Perché la guerra?

“C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuta una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa”. È questa la prima domanda che Einstein pone a Freud in una lettera che gli scrisse il 30 luglio 1932 da Potsdam. Gli scrisse in seguito a una proposta fattagli dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di invitare una persona di suo gradimento a uno scambio di opinioni su un problema contingente da lui scelto e lui, che già la sentiva nell’aria, chiese al padre della psicoanalisi il perché della guerra. Infatti la situazione in Germania stava precipitando: nelle elezioni del presidente della repubblica svoltesi in aprile Von Hindenburg, conservatore nazionalista ma sostenuto anche dai democratici e dai socialdemocratici per arginare l’avanzata nazista, aveva prevalso al ballottaggio su Hitler che tuttavia aveva ottenuto il 36,7 % dei voti. Percentuale che l’NSDAP incrementò ulteriormente nelle successive elezioni parlamentari del 31 luglio giungendo al 37,8%  e risultando il primo partito nel parlamento tedesco. Einstein scrive la sua lettera alla vigilia delle elezioni, ben consapevole che la vertiginosa ascesa del nazismo porterà inesorabilmente alla guerra.

Albert Einstein

Cosa risponde Freud? Dopo aver fatto un excursus sull’origine della guerra e sul conflitto permanente in epoca moderna tra diritto e violenza dice: “Per quanto riguarda la nostra epoca… una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione – i singoli Stati – gliela concedono”. Quello che fu allora il fallimento della Società delle Nazioni è uno dei capitoli più tragici della storia dell’umanità: la seconda guerra mondiale, che fece più di 50 milioni di vittime, 6 milioni delle quali frutto di un piano ben preciso di genocidio del popolo ebraico nei campi di sterminio nazisti.

Sigmund Freud

La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata e proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale dell’ONU, ha segnato un discrimine con quell’immane tragedia sancendo nell’articolo 2 che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità”.

Bandiera delle Nazioni Unite (ONU)

Tutto bene, dunque? Le numerose guerre cosiddette “regionali” scoppiate nel dopoguerra un po’ dappertutto nel mondo, alcune addirittura con caratteristiche endemiche, sembrano smentire la volontà giuridica e morale dell’Assemblea e spesso nel corso di alcune di esse si è rischiato un nuovo conflitto di proporzioni mondiali, con la spada di Damocle della guerra nucleare sospesa sul destino dei popoli, ovvero, come disse qualcuno, dell’ultima guerra combattuta con le armi, perché dopo di essa chi eventualmente fosse sopravvissuto avrebbe dovuto rifarlo con la clava.

La guerra in corso tra Russia e Ucraina potrebbe essere il detonatore di tutto questo.

Proverò a ragionare sulla guerra tra Russia e Ucraina, ma non entrando nel merito specifico di quel conflitto, l’hanno già fatto anche troppi analisti parteggiando da stadio per l’una o per l’altra parte, con atteggiamenti di intolleranza degli uni nei confronti degli altri a cui forse non eravamo più abituati e che personalmente non mi appartengono. Ne ragionerò, invece, partendo da quell’assunto della risposta di Freud a Einstein laddove lui dice “la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione – i singoli Stati – gliela concedono”. E questo per sottolineare che la Società delle Nazioni non ce l’aveva allora una forza propria, ma non ce l’ha neppure adesso in quanto Onu, perché i suoi “caschi blu” sono una forza di interposizione multinazionale, limitata nel numero e nelle possibilità di azione, e non possono intervenire senza il consenso dei paesi dove vengono impiegati. Se poi si tratta di azioni condotte da truppe irregolari, il loro insuccesso è clamoroso e inevitabile, la storia dell’assedio di Sarajevo lo dimostra ampiamente.

Ma se l’Onu è pressoché impotente, bloccato com’è nella stretta del suo Consiglio di Sicurezza (basta il veto di uno dei “grandi” per impedirne l’azione), la novità del secondo dopoguerra – che all’inizio era il sogno di pochi idealisti, ma a poco a poco ha fatto breccia anche nei realisti –  è stata la costituzione in Europa di un’associazione tra Stati, che è iniziata nel 1952 come CECA (Comunità economica del carbone e dell’acciaio, di cui facevano parte Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi), è divenuta poi CEE (Comunità Economica Europea) nel 1957 con il trattato di Roma e infine, dopo l’adesione di altri paesi e una serie di trattati modificativi, è diventata Unione Europea con il trattato di Maastricht del 1992 assumendo l’assetto organizzativo attuale con il trattato di Lisbona del 2007. A tutt’oggi gli Stati membri sono 27 e altri sono in lista di attesa da alcuni anni. Apparentemente si potrebbe dire che il sogno di quel gruppo esiguo di europeisti convinti che si batterono per questo obiettivo, tra cui il nostro Altiero Spinelli[1], si sia realizzato, ma nei fatti tutti conoscono le difficoltà di un’unione ibrida condizionata ancora dai nazionalismi. L’Unione è infatti un raggruppamento sovranazionale solidale a livello economico e sociale, ma non a livello politico, in quanto non ha ancora raggiunto lo status di unione politica federale con un governo comune che gestisca unitariamente la politica estera e i problemi della sicurezza e della difesa.

Cosa potevano dunque fare l’Onu e l’Unione Europea, prive di quella “forza propria” che avrebbero dovuto concedere loro gli Stati membri, di fronte alla crisi russo-ucraina? Quello che hanno fatto, cioè nulla. L’Onu ha emesso una delle sue tante risoluzioni che rimangono per lo più sulla carta e l’Ue si è mossa in modo sparuto e in ordine sparso, dialogando timidamente sia con l’uno che con l’altro contendente, ma non è stata in grado di fare una proposta forte per la soluzione del conflitto. Del resto che autorevolezza può avere un presidente di turno dell’Unione – in carica sei mesi, come da convenzione – per andare a Mosca e trattare alla pari con Vladimir Putin? Nessuna che rappresenti veramente la volontà dei 27 Stati membri e delle loro popolazioni. E fino a quando la UE non diventerà a tutti gli effetti non un organismo sovranazionale, ma uno stato federale, ciò che preconizzava Freud nella sua risposta a Einstein riguardo alla Società delle Nazioni, cioè di disporre di una forza propria che i singoli Stati avrebbero dovuto concederle, non si realizzerà.

Ma, se da un lato ci sono i persistenti nazionalismi a minare la forza fisica e morale della UE, d’altro canto l’Europa continua a vivere un equivoco che si porta dietro dal secondo dopoguerra: la Nato. La sua organizzazione militare, basata sulla cooperazione tra gli Usa e i paesi dell’Europa occidentale che nel secondo dopoguerra, in base agli accordi di Yalta, entrarono a far parte della sfera di influenza americana, era indirizzata a garantire una possibilità di difesa nei confronti di eventuali attacchi da parte dell’Unione Sovietica che, sconfitto il nazismo, nonostante vi avesse contribuito la sua parte, veniva considerata dagli ex alleati di guerra il nuovo regno del male, fondato su presupposti politici e sociali antitetici alle democrazie occidentali.

Non so se lo fosse veramente, i criteri di giudizio possono essere tanti e i più disparati. Ciò che conta nella mia analisi è che nel 1991 l’Unione Sovietica si è dissolta come neve al sole e la Russia è diventata traumaticamente un paese capitalista, con differenze sociali da prima rivoluzione industriale che hanno prodotto quelli che oggi vengono chiamati oligarchi (non si capisce perché, sono semplicemente dei capitalisti che hanno approfittato della situazione di sbando del nuovo Stato sfruttando per fare le loro fortune connivenze politiche esattamente come, in modi forse più urbani (democratici!), hanno fatto i capitalisti nel mondo occidentale) e una massa, soprattutto agli inizi, di indigenti ai limiti della sopravvivenza. Oligarchi che hanno cominciato a fare affari in tutto il mondo, ben accetti quando i loro immensi patrimoni hanno consentito di dare fiato a settori economici asfittici (si pensi, ad esempio, alla cantieristica navale, con quegli yacht da milioni di euro oggi sequestrati per le sanzioni) o ad alimentare la passione beota per il calcio dei super ingaggi (il Chelsea, ad esempio).

Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste (URSS)

Se dunque l’Unione Sovietica, terrore dell’Occidente e soprattutto dei paesi che ne erano stati satelliti, non esisteva più e, anzi, era diventato uno Stato liberista e democratico aperto agli investimenti stranieri, qual era la ragione per tenere in piedi un’alleanza militare come la Nato nata proprio per contrastare la Russia a causa del suo regime comunista e del suo sostegno a regimi analoghi sorti nel mondo? È vero, continuava ad essere una potenza nucleare, anzi, la più forte sotto questo aspetto, ma ormai professava la dottrina del soldo al primo posto così come tutti gli altri. Ed era sì una democrazia ancora giovane e traballante, con persistenti violazioni da parte di chi gestiva il potere, ma c’erano elezioni regolari – qualcuno dice con brogli palesi – ma quante volte è risuonato questo adagio anche nelle democrazie mature dell’Occidente? Del resto la democrazia non si può esportare, lo dimostrano i tragici fallimenti di chi, dietro l’esportazione della democrazia, nascondeva l’obiettivo di accaparrarsi il controllo delle principali risorse energetiche del pianeta. La questione politica interna alla Russia, dunque, riguarda soltanto i russi che hanno come popolo la capacità e la cultura di modificarla autonomamente così come hanno già fatto con il passato regime comunista. Nessuno pretenda di insegnare ai vari popoli come devono muoversi per ottenere libertà e democrazia.

Cartina tratta da www.limesonline.com

La guerra russo-ucraina – al di là del contenzioso specifico di confini e di etnie tra i due stati – nasce da questi nodi a cui ho accennato: l’assenza di una UE stato federale a tutti gli effetti con la forza e l’autorità che ciò le conferirebbe; la persistenza di un’alleanza militare rivolta sempre contro un antico nemico che oggi per ordinamento statuale e per filosofia politico-sociale non è più tale. E a farne le spese è il popolo ucraino che per bocca del suo presidente continua a rivendicare il diritto di fare scelte autonome, da Stato libero e democratico, ma che, con il procedere del conflitto, si rende sempre più conto che la cosiddetta real politik decide in base alle sue convenienze. E allora sì agli aiuti con armi (qualcuno dice obsolete) che di fatto alimentano ancor di più lo scontro, ma no alla discesa in campo diretta che farebbe balenare lo spettro di una nuova guerra mondiale che, come affermano gli stessi interlocutori, non potrebbe che essere nucleare.

Ma se il conflitto russo-ucraino è lo specchio del fallimento del ruolo di pacieri che dovrebbero svolgere gli organismi internazionali e i paesi che sulla democrazia e sulla pace basano i loro ordinamenti, lo è anche del movimento per la pace a livello internazionale che, come al solito, risorge nei momenti dell’emergenza come l’araba fenice dalle ceneri, ma non va al di là di un ruolo mediocre di testimonianza. Ed è questa l’assenza più importante e per me determinante, perché le guerre gli Stati in qualche modo con il loro competere economico e finanziario contribuiscono a suscitarle ( aveva ragione Lenin quando diceva che sono dovute allo scontro tra i vari capitalismi imperialistici?[2]) e ne traggono benefici sia se le vincono sia paradossalmente anche se le perdono    (si pensi al business della ricostruzione), ma i popoli non ne hanno mai benefici, che vivano in nazioni vincitrici oppure in altre sconfitte (è la Storia a dimostrarcelo e Brecht a ricordarcelo[3]), per cui il loro interesse umano è quello di impedirle con il dissenso forte e organizzato.

E se è vero che anche quando l’opinione pubblica fortemente contraria alla guerra è schiacciante maggioranza la propaganda dei regimi riesce a vanificarne la volontà (si pensi all’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale), oggi la possibilità di informarsi e di comunicare consentirebbe di mettere in piedi una rete internazionale pacifista in grado di svolgere un ruolo non solo teorico, ma soprattutto pratico di interposizione nei focolai di conflitto. Un’organizzazione, dunque, pronta a mobilitarsi sia per le grandi questioni a livello planetario che per quelle a livello regionale, un  vero e proprio esercito di pacifisti non violenti disposti a intervenire anche sul campo come barriera umana disarmata di fronte alla violenza.

Sembra un’utopia e in effetti lo è se gli uomini, nonostante dicano di agognare la pace, continuano ad aggrapparsi alla forza bruta per far valere le loro ragioni. Ma io non credo che questo sia un destino ineluttabile per l’uomo che, come sostengono molti, ha in sé atavicamente l’istinto animale della violenza e che, per quanto uno possa reprimerlo lavorando su se stesso, prima o poi riemerge in manifestazioni individuali o collettive laceranti. Credo se mai che tutto dipenda dall’ipocrisia di chi usa la parola pace per mascherare i propri interessi e manipola coscientemente (altro che istinto animale!) l’opinione pubblica indirizzandola alla pace o alla guerra. Perché ci sono momenti in cui gli affari si fanno meglio con la pace e altri in cui c’è bisogno di qualche guerra per rilanciare economie stagnanti o in forte declino. Pace e guerra appartengono al pensiero, non all’istinto, ed è sul pensiero che bisogna agire se vogliamo sconfiggere le istanze di morte. E come? Cominciando a fare cultura della non violenza nelle varie aggregazioni umane, a partire dalle famiglie, dove spesso anziché insegnare ai figli i modi più aggressivi per essere competitivi (e qui nascono i mostri) dovremmo educare al fatto che esistono gli altri, ogni giorno e in ogni situazione, non basta commuoversi quando si vedono immagini televisive come quelle che rimbalzano in questi tristi giorni sui teleschermi. E proseguire questo percorso nelle Scuole e nelle Istituzioni che dovrebbero improntare la loro opera educativa, culturale e politico-amministrativa ai principi del pacifismo non violento. Soltanto in questo modo, infatti, se diventa una pratica quotidiana e non una bandiera da sventolare quando, come dice un nostro detto popolare, i buoi sono già scappati dalla stalla, il pacifismo non violento può incidere davvero nelle vicende più critiche della convivenza tra i popoli. Basta, dunque, considerarlo una delle tante opzioni della politica, il pacifismo non violento è la politica, l’unica possibile per un mondo sempre più sull’orlo del baratro.

Mohandas Karamchand Gandhi (Mahatma Gandhi)

Ma, alla luce di tutto questo, ha un senso dichiararsi pacifisti e poi essere favorevoli ad inviare armi che non faranno altro che protrarre il conflitto con la morte di tanti innocenti? Qualcuno sobbalzerà sulla sedia indignato e dirà che era un dovere morale aiutare militarmente gli ucraini di fronte alla brutale invasione del loro paese. Ma non sarebbe stato meglio, da parte loro, accogliere l’invasore con il dissenso magari anche silenzioso di tutto un popolo che rimane sulla sua terra e non collabora con il nemico? Non fecero così i danesi quando, con il paese ormai in mano ai nazisti, si fermavano tutti quanti nello stesso istante di ogni giorno, ovunque fossero e qualunque cosa facessero, mandando in tilt la macchina di occupazione tedesca? Credo che in questo modo i russi non avrebbero osato violare le famiglie, gli ospedali e le scuole, perché una guerra può essere raccontata in modi diversi dalle due parti, ma un’occupazione contro la volontà di un popolo pacifico ha una sola indiscutibile verità. Dico questo pensando al futuro, a quel solco che si è scavato tra le parti anche se prima o poi troveranno un accordo. E quando sarà finita questa “grande” guerra, continuerà quella “piccola” ma non meno dolorosa che va avanti dal 2014 e quella gente che vive sulle linee calde di confine non avrà mai pace.

E allora io provo a fare una proposta: perché l’Unione Europea, assumendo finalmente un ruolo da istituzione continentale, non chiede ai due paesi di riconciliarsi entrando a far parte entrambi dell’Unione stessa? Se mai lo facessero, dovrebbero adeguarsi agli standard democratici dell’Unione, che non sono parole che chiunque può pronunciare a seconda della convenienza, ma principi e atti concreti da introdurre obbligatoriamente nelle rispettive legislazioni nazionali. Ecco che allora non sarebbe più possibile per gli ucraini avere delle unità dell’esercito con la svastica al braccio o deporre un presidente regolarmente eletto con la violenza né per i russi avvelenare avversari politici scomodi o eliminare giornalisti autori di dossier scottanti. A meno che non facciano anche loro come altri paesi dell’ex cortina di ferro che sono entrati nell’Unione Europea per goderne tutti i benefici economici, ma non per condividerne integralmente le libertà democratiche e gli ideali universali di solidarietà umana e di accoglienza. E così, in barba alla legislazione comunitaria vigente, hanno dislocato lungo i loro confini recinzioni, reticolati, barriere di ogni tipo per respingere i profughi di tante altre guerre anche più sanguinose, magari lasciando morire di freddo e di stenti altre madri e bambini come quelli che ora invece fanno a gara ad accogliere.

Questa idea può sembrare, dunque, utopica e bizzarra, ma io sono fermamente convinto che se non si arriverà nel breve termine a unire dall’Atlantico agli Urali la nostra vecchia Europa nei prossimi anni assisteremo a un moltiplicarsi di focolai di guerra fomentati dai nazionalismi risorgenti e da tutte quelle situazioni di subalternità delle minoranze che continuano a persistere in molti Stati. Soltanto un’Europa che accomuni nei suoi principi di democrazia e di tutela dei diritti delle comunità e degli individui tutti i popoli che la compongono sarà in grado di scongiurare il male oscuro della dissoluzione che tuttora la percorre e di svolgere un ruolo cardine nella mediazione con il Sud del mondo che le chiede aiuto e con l’Oriente che la cerca insistentemente come partner.

Ma il Grande Fratello[4] americano, che veglia su di noi da ormai parecchi anni, consentirà che tutto questo avvenga?


[1] Autore, insieme ad Ernesto Rossi, del cosiddetto Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 durante il loro confino nell’isola tirrenica, che propugnava ideali di unificazione dell’Europa in senso federale.

[2] Cfr. Lenin, Vladimir Il’iĉ, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, La Città del Sole, Reggio Calabria 2001

[3]  Brecht, Bertolt, La guerra che verrà da Poesie di Svendborg,  traduzione di Franco Fortini, Einaudi, Torino 1976.

“La guerra che verrà // non è la prima. Prima // ci sono state altre guerre. // Alla fine dell’ultima // c’erano vincitori e vinti. // Fra i vinti la povera gente // faceva la fame. Fra i vincitori // faceva la fame la povera gente egualmente”.

[4] Il Grande Fratello (Big Brother) è un personaggio immaginario del romanzo 1984 di George Orwell, Mondadori, Milano 2016. Dittatore dello Stato di Oceania, tutto vede e tutto sa tramite le telecamere con cui spia i suoi sudditi nelle case.

2 thoughts on “Perché la guerra?

  1. Caro Gianni, sono pienamente d’accordo con te. Io addirittura andrei oltre: l’unione del continente Eurasia per vivere finalmente tutti in pace e prosperità alla faccia dei pochissimi ricconi della Terra.
    E hai ragione, purtroppo, sul fallimento dei movimenti pacifisti. In questi giorni di propaganda bellica sono dilaniata dalla consapevolezza degli errori fatti e degli errori che si continuano a fare. Grazie per la tua profonda analisi.
    Sabrina

  2. Caro Gianni
    il tuo è un testo interessante che mi ha sollecitato a scriverne uno anch’io:

    Dare o non dare le armi agli Ucraini?
    Dirò subito che approvo la scelta dei paesi occidentali, e quindi anche le scelte del nostro governo di aumentare e potenziare la difesa comune e di venire in soccorso all’Ucraina sia in termini di corridoi umanitari che di aiuti economici, unitamente all’applicazione di severe sanzioni economiche alla Russia, ma anche quello di fornire le armi le più adeguate a contrastare l’invasione di quella che si configura come la più plateale delle prevaricazione da parte di una Superpotenza nei confronti di uno stato indipendente, forse per la paura che il suo stesso popolo potesse essere “contagiato” dai valori democratici dell’Occidente.
    Un aiuto doveroso, ma non disinteressato, a chi, non a parole ma mettendo sul piatto della bilancia la loro vita difendono valori, che sono anche i nostri valori.
    D’altra parte la strenua difesa, da parte dell’intero popolo ucraino, della integrità territoriale dello stato, i danni materiali subiti e le perdite in vite umane, il loro cercare soccorso nei paesi occidentali, (e non ad es in Bielorussia) sono una testimonianza di come questo popolo prenda sul serio e ritenga oltremodo vitale e irrinunciabile il diritto all’autodeterminazione, dandosi istituzioni democratiche e quindi di contro, il rifiuto ad essere condizionati da un altro stato.
    (su questo punto i rilievi critici sui paesi orientali entrati nella UE mossi da Repetto sono condivisibili, ma si sa, che questo percorso verso la democrazia è soprattutto all’inizio molto difficile e pieno di contraddizioni, lo si è già visto in relazione ai fallimenti delle primavere arabe).
    D’altro canto in Europa il lungo periodo senza guerre, ha creato nell’opinione pubblica occidentale, la persuasione che la libertà e la pace, erano una cosa acquisita una volta per tutte e che quindi ci si poteva liberare dagli eserciti, si poteva smontare la Nato, e dare finalmente forza ad un pacifismo ingenuo, che ovviamente poteva esistere ed essere tollerato solo all’interno delle stesse democrazie occidentali, le quali a loro volta stavano e stanno al riparo sotto l’ombrello degli arsenali della superpotenza.
    Questa in estrema sintesi la mia posizione, seguono alcune considerazioni che la giustificano.
    Il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale ha visto in un primo tempo la corsa agli armamenti nucleari da parte delle superpotenze USA -URSS fino a raggiungere una potenza distruttiva in grado di distruggere il mondo una dozzina di volte. Poi si sono accordate per dividere il mondo in zone di influenza – l’alleanza atlantica della NATO e il patto di Varsavia corrisponde a questa spartizione- che dovevano rimanere tali per mantenere una sorta di equilibrio di non belligeranza, e nello stesso tempo mantenere un vantaggio strategico rispetto ad ogni altro stato della terra. È anche chiaro che questo equilibrio è stato più volte rotto, e il pericolo che un pur piccolo vantaggio della controparte avrebbe dato inizio ad un vantaggio sempre più grande, ha determinato che il confronto sulla difesa delle rispettive zone d’influenza fosse senza esclusione di colpi, sia da una parte che dell’altra. È questo il periodo della cosiddetta guerra fredda dove le guerre non hanno mai coinvolto in termini diretti le due superpotenze, anche se sempre presenti in guerre che si sono svolte su teatri periferici, vedi le guerre della Corea (1950) e del Vietnam, (1960) la crisi dei missili a Cuba (1962) e in Europa l’invasione dell’ Ungheria e della Cecoslovacchia, ma aggiungerei anche le stragi di stato che ci sono state in Italia quando sembrava potesse andare al governo del paese il partito comunista.
    Questa spartizione del mondo e l’equilibrio raggiunto, va sottolineato, si regge non su dei ragionamenti di legittimità giuridica, o storica, ecc. , ma su rapporti di forza e cioè da ultimo sugli arsenali nucleari e sul potere di condizionamento che essi hanno sugli stati che questi arsenali non hanno.
    Queste brevi notazioni storiche solo per indicare che la pace mondiale, o meglio l’assenza di guerre mondiali in questi ultimi settanta anni è dovuto al potere di deterrenza degli arsenali atomici, e cioè dalla consapevolezza che in uno scontro diretto tra superpotenze non vi può essere un vincitore, anche se questo non esclude una serie di scenari di guerra nucleare in cui il campo di battaglia non sia il territorio delle superpotenze, ma il territorio dei rispettivi campi di influenza, tra cui ad es l’Europa occidentale.
    L’Ucraina, potrebbe rientrare in questa fattispecie, e quindi non si può neppure escludere che il teatro di guerra possa estendersi e quindi è opportuno cercare in tutti i modi di mantenere il conflitto entro i confini attuali, evitando che gli stati aderenti alla NATO possano entrare direttamente nel conflitto, intervenendo piuttosto con forti sanzioni economiche per indebolire il finanziamento della guerra da parte della Russia, ma è certamente opportuno, ripetiamo, che oltre a corrispondere anche militarmente alle richieste di aiuto fatte dall’Ucraina, aumentare le capacità di difesa dell’Europa e della NATO.
    D’altra parte se sul piano internazionale sono questi i rapporti di forza, non si deve dimenticare che comunque l’esistenza di un qualsiasi stato, anche in periodo di pace, si fonda sul monopolio della violenza, nel senso che fa rispettare le proprie leggi con la forza, e a chi trasgredisce la legge non prescrive un corso di persuasione al pacifismo, ma lo mette in galera, e in alcuni stati, ancor oggi, la pena può arrivare fino alla morte. Se dunque anche in relazione ad una situazione di pace la violenza è contrastata con la violenza, non diversamente fra stati in guerra, la guerra può essere fermata solo opponendo alla forza messa in campo un’altrettanta forza, che determini una situazione di stallo fra i due contendenti. Il che significa rendere illusoria la possibilità che uno dei contendenti possa prevalere sull’altro.
    In passato, ai tempi della guerra fredda, questa situazione di non belligeranza andava sotto il nome di equilibrio del terrore e d’altra parte i settanta anni di relativa pace mondiale, confermano che è solo in relazione all’ equilibrio delle forze in campo che si può parlare realisticamente di pace. Questo è valido rispetto al mondo attuale (avvolto dal nichilismo) ma evidentemente questa situazione è destinata ad evolversi. Proviamo ad indicarne alcuni tratti seppur da lontano e in termini forse anche troppo sintetici.
    La risposta di Freud (limitatamente alla citazione fatta da Repetto) è per fortuna solo un ipotesi, perché sembra in buona sostanza prefigurare una sorta di stato etico mondiale, infatti lo schema non è diverso da quello dell’ordinamento di uno stato descritto qui sopra, dove comunque non si verrebbe a superare il concetto che la violenza si contrasta con la violenza, infatti un ONU che disponesse di un esercito in grado di fare rispettare le sue deliberazioni comporterebbe di fatto una cessione totale di sovranità da parte degli stati membri, (e quindi anche dei relativi privilegi compresi ad es. quelli derivati da una posizione geografica privilegiata rispetto ad altri?) ma un mondo così fatto, oltre che impossibile sarebbe comunque non migliore di quello esistente, perché invece di andare verso un decentramento del potere valorizzando le differenze, tenderebbe ad azzerare d’imperio tutte le differenze in ragione di una decisione democratica, quindi parziale, assunta dogmaticamente come fosse una verità universalmente valida.
    Ma se l’unica ragione oggi effettivamente riconosciuta è solo quella dei rapporti di forza, chi ha ragione è sempre e solo chi ha la forza maggiore, che non essendo contrastata da un’altra forza equivalente, viene fatta valere come verità. (ad es ci si è ben guardati di accusare gli Stati Uniti di crimini di guerra per avere sterminato con la bomba atomica la popolazione civile delle due città del Giappone nella seconda guerra mondiale).
    Ma, a questo punto, che cosa significa avere la forza, la potenza e con essa l’esercizio dell’hybris, la prevaricazione del più forte sul più debole?
    La potenza è costituita da quell’insieme di conoscenze (le scienze dure come la matematica, la fisica, la geometria, ecc. e gli strumenti prodotti sul fondamento della condivisione del metodo scientifico sperimentale, ecc. costituiscono nel loro insieme l’apparato tecnico-scientifico. Tutte le finalità dell’uomo attingono variamente all’onnipotenza di questo apparato.
    Riferendosi all’Ucraina, sul campo della contesa ci sono più fattori da considerare, non solo gli eserciti che si fronteggiano sul campo, ci sono intere popolazioni civili che sono in fuga che comportano problemi logistici di ogni tipo, l’organizzazione del soccorso per gli stati che li accolgono, c’è l’interdipendenza economica degli stati per cui gli effetti della guerra si estendono a tutto il mondo, le fonti energetiche e le materie prime che hanno una incidenza non solo relativamente ai paesi in guerra ma che si riflettono sull’intero mercato mondiale, ci sono le armi di distruzione sono sempre più sofisticate e distruttive, c’è la visione satellitare in tempo reale di quello che avviene sul campo e quindi un ricorrersi di misure e contromisure, c’è la connessione mondiale di internet, la propaganda dell’informazione e della disinformazione, la guerra informatica, ecc. insomma sono in campo un volume di strumenti interconnessi fra loro che sono utilizzati dalle varie forze in campo, al fine di realizzare i propri scopi. Ma ogni scopo che pure è in contrasto con ogni altro, può essere realizzato solo dall’apparato.

    Insomma quello che entra in gioco su più livelli, pur rimanendo in qualche modo sullo sfondo, è l’ apparato tecnico-scientifico in quanto è il fattore determinante dell’accrescimento della potenza, e quindi anche delle stratificate interconnessioni che costituiscono lo sfondo comune dei popoli della terra. Insomma la potenza è costituita dai mezzi che sono in grado di realizzare le diverse finalità – che non sono mai ridotte solo a quelle della pace o della guerra- e proprio perché l’enunciazione di una finalità non è ritenuta come tale la realizzazione di quella finalità, nel senso che di fatto chi realizza ogni possibile fine è la Tecnica, nelle sue infinite declinazioni, ma che hanno tutte come costante la struttura mezzo-fine.
    Tutti siamo consapevoli che senza gli strumenti della tecnica: la luce, i frigoriferi, i computer, le macchine, gli aerei, (ma anche prendere in mano un libro è una tecnica) la vita sul pianeta di fatto scomparirebbe, quindi appare evidente che nella misura in cui la Tecnica appare indispensabile e irrinunciabile per la nostra sopravvivenza, si verifica quel rovesciamento della struttura mezzo- fine per cui se prima il fine era la volontà dell’uomo ora sono gli uomini che sono diventati gli strumenti che concorrono al potenziamento di quel gigantesco e onnipotente strumento che è appunto l’apparato tecnico-scientifico.
    È dunque in questo senso che l’uomo attuale pensa ideologicamente e finalisticamente di essere lui a far uso dell’apparato tecnico-scientifico mentre in realtà è l’apparato tecnico-scientifico che svia le finalità ideologiche dell’uomo in funzione dell’accrescimento della sua potenza.
    In altri termini, se l’uomo ha sempre pensato fin dalle sue origini che la tecnica fosse un mezzo per perseguire i propri fini ora appare ineludibile che è l’ideologia dell’uomo e l’uomo stesso che si fa strumento, mezzo, per realizzare quella onnipotenza di cui è costituito l’apparato tecnico-scientifico e che è l’unico in grado di trasformare realmente il mondo. (d’altra parte le idee in quanto idee non trasformano il mondo mentre la potenza consiste invece nella capacità di trasformare il mondo sia creandolo che distruggendolo).
    Alla lontana chi ha più potenza, e non solo in termini di armi ma in senso tecnologico complessivo, vince, ma alla fine non vince la ideologia che pensa di utilizzare la tecnica, ma è quest’ultima che realizzandosi come tecnica diventa altro, e diventando altro, come ideologia diventa nulla.
    Lo stesso socialismo reale è andato dissolvendosi man mano che andava incrementandosi l’apparato tecnico-scientifico, necessario a competere con l’altra superpotenza, (la produzione tecnologica le ha rese simili). Detto in un altro modo, l’apparato tecnico-scientifico esige la specializzazione, il differenziarsi e il moltiplicarsi delle conoscenze e delle produzioni sperimentali, il che determina un sistema di relazioni in continua trasformazione che è entrato in contrasto con il tipo di programmazione centralizzato, monolitico, del sistema politico (i famosi piani quinquennali), e per questo quel sistema politico si è dissolto.

    Ora facendo un passo avanti, si deve tenere in conto che la funzione d’uso dello strumento comporta il suo deperimento, il suo consumarsi e infine la sua distruzione, per cui è necessario che per realizzare il fine primario sia necessario ripiegare sulla finalità secondaria del potenziamento dello strumento.
    (se ad es il mio scopo è arare un campo, per raggiungere questo scopo, dovrò costruire un aratro e cioè la finalità primaria che appare nella modalità ideale dovrà ripiegare sulla finalità secondaria che appare nella modalità reale e cioè la realizzazione dello strumento, che è poi quello che realmente consente di avere il campo arato. Ma attenzione, in questo passaggio il contenuto ideale iniziale è diventato altro da se stesso, e diventando altro, il contenuto ideale è diventato niente, è stato rimosso.
    Su scala più generale questo significa che tutte le ideologie che intendono servirsi dell’apparato tecnico-scientifico, in realtà sono queste ultime che per affermarsi hanno bisogno di quello e quindi si modificano in funzione dello strumento con cui solamente potrebbero affermarsi.
    Inoltre occorre aver presente che l’apparato tecnico-scientifico è accrescimento indefinito della potenza dell’apparato, e quindi della sua capacità di raggiungere ogni fine, mentre le ideologie si costituiscono in relazione ad un solo fine, ad es il capitalismo assume molte forme ma si definisce tale se persegue l’accrescimento del profitto; la dottrina sociale della chiesa persegue il bene comune e pretende che il profitto sia redistribuito, l’ambientalismo si focalizza sullo sviluppo compatibile, ecc. dove ognuna di queste forze è in contrasto con le altre, ma ognuna di queste forze per realizzare il proprio fine deve utilizzare quell’apparato tecnico-scientifico che ha come proprio fine la totalità dei fini e in questo senso ognuna di quelle finalità specifiche è destinata ad essere oltrepassata da un apparato in grado di raggiungere ogni finalità.
    Tenendo ferma l’inevitabilità della rimozione delle ideologie stante che la loro realizzazione implica la loro stessa cancellazione, si può ritenere che anche quelle forme di ordinamento statuali che hanno una forma gerarchica piramidale come la Russia, la Cina, ecc. sono destinate ad essere rimosse nel tempo.
    Nel frattempo la pace è inevitabilmente qualcosa che si può mantenere solo come equilibrio tra pace e guerra, dove si è visto che la pace non è meno violenta della guerra. Pace e guerra sono due forme di violenza, uscire da questa opposizione significa appunto oltrepassare la stessa condizione del mortale, e da qui dovrebbe cominciare il vero discorso.

    25/03/2022 Carlo Tognolina

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