La solitudine del paesano.

È finita, il paese che abbiamo vissuto non esiste più. Svanito nel giro di cinquant’anni: deserta la campagna, stravolto il paesaggio, mutata l’urbanistica e sparita la comunità. Irriconoscibile, da stropicciarsi gli occhi e chiedersi se è ancora lui. Ma sappiamo bene che non lo è più, lo sappiamo talmente bene che non riusciamo a scrollarci di dosso il disagio che proviamo, la malinconia che ci travolge. E non ci consola affatto sentir dire che è sempre stato così, che il tempo passa e le cose cambiano. Perché non è vero: il paese per secoli è cambiato, ma restando sempre se stesso, un paese contadino. Oggi è qualcos’altro, sicuramente non più un paese contadino perché, è un dato di fatto, la sua campagna è in pressoché totale abbandono. Ecco ciò che ha fatto la differenza: il paese ha cominciato a mutare e a morire quando la gente ha lasciato la terra.

Erano gli anni del boom economico, dell’industrialismo sfrenato, degli inizi del consumismo, dell’emancipazione sociale degli uomini e, soprattutto, delle donne che non volevano più essere subalterne. Gli anni del tempo libero, delle cucine componibili, dei servizi in casa, dell’acqua corrente calda e fredda. Come si faceva a restare in campagna? È stato un esodo impetuoso, la piena di un fiume che ha travolto una cultura millenaria che aveva resistito a guerre e invasioni e ogni volta si era ripresa. Stavolta no, stavolta non ce l’ha fatta. Non poteva farcela, il virus l’aveva minata alla base. L’illusione del benessere e il consumismo incombente l’avevano delegittimata. Fare il contadino era diventato un arcaico disonore, sia per i piccoli proprietari che per i mezzadri. Spartire con il padrone, su una terra non propria, come si poteva sopportare? Là, nelle città, li aspettava l’Eldorado. Fatto di posti fissi, di orari ridotti, di sabati e domeniche liberi. Altro che l’impegno costante di una vita contadina!

Chi non ha vissuto almeno gli ultimi scampoli della civiltà rurale che per millenni ha scandito le abitudini e i costumi dei nostri paesi non può capire che cosa ha voluto dire crescere in quell’ambiente. Si nasceva in sobrietà, ancora in casa, e la sobrietà era la cifra della nostra educazione, fatta di doveri tacitamente appresi e di sofferte privazioni che ti formavano più di un collegio di elite. Era l’etica del sacrificio, quello necessario per mandare avanti la baracca senza fare brutte figure, con dignità.

Un mondo che si basava più su un diritto orale e presto sottointeso che sulle leggi di un governo sempre troppo lontano. E fin da bambini s’imparava ad accontentarsi, ad arrangiarsi con quello che si aveva, a giocare – per fortuna questo abbiamo potuto farlo tanto – con pietre, bastoni e rottami che la nostra fantasia trasformava nei giocattoli più svariati. Eravamo i designer e i registi dei nostri giochi, non era possibile non avere fantasia. Ma per farlo dovevamo fare sempre i conti con le poche risorse materiali.

Allora, tranne due o tre famiglie, eravamo tutti poveri (“Tutti eguali!”, come lo slogan di Babeuf![1]) e non c’era nessuna competizione tra di noi per il possesso di status symbol o di vestiti firmati. In verità ne avevamo di marchiati, ma dai rammendi delle nostre mamme e delle nostre nonne, che erano autentici ricami e recuperavano all’uso vestiti e calzini che altrimenti sarebbero stati a brandelli. E allora lo ripetiamo: solo chi ha vissuto queste cose è in grado di capire il valore effimero delle cose materiali e come si possa essere più liberi e creativi con niente che con tutto a disposizione. Mangiavamo, sì, – ormai era passato il tempo delle polente che avevano fatto venire la pellagra a tanti nostri antenati – anche con una certa abbondanza, ma della nostra immagine non c’importava nulla, anzi, spesso ci si scherzava anche su. Bastava che uno sfoggiasse un capo di abbigliamento un po’ fuori della norma, perché diventasse preda del motteggio e del sarcasmo paesano.

Poi, quando hanno cominciato a perdersi i pezzi, quando la città ha cominciato a divorare la campagna, è venuta meno in pochi anni quella multiculturalità di atteggiamenti e personaggi che contraddistinguevano la comunità paesana. Ed è stato come se si zittissero uno dopo l’altro gli strumenti di un’orchestra diminuendone l’intensità e la varietà dell’esecuzione. E alla fine sono rimasti solo pochi solisti, e magari nemmeno dei migliori, e così la sinfonia di paese è diventata una melodia zoppicante che si avvia a spegnersi per sempre.

È questo l’amaro destino del paesano sopravvissuto: la solitudine là dove condividere lavoro e tempo libero era stato per secoli il sale della sua vita. Povera, ma ricca di scambi e di parole. Una vita che ti faceva stare insieme.

Nelle pagine che seguono cercheremo di analizzare come tutto questo è potuto accadere e se esiste ancora un destino possibile per la paesanità.


[1] François-Noël Babeuf, detto anche Gracchus Babeuf  (1760 – 1797), è stato un rivoluzionario francese del 1789. Viene ricordato per la cosiddetta Congiura degli eguali, messa in atto da lui e da altri rivoluzionari, tra cui l’italiano Filippo Buonarroti, per rovesciare il regime del Direttorio termidoriano. Arrestato assieme a tutto il comitato insurrezionale, dopo un contestato processo, fu ghigliottinato il 28 maggio 1797.    

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