) che si stanno diffondendo nelle città per sottrarsi alla logica del supermercato e della certificazione dei prodotti, che suscita sempre tanti dubbi nel paese che ha fatto dell’inganno la sua regola.

Tale modello non può tuttavia prescindere dalla condivisione esistenziale e materiale della vita contadina da parte di tutta la famiglia. Se, infatti, non si vive tutti secondo uno stile di vita contadino, è impossibile a lungo andare che l’azienda regga. Facciamo un esempio: l’alimentazione. In un’azienda con produzione integrata in pratica si produce o si alleva tutto ciò che è necessario per una sana alimentazione: grano, granoturco, uva, frutta, verdura, animali da carne e da latte. Ma perché tutti questi prodotti caratterizzino veramente il regime alimentare della famiglia, occorrono due condizioni: innanzitutto che ci sia una tradizione e quindi una capacità di trasformarli, di conservarli e di prepararli ai fini del consumo casalingo; in secondo luogo che le abitudini alimentari dei vari membri non risentano della contaminazione dei prodotti confezionati. Se comincia a cedere un anello, è come la falla in un argine che nessuno è più capace di tappare: gli insaccati cominceranno a marcire in cantina, le conserve a inacidire, i formaggi a soccombere nel confronto con il modello plastificato della grande distribuzione. In genere è una nuora cittadina o con manie cittadine a dare il via alla catastrofe, sia per diverse abitudini alimentari, sia per una sorta di rivalsa nei confronti della famiglia contadina del marito così necessariamente avvolgente.

Ma qui abbiamo toccato un aspetto cardine della sopravvivenza della piccola azienda agricola tradizionale: la presenza di animali in stalla. Senza animali è impensabile farcela, per tutta una serie di motivi. Si dice che oggi rendono poco, che non vale la pena dannarsi tanto per dei margini così ristretti. E può anche essere vero sul piano del calcolo economico puro, ma non lo è su quello della gestione integrata di un’azienda, dove ogni “poco” concorre a determinare il reddito complessivo. Se poi si prendono in considerazione gli aspetti collaterali dell’allevamento di bestiame, si capisce che un’azienda non può farne a meno. Si pensi al letame, alla sua importanza nell’ingrassatura dei terreni, ma anche alla sua necessaria preparazione. Non tutto il letame è uguale, ma va curato se si vuole che renda nel terreno. Non deve essere né troppo fresco di stalla né troppo maturo e soltanto se uno se lo fa può tenerlo sotto controllo.

Ma tenere degli animali è un impegno costante, perché devono essere accuditi sette giorni su sette con una quota fissa di lavoro quotidiano che non si può procrastinare. Non esiste feria o festa comandata, a una tal ora bisogna esserci. Ma del resto è questa la condizione del coltivatore-allevatore diretto: lavorare sempre, e farlo nella sua duplice accezione quantitativa e qualitativa. Chi non è in grado di accettare questa regola non faccia l’agricoltore. Cercare di far rientrare il lavoro dell’agricoltore nella scansione temporale dei lavori di tipo industriale è pura demagogia. Per lui ogni momento è buono per lavorare: quando non ci sono le colture o gli animali da accudire, ci sono le strade da sistemare, i fossi da pulire, le macchine da controllare, persino dei tetti da rabberciare. L’agricoltore deve arrangiarsi a fare un po’ di tutto se vuole far quadrare il bilancio.

Questo impegno totale, visto con l’ottica del lavoro emancipato e sindacalizzato di un addetto dell’industria o dei servizi, risulta intollerabile, senza un attimo di tregua. Ma se uno invece è agricoltore e si cala pienamente nel contesto della sua attività, quell’essere continuamente impegnato diventa uno stile di vita irrinunciabile in cui il lavoro ha in sé la libertà, la festa, la feria. Che cosa c’è infatti di più appagante che vedere le proprie sementi o le proprie piante crescere rigogliose, toccarle, accarezzarle, parlarci anche, e seguirne giorno per giorno i mutamenti con il cuore in gola per la sottile ansia del prodotto finale? È come partecipare ogni anno alla creazione di una gigantesca opera d’arte che necessita di fatica, di pensiero, di fantasia. Ed è qui che si marca la differenza tra gli agricoltori: chi si sente prigioniero di questo universo onnipervasivo è bene che smetta, che lasci la terra, perché non ne ha capito il senso profondo. Se per lui la terra è solo un obiettivo economico, ha già decretato l’esito fallimentare della sua impresa. Chi vive sulla terra, chi ne percepisce l’odore e il fascino sottile delle forme, non può ragionare soltanto in termini di obiettivo, non ci riuscirebbe. Ci sono cose che appartengono al senso e soltanto con una sua percezione costante si riesce a farle, si deve farle. Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che nella vita di campagna spesso si fanno dei lavori che non rendono niente secondo un punto di vista esclusivamente economico, eppure vanno fatti, perché senza di essi si perderebbe il senso dell’insieme, della ragione per cui si lavora la terra. Che va al di là dell’economia, è l’espressione di un rapporto viscerale che ha radici millenarie, a metà strada tra il ciclo biologico e il rito magico, qualcosa che la civiltà della macchina ha tentato inutilmente di sostituire. Anzi, ha prodotto generazioni di trattoristi più orgogliosi dei loro trattori che dei loro poderi, allontanandoli sempre di più dalla terra sia fisicamente (non scendono mai dai trattori) che psicologicamente (sono più interessati alla prestazione del mezzo meccanico che alla bontà colturale del lavoro svolto e non spendono un minuto di più sulla terra come l’operaio in fabbrica). 

Un esempio di lavoro che mantiene un legame ancestrale con l’identità secolare contadina è l’uso dei legacci di salice (sciôrxi) nella coltura della vite. Al di là del fatto che la loro naturale elasticità consente di fare un lavoro di legatura migliore di quello che si ottiene con qualsiasi altro legaccio artificiale, chi è che potrebbe sostenerne la compatibilità economica? Tra il tempo di potare il salice (a gòbba), facendo un lavoro di fino che predisponga la pianta per la produzione dell’anno successivo (se ne vedono certe che sono dei capolavori, con i rami intrecciati come i capelli di un rasta), di mettere i rami a bagno per ammorbidirli e poi di spaccarli a metà per utilizzarli (un lavoro che una volta si faceva a veglia la sera: il salice si spacca a metà con i denti e poi si sfila come se ci fosse una cerniera), il costo di tutta l’operazione sarebbe così alto che nessuno avrebbe convenienza a farlo. Eppure, continuare a usare il salice, oltre a una legatura migliore, assicura il perpetuarsi di una tradizione di coltura organica anche negli strumenti, all’interno di una filiera cortissima, addirittura intrapoderale.

Ma la stessa cosa si può dire per la piegatura delle viti (gimbò i vîghe), cioè l’abbassamento dei tralci quando, nel pieno dell’estate, “buttano” rigogliosi in altezza. Farlo manualmente, secondo tradizione, vuol dire accompagnarli e sistemarli tra i fili morbidamente, senza traumi, cercando nel contempo di scoprire i grappoli che necessitano ormai di sole (sc-fuiacò). Passare invece tra le viti con il trattore e recidere le punte con una lama vuol dire ferire atrocemente la pianta e comprometterne la qualità della produzione. Certo che in questo modo si risparmia un sacco di tempo, si fa economia, ma la vigna soffre biologicamente e sentimentalmente (a questo proposito mi viene in mente un telefilm di Hitchcock, che la Rai trasmise molti anni fa, che raccontava la storia di uno strano inventore che aveva costruito una macchina che decodificava la voce delle piante: applicata a una pianta su cui veniva piantato un chiodo, si udivano delle urla lancinanti da far rabbrividire). L’agricoltore perde inoltre il rapporto tattile con la pianta e non riesce a coglierne le effettive esigenze che soltanto un contatto fisico ravvicinato può assicurare. Ad esempio, il trattamento anticrittogamico dovrebbe essere conseguente a un’analisi costante della superficie delle foglie o delle punte dei tralci fatta in proprio dall’agricoltore e non dipendere dalla sirena burocratica (una volta suonava il “campanone”) dell’ufficio istituzionale preposto.

Il contadino è, dunque, anche oggi un lavoratore a tempo pieno, ben lontano dall’immagine retorico-televisiva che la società dei consumi cerca di accreditare. Niente a che fare con i vari Mulini bianchi o mucche padane in cui lo si ritrae come un personaggio da avanspettacolo. E se è vero che il mondo dell’agricoltura oggi pullula di presunti agricoltori più assidui alle presentazioni dei loro prodotti che al lavoro in azienda, è anche vero che non si capisce come facciano a produrli e nasce il sospetto che di quei prodotti loro non siano affatto gli artefici.

L’agricoltore è indissolubile dalla sua terra ed è se stesso tra i muri della sua casa, stalla o cantina che sia. È lì che deve vendere i suoi prodotti, confortato dalla realtà che lo circonda, che non è fatta di parole, ma di cose concrete, frutto del suo lavoro quotidiano. È l’azienda che conferma il suo valore e fa capire a chi lo contatta la bontà del suo prodotto. A costui non interessano le etichette ideate dal designer o la linea di bottiglie esclusive, va sulla fiducia. E la fiducia nasce dalla comprensione del lavoro e dell’uomo che si trova davanti.

C’è stato un lungo periodo in cui quest’uomo, questo contadino sopravvissuto al delirio della civiltà industriale, è stato considerato un paria, un reietto, un uomo non degno di farsi una famiglia. Le donne non lo volevano, era troppo grossolano e poi non offriva altro che una vita di solo lavoro. In uno dei nostri paesi si ricorse addirittura a una celebre trasmissione televisiva per lanciare un appello a favore dei molti contadini scapoli che nessuna donna del territorio voleva sposare. E avevano ragione, sposare un contadino era roba da matti. È roba da matti. Perché ancora oggi, quando una coppia, magari con dei figli, fa la scelta di lavorare la terra, la gente scuote la testa in segno di disapprovazione.

Eppure, se in quella famiglia c’è la percezione del rapporto ancestrale con la terra, se quell’uomo e quella donna non possono stare senza vedersi tra i filari e sentire le stagioni sulla pelle e sfiorarsi ogni tanto mentre lavorano insieme, allora avviene il miracolo: la famiglia è ancora famiglia, e marito e moglie o compagno e compagna diventano davvero indispensabili l’uno per l’altro al di là dell’effimero dell’attrazione carnale; i figli si sentono di nuovo figli, il frutto di un’unione sacrale non per comandamento, ma per natura. Ecco allora che il legame si sostanzia con la terra e nessuno ha più tempo per l’inganno, per l’insoddisfazione che viene dalla noia, da una vita fatta di apparenze. Lontano dal mondo della parola abusata, gridata, scagliata, qui bastano poche occhiate, cenni, monosillabi, perché gesti e pratiche parlano da soli. È un ritorno alla radice primitiva della vita sociale, ai patti siglati con una stretta di mano che nessun ripensamento potrà mai vanificare. È il mondo della certezza, dell’unicità del senso, che riprende vigore contro le spire della menzogna. È il desiderio pienamente realizzato, inverato giorno dopo giorno dalle cose che si fanno.

Non lo so se sarà ancora possibile rifondare una società contadina nel vero senso della parola, cioè un mondo che ritrovi nella terra il suo centro di gravità, oppure se l’agricoltura resterà il destino di pochi tenaci precari che non vogliono arrendersi all’evidenza. Non so nemmeno, anche se lo temo, se certe politiche scellerate finiranno per scoraggiare anche quei pochi tenaci e rendere le nostre campagne oggetto delle speculazioni più disparate (penso ai “campi” di pannelli fotovoltaici) che niente hanno a che fare con l’agricoltura. Di una cosa però sono certo: senza un’adesione totale alla terra, senza un amore che te la faccia guardare incantato e girare proda per proda come per palparla, senza conoscere zolla per zolla il proprio podere e avere un nome per ogni suo anfratto ( nella mia vigna  c’erano i valèttu, a piann-a, suvra a sc-trò, sutta a sc-trò, dai buji, dai pussu, ’ntéi briccu, dai casc-tagné, dai cascinóttu, da a ciréxa, ’ntéi quòddru) non è possibile fare il contadino né sperare che la campagna ritorni a essere campagna e non una miniera a cielo aperto di un qualsiasi materiale. E allora mi ritornano alla mente le parole di mio padre quando, dopo l’alluvione del ’77 che aveva fatto franare i valèttu (nello squarcio “buttava” una “vivagna” che aveva un “ruggio” grosso come una bottiglia), guardando la vigna appena risistemata (c’avevamo lavorato due mesi a sotterrare pugòsse per riempire il vuoto), ancora stravolto dalla fatica, disse: “Che bel scîtu!”, proprio così, con la “i” lunga, infinita, come se pronunciasse un verso d’amore. E mentre lo diceva deglutiva, e piangeva, e anch’io piangevo, ma non ci siamo detti nulla, perché così fanno i contadini, piangono in silenzio sia le loro disgrazie che le loro fortune.   

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