Le forme della democrazia contemporanea

Per un’analisi comparata delle forme della democrazia contemporanea occorre ripartire dalle prime due rivoluzioni democratiche dell’età moderna che segnarono, assieme alla rivoluzione industriale, il passaggio dall’età moderna storica all’età contemporanea. Esse infatti furono uno stimolo ideale per tutti coloro che in Europa e anche nel mondo (in particolare nell’America Latina) cominciarono a lottare contro gli assolutismi e le dittature e gli assetti di potere che da esse scaturirono,  nonostante le frequenti ricadute autoritarie nel corso del ’900, hanno reso l’Europa e gli Stati Uniti d’America un modello internazionale di gestione democratica degli Stati.

 

Proviamo dunque a raffrontare le due diverse esperienze americana e francese e a vedere come hanno influenzato in vario modo le forme democratiche nate poi in altri paesi.

  • La democrazia americana si concretizza in uno Stato federale in cui i diversi Stati mantengono di fatto le stesse delimitazioni territoriali delle colonie inglesi d’America; quella francese, invece, eredita uno Stato con un assetto di potere centralizzato e, pur rendendolo democratico, ne mantiene la struttura unitaria e centralista.
  • La democrazia americana si ispira fondamentalmente a principi di natura religiosa, come testimoniano la Dichiarazione d’Indipendenza ( “…tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità” ), il giuramento sulla Bibbia che fa il Presidente all’inizio del suo mandato e le parole che pronuncia alla fine del giuramento: “So help me God” (Che Dio mi aiuti): quella francese è assolutamente laica, confisca in epoca rivoluzionaria i beni della Chiesa ed esclude la religione dalla vita pubblica e, in particolare, dalla Scuola (art. 2 della Costituzione francese: “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale »; Preambolo della Costituzione francese del 1946, articolo 13: “La Nazione garantisce ai bambini e agli adulti uguale accesso all’istruzione, alla formazione professionale e alla cultura. L’organizzazione dell’insegnamento pubblico gratuito e laico, in tutti i gradi di istruzione, è un dovere dello Stato”.
  • La democrazia americana è di tipo presidenziale e si struttura sul modello della monarchia costituzionale inglese, con la divisione dei tre poteri, ma con una sostanziale preminenza dell’esecutivo (il Presidente) sul legislativo e sul giudiziario (il Presidente nomina i giudici della Corte Suprema che devono poi essere ratificati dal Senato; la carica è a vita per cui ogni nomina può condizionare presidenze di segno avverso); quella francese è una democrazia di tipo semipresidenziale in cui il presidente è capo dell’esecutivo, ma può essere costretto dai numeri dell’Assemblea Nazionale (Camera bassa) a governare in coabitazione con il primo ministro di un altro schieramento politico.
  • Nella democrazia americana vige il bicameralismo perfetto (come in Italia e in Svizzera) perché la Camera Alta (il Senato) e la Camera Bassa (il Congresso) hanno pari dignità nel processo legislativo; in quella francese vige invece il bicameralismo imperfetto (come in Gran Bretagna, Spagna e Germania) perché la Camera Alta (il Senato) e la Camera Bassa ( l’Assemblea Nazionale) hanno metodologia di elezione e compiti diversi e, soprattutto, solo l’Assemblea Nazionale può sfiduciare il governo.

  • Nella democrazia americana il concetto di autonomia degli Stati all’interno dello Stato Federale è molto forte, perché fonda le sue radici nel passato coloniale, quando le singole colonie divennero indipendenti e poi decisero, non senza contrasti, di federarsi negli Stati Uniti a cui venne ceduta la sovranità di diritto internazionale. Ma i singoli governi statali hanno mantenuto il diritto di emanare delle proprie leggi sui vari aspetti della gestione pubblica, spesso molto diverse da uno Stato all’altro, sulla base del principio della “doppia sovranità” sancito dal X emendamento della Costituzione Federale che recita testualmente: “I poteri che la costituzione non attribuisce agli Stati Uniti né inibisce agli Stati, sono riservati ai singoli Stati o al popolo”; nella democrazia francese il concetto di autonomia ha stentato a farsi largo nella concezione centralizzata dello Stato. Fino al 2003, l’art. 72 della Costituzione prevedeva tre tipologie di enti costituzionalmente riconosciuti: Comuni, Dipartimenti e Territori d’Oltremare. Con la riforma costituzionale di quell’anno furono riconosciute costituzionalmente le Regioni, ma non venne loro riconosciuta la funzione legislativa che hanno, ad esempio, quelle italiane, ma soltanto funzioni regolamentari di tipo amministrativo, senza alcuna competenza sull’organizzazione dei livelli di governo ad esse inferiori. Inoltre non bisogna dimenticare il ruolo che svolgono i prefetti, istituiti nel 1800 da Napoleone Bonaparte ed “esportati” anche nei paesi che temporaneamente furono terra di conquista napoleonica, il cui ruolo è sancito sempre dall’art. 72 della Costituzione: “Nei governi locali della Repubblica, il rappresentante dello Stato, in rappresentanza di ciascun membro del governo, è responsabile degli interessi nazionali, dei controlli amministrativi e del rispetto della legge”. Prefetti che sono rimasti anche nell’apparato degli Stati Federali europei, Austria, Belgio, Repubblica Federale Tedesca e Svizzera, con la differenza che in Belgio i prefetti rappresentano sia lo Stato federato che quello federale, negli altri soltanto quello federato. Ciò dimostra che nelle esperienze democratiche derivate dalla Grande Rivoluzione francese l’idea di un controllo centralizzato da parte dello Stato sugli enti territoriali è molto forte, mentre negli Stati Uniti i governi dei vari stati hanno sulla vita quotidiana degli statunitensi un’influenza maggiore di quella delle autorità federali, in quanto ogni Stato ha una Costituzione scritta e un suo sistema di conduzione delle attività governative su cui il governo federale non può assolutamente intervenire.
  • Nella democrazia americana, improntata a una visione liberale classica della società, non esiste una burocrazia consolidata. Se si analizza la Costituzione degli Stati Uniti non si trovano riferimenti relativi all’amministrazione pubblica. Neppure i Padri fondatori si preoccuparono di codificare in modo specifico il ruolo che avrebbe dovuto avere l’amministrazione pubblica nel nuovo Stato federale. Soltanto Alexander Hamilton[1] nei Federalist Papers aveva sollecitato i delegati a ratificare la Costituzione perché le caratteristiche del nuovo Stato avrebbero favorito la nascita un’amministrazione pubblica più dinamica ed efficiente. In seguito, con la graduale definizione del ruolo del Presidente come unico responsabile del programma di governo e unico membro dell’esecutivo legittimato a definire le politiche pubbliche, ci fu l’esigenza da parte sua di controllare direttamente l’amministrazione pubblica federale al fine di mettere in atto il suo programma politico. Essa si concretizzò nel cosiddetto spoil system, introdotto dal presidente Jackson[2] nel 1829, che prevede che le posizioni di vertice dell’organizzazione amministrativa siano assegnate in base all’appartenenza politica al partito del candidato Presidente che ha vinto le elezioni. Secondo i suoi propugnatori lo spoil system rappresenta la miglior difesa di un governo democratico nei confronti del potere ostativo della burocrazia. Ma nello stesso tempo impedisce il formarsi di una burocrazia qualificata e indipendente ed essendo una soluzione di parte rende difficile il raggiungimento del bene comune che sta alla base del concetto idealistico di una comunità.
  • Nella democrazia francese la burocrazia – che esisteva già consolidata durante l’ancien regime e che poi con la Grande Rivoluzione e, soprattutto, con Napoleone Bonaparte si consolidò in un apparato estremamente accentrato, snello e ben funzionante – svolge un ruolo fondamentale nell’attuazione delle politiche governative, con la piena consapevolezza di essere la custode dei principi giuridici dell’ordinamento dello Stato. Essa fu rafforzata e modernizzata nell’immediato secondo dopoguerra con l’istituzione dell’École nationale d’administration (ENA) da parte dell’allora governo provvisorio della Repubblica Francese con l’intenzione di formare una nuova classe dirigente che s’insediasse in base al principio meritocratico e non clientelare come spesso era avvenuto in passato. Formare cioè quella burocrazia che già Max Weber indicava come indispensabile idea regolativa nella prassi amministrativa di una democrazia. E quale doveva essere il profilo formativo ed etico di una tale burocrazia? “Imparzialità, probità, scrupolosa osservanza della legge, benignità”. E ancora “capacità anche di resistere ai mutamenti di governo e all’inevitabile occasionalismo legislativo a cui questi possono dar luogo[3]. Altro che spoil system americano! Al di là delle appartenenze, per l’interesse generale dello Stato.
    Ma in Europa ci sono altri esempi storici qualificati dell’apparato burocratico dello Stato. È il caso della Gran Bretagna in cui le decisioni dei ministri vengono messe in atto da un’organizzazione permanente, politicamente neutrale, nota come Civil Service che ha il ruolo di coadiuvare il governo in carica indipendentemente dal partito politico al potere. I suoi alti dirigenti, nonostante i cambiamenti di governi, conservano il loro posto e restano a capo dei vari Dipartimenti. E questo non influisce minimamente sull’azione dell’esecutivo.
    Altro caso è quello della Svezia, il cui modello organizzativo burocratico si caratterizza per una sorta di “dualismo amministrativo”, imperniato sul ruolo centrale delle agenzie. Esse hanno una lunga tradizione, che risale addirittura al ’700, e sono ancora oggi il fulcro dell’amministrazione pubblica svedese, marcando una sostanziale separazione tra potere politico e potere amministrativo. In pratica gli uffici governativi danno direttive e indicano obiettivi alle agenzie statali che, prima di attuarle, analizzano in modo indipendente le nuove politiche pubbliche per tutto ciò che riguarda gli aspetti sia normativi che operativi.
  • Nella democrazia americana il potere giudiziario viene esercitato sulla base del Common Law, il diritto consuetudinario che vige anche in Inghilterra, nel Galles, in Irlanda del Nord e nella maggior parte degli Stati che fanno parte o hanno fatto parte del Commonwealth britannico. Si tratta di un diritto che si differenzia da quelli che derivano dal diritto romano (vigenti in tutto il resto dell’Europa, compresa la Scozia, e in America latina) sia per quel che riguarda i concetti e gli istituti fondamentali sia le fonti di produzione normativa. Esso infatti sorge e si sviluppa nel contesto delle vicende politico-costituzionali dell’Inghilterra a partire dalla conquista normanna. I suoi caratteri tipici derivano, dunque, non da un’elaborazione dottrinale, ma dalla viva esperienza del processo per cui regole e principi s’identificano fondamentalmente con quelli contenuti nelle decisioni giudiziarie. Altra caratteristica dei paesi dove vige il Common Law è il giuramento da parte dei testimoni sulla Bibbia, così come fanno il presidente degli USA e il re d’Inghilterra all’inizio del loro mandato.
    Nella democrazia francese e in tutte le altre europee e dell’America latina il potere giudiziario viene esercitato sulla base del Diritto Romano, con una separazione ben netta tra la sfera laica e quella religiosa. Altro valore costante nei diritti dei paesi europei è l’idea di un diritto naturale, cioè di un diritto basato su principi dati dalla nostra ragione e che trascendono l’esistenza di Dio.

Tutto ciò testimonia come il fondamento della vita pubblica democratica europea sia nella cultura laica dell’antica Grecia e in quella illuminista della Grande Rivoluzione francese. Come del resto è indicato nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea laddove si dice che “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto”. Nessun riferimento alla dottrina e cultura cristiana che per tanti secoli l’ha pervasa, spesso anche con ambizioni teocratiche.

  • Nella democrazia americana il richiamo al popolo è costante sia nella Costituzione federale sia nelle Costituzioni dei vari Stati. Il preambolo di quella federale recita testualmente: “Noi, Popolo degli Stati Uniti, allo Scopo di realizzare una più perfetta Unione, stabilire la Giustizia, garantire la Tranquillità interna, provvedere per la difesa comune, promuovere il Benessere generale ed assicurare le Benedizioni della Libertà a noi stessi ed alla nostra Posterità, ordiniamo e stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America”. E la stessa cosa si dice nei primi due articoli della Dichiarazione dei Diritti premessa alla Costituzione del Maryland: “I – Ogni governo di diritto origina dal popolo, è fondato soltanto sul contratto, e istituito unicamente per il bene del tutto. II – Il popolo di questo Stato deve avere il solo ed esclusivo diritto di regolare il governo interno e la polizia di esso”. Inoltre, nella Dichiarazione d’Indipendenza c’è scritto: “Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati tutti uguali, che il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti (…) che ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo il modificarla o l’abolirla, istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principi (…) Allorché una lunga serie di abusi e di torti (…) tradisce il disegno di ridurre l’umanità ad uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo”.
    Nella democrazia francese il richiamo al popolo è nel preambolo della Costituzione del 1958: “Il Popolo francese proclama solennemente la sua fedeltà ai diritti dell’uomo e ai principi della sovranità nazionale definiti dalla Dichiarazione del 1789…” e nell’art. 2, comma V: Lingua ufficiale della Repubblica è il francese.  L’emblema nazionale è la bandiera tricolore, blu, bianca e rossa.  L’inno nazionale è “La Marseillaise”.  Il motto della Repubblica è “Libertà, Eguaglianza, Fraternità”.  Il suo principio è: governo del popolo, dal popolo e per il popolo”. Niente a che fare però con quel “Noi, Popolo degli Stati Uniti…” così imperioso e diretto della Costituzione americana. E neppure un accenno al diritto del popolo a ribellarsi che abbiamo letto in essa: “… ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini…”, cioè gli “inalienabili diritti” e tradisca “il disegno di ridurre l’umanità ad uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo”. C’era nella Costituzione francese del 1793, quella mai entrata in vigore, che affermava nell’articolo 33: “La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomoe nell’articolo 35: “Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo il più sacro dei diritti ed il più indispensabile dei doveri”.
    Ma con il colpo di stato del 9 Termidoro, con l’arresto di Robespierre e la fine del predominio dell’estrema sinistra giacobina e dei sanculotti salì al potere una classe dirigente più moderata, legata alla ricca borghesia, che nella nuova Costituzione del 1795 ignorò il diritto di resistenza, così come lo intendeva Robespierre (“non può esistere che un solo Tribuno del popolo: il popolo stesso”), imbrigliandolo all’interno della cornice legale.
    Questo richiamo al popolo fu anche al centro del dibattito tra i Costituenti italiani nella fase di preparazione del progetto di Costituzione. In particolare fu Giuseppe Dossetti[4] a proporre nel secondo comma dell’art. 2, che recitava nel primo: “La sovranità dello Stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi, il seguente testo: “tutti i poteri emanano dal popolo che li esercita direttamente o mediante rappresentanti da esso eletti”. Completato poi dal successivo articolo 3 in cui veniva esplicitato il diritto-dovere di resistenza individuale e collettiva: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino”.
    Le proposte di Dossetti vennero bloccate dalla parte più moderata e conservatrice dell’Assemblea Costituente, che temeva il suo coniugare il Vangelo con le istanze sociali delle classi popolari, maturato anche in seguito alla sua partecipazione alla Resistenza (nome di battaglia Benigno) sulle montagne dell’Appennino emiliano. Contrario nel 1947 alla fine dell’esperienza del governo tripartito (DC, PCI, PSI) e alla nuova alleanza della DC con il Partito Liberale e quello Repubblicano, avverso all’entrata dell’Italia nel Patto Atlantico nel 1949, si dimise nel 1952 dalla Camera dei deputati convinto che la DC avesse ormai smarrito le sue istanze riformatrici. 
  • La democrazia europea che più si avvicina a quella americana per il costante richiamo al popolo è quella svizzera. I due ordinamenti condividono in particolare tre istituti che consentono ai cittadini di partecipare attivamente alle decisioni dello Stato: la revoca degli eletti (recall election), l’iniziativa popolare (iniziative) o referendum propositivo, il referendum (consultivo, confermativo, abrogativo)

L’istituto della revoca degli eletti o referendum di richiamo è una procedura tramite la quale gli elettori possono rimuovere un politico o un alto funzionario con una votazione diretta prima che si concluda il suo mandato. Sia negli Stati Uniti che in Svizzera la revoca non esiste a livello federale, ma solo negli Stati che l’hanno adottata. Negli Stati Uniti è presente in 19 Stati  e nel Distretto di Columbia. In Svizzera in 6 Cantoni su 26.

L’iniziativa popolare o referendum propositivo consente che la proposta legislativa o costituzionale degli elettori, suffragata ovviamente dalle firme necessarie per presentarla che varia a seconda degli ordinamenti, venga sottoposta al voto popolare se l’organismo legislativo non riesce nel frattempo a soddisfarla.

Il referendum è utilizzato frequentemente sia negli Stati Uniti sia in Svizzera. Nelle elezioni di metà mandato del 4 novembre 2014 negli Usa, oltre a votare per eleggere l’intera camera dei rappresentanti e un terzo del senato e a nominare 36 governatori e 45 parlamenti statali, in 42 Stati si votò anche per 146 referendum. Nelle elezioni di Midterm dell’8 novembre 2022 si sono svolti, contemporaneamente all’elezione di rappresentanti e senatori, in cinque Stati (California, Vermont, Michigan, Montana e Kentucky) i primi referendum ufficiali sull’aborto da quando la Corte Suprema ha ribaltato la sentenza Roe contro Wave che legalizzava, a livello federale, l’interruzione di gravidanza. In California, Vermont e Michigan gli elettori hanno votato a maggioranza la proposta che veniva loro fatta di mantenere il diritto di aborto nelle loro Costituzioni statali, quelli del Montana e del Kentucky hanno respinto a maggioranza la proposta di abolire il diritto di aborto che aveva sottoposto loro il governo dello  Stato.

In Svizzera il referendum è facoltativo per ogni progetto di legge o decreto adottato dall’Assemblea Federale (occorrono 50.000 firme), è invece obbligatorio in caso di modifica costituzionale. Modifica che può essere richiesta anche con iniziativa popolare (100.000 firme) sia che si tratti della revisione totale della Costituzione sia di una parte di essa presentando un progetto di legge elaborato. Nel caso del referendum facoltativo è sufficiente la maggioranza semplice dei votanti, in quello obbligatorio è richiesta una doppia maggioranza, cioè sia quella dei votanti in generale che quella dei votanti dei Cantoni (almeno 12 di essi devono essere d’accordo).

Alcuni politologi sostengono che questo assiduo pronunciamento della volontà popolare rischi di trasformarsi in un condizionamento populistico della politica rappresentativa, soprattutto per quel che riguarda l’istituto della revoca degli eletti. Da parte nostra riteniamo invece che la disaffezione dalla politica da parte dei cittadini derivi proprio dalla decadenza del ceto politico e dai continui trasformismi che lo caratterizzano con frequenti cambi di casacca pur di restare in carica. E se l’idea del mandato vincolato o imperativo, che già preconizzava Marx e tipico delle repubbliche popolari del socialismo reale, lede in qualche modo la libertà dell’individuo, il fatto che egli possa “tradire” per motivi tutt’altro che ideali gli elettori che l’hanno votato costituisce un danno al voto “libero” e fiduciario che essi hanno manifestato nei suoi confronti.

Per quel che riguarda l’iniziativa di legge (che richiede lavoro e preparazione da parte dei richiedenti) e i vari tipi di referendum riteniamo che siano strumenti irrinunciabili di democrazia diretta affinché la democrazia rimanga davvero tale e non diventi un gioco riservato soltanto agli ormai professionistici addetti ai lavori.

Ma se il confronto comparato sugli assetti e gli istituti delle diverse democrazie del cosiddetto “mondo occidentale” consente di rilevare in esse aspetti differenti ma pur sempre all’interno dei principi fondanti del pensiero democratico, non si può dire altrettanto delle “nuove” democrazie scaturite dal crollo dell’ex impero sovietico agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso. Si tratta di paesi che non hanno mai conosciuto la democrazia e che nel quarantennio in cui sono state repubbliche popolari a partito unico hanno condiviso, magari obtorto collo, forme di governo autoritarie che, sebbene di segno opposto, reiteravano gli assolutismi del passato politico di molti di loro.

Proviamo qui ad analizzare le forme delle democrazie di tre paesi di quell’area: l’Ungheria, che fa parte dell’Unione Europea dal 1° maggio 2004; l’Ucraina, che come Repubblica Socialista Sovietica ha fatto parte dell’URSS fin dalla sua fondazione (1922) ed è diventata indipendente nel 1991; la Russia, che è il successore legale dell’Unione Sovietica e dal 1991 è una repubblica federale semipresidenziale (22 repubbliche federate).       

L’Ungheria è oggi una repubblica parlamentare in cui il primo ministro è capo del governo. È lui che sceglie i ministri ed ha il diritto esclusivo di rimuoverli. Esercita il potere esecutivo. Il Parlamento è una camera unica, l’Assemblea Nazionale, composta da 199 membri. Esercita il potere legislativo. Il Presidente della Repubblica è una figura di garanzia come in genere nelle repubbliche parlamentari. Il presidente della Corte Suprema e il sistema legale, civile e penale che dirige sono pienamente indipendenti dal potere esecutivo.
Sembra il quadro virtuoso di una repubblica parlamentare come la nostra, con la netta separazione dei tre poteri e un Presidente della Repubblica che vigila sulla correttezza delle istituzioni democratiche. Ma se entriamo nel merito ci rendiamo conto che la situazione è ben diversa.

Con la riforma varata dal governo Orbán nel 2012 la Corte Costituzionale ungherese non ha più il potere di annullare le leggi che ritiene incostituzionali, ma la sua funzione è limitata a un ruolo consultivo. Inoltre i 15 giudici della Corte Costituzionale vengono scelti dalla maggioranza governativa. Tanto per fare un raffronto, in Italia un terzo viene nominato dal Presidente della Repubblica, un terzo dal Parlamento e un altro terzo dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative.
Il sistema elettorale ungherese prevede un turno unico e un sistema misto, proporzionale e maggioritario, con un maggior peso del secondo sul primo. Il governo ha conferito il diritto di voto alle minoranze storiche ungheresi residenti nei paesi confinanti (nel 1920, in seguito al trattato di pace di Trianon, due terzi del territorio storico ungherese vennero annessi ai paesi circostanti, in particolare Romania, Slovacchia e Jugoslavia), mentre l’ha negato agli ungheresi di recente emigrazione. Si tratta di centinaia di migliaia di elettori che votano per il 90% a favore del governo Orbán. Il risultato finale è che nelle ultime elezioni il partito del primo ministro, il Fidesz, grazie alla particolare legge elettorale che prevede un premio di maggioranza, ha preso il 49% dei voti ottenendo il 66% dei seggi che vuol dire la maggioranza dei 2/3 in Parlamento. Maggioranza che il Fidesz aveva anche nel 2012 quando votò una Costituzione non condivisa dalle altre forze politiche.
A questo punto possiamo giustificatamente affermare che la personalizzazione della politica (rilevanza alle persone e non ai programmi politici dei partiti), la progressiva presidenzializzazione del primo ministro (massima concentrazione del potere nelle mani di un primo ministro in un sistema parlamentare puro) e il lauto premio di maggioranza assegnato alla coalizione vincente rischiano di trasformare il paese in un sistema a partito unico.
Ma non siamo soltanto noi a pensarla così. Nel 2022 è stata la stessa unione Europea a definire con una risoluzione approvata a larga maggioranza (433 voti favorevoli, 123 contrari e 28 astensioni) il governo di Orbán una “autocrazia elettorale”, una “minaccia sistemica” ai valori fondanti dell’Unione Europea. Si è trattato di una risoluzione non legislativa, che è stata più un forte segnale politico che un voto dall’effetto concreto. Peccato che due delle maggiori forze politiche dell’attuale coalizione che governa l’Italia, Fratelli d’Italia e la Lega, abbiano votato contro.

L’Ucraina è una repubblica democratica semipresidenziale. Il Presidente, eletto direttamente dal popolo, rimane in carica cinque anni. È lui che esercita il potere esecutivo, che nomina il primo ministro (che deve poi ricevere la fiducia del Parlamento) e il suo governo. Il Parlamento è monocamerale e viene eletto con il sistema proporzionale. Ne fanno parte 450 membri anch’essi eletti ogni cinque anni. Esercita il potere legislativo.
La Corte Costituzionale è composta da 18 giudici, nominati un terzo dal Parlamento, un terzo dal Presidente e un terzo dal Congresso dei giudici. I giudici restano in carica per 9 anni terminati i quali non possono più ricoprire la carica.
La Corte suprema viene nominata dal Parlamento ucraino e i suoi membri stanno in carica senza limiti di tempo fino all’età del pensionamento (65 anni). Il loro numero è variabile.
La politica ucraina dall’indipendenza ad oggi è stata caratterizzata dalla divisione in due blocchi contrapposti: uno filo occidentale ed europeista e uno filo russo ed euroscettico, con maggiore presenza il primo nell’Ucraina occidentale e centrale, il secondo in quella meridionale e orientale. I partiti aderenti al secondo blocco sono stati messi fuorilegge a partire dal marzo 2022 allo scoppio della guerra con la Russia.
Attualmente il partito del presidente Zelensky, “Servitore del popolo”, detiene da solo la maggioranza in Parlamento (254 seggi su un totale di 450).

Fin qui tutto bene, nonostante quei partiti fuorilegge giustificati dallo stato di emergenza per la guerra con la Russia. Ma c’è anche un’altra grave incognita: la corruzione politica. Nell’Indice di percezione della corruzione (livello di corruzione percepita nel settore pubblico), un indicatore statistico pubblicato da Transparency International, relativo all’anno 2022, l’Italia è al 41° posto su 180 paesi e l’Ucraina al 122°. Del resto già nella relazione speciale della Corte dei conti europea n. 23 del 2021 si diceva testualmente: “L’Ucraina ha un lungo passato di corruzione e si trova ad affrontare sia la piccola che la grande corruzione. La piccola corruzione è diffusa ed è accettata da gran parte della popolazione come se fosse quasi inevitabile. I cittadini spesso giustificano la loro partecipazione a questa piccola corruzione osservando che gli alti funzionari e gli oligarchi sono coinvolti nella corruzione a un livello di gran lunga superiore. Gli esperti stimano che ogni anno vengono persi ingenti importi – nell’ordine di decine di miliardi di dollari – come conseguenza della corruzione in Ucraina..
A conferma di questa pratica diffusa e di difficile estirpazione nel gennaio scorso l’Ufficio nazionale anticorruzione ucraino ha spiccato mandato d’arresto nei confronti del viceministro per le Infrastrutture per tangenti su appalti riguardanti generatori di elettricità. Contemporaneamente il governo Zelensky ha costretto alle dimissioni forzate il vicecapo dell’Ufficio presidenziale, il viceministro della Difesa, il viceministro della Politica Sociale, i viceministri per lo Sviluppo della Comunità, i vicecapi del Servizio statale dei Trasporti Marittimi e Fluviali e il viceprocuratore generale. Come se ciò non bastasse, sono stati licenziati con decreto del presidente Zelensky cinque governatori delle amministrazioni statali regionali. Tutto questo nel pieno della guerra con la Russia e con la richiesta pendente di entrare a far parte dell’Unione Europea. Sta a voi trarre le conclusioni.

La Russia è una repubblica federale di tipo semipresidenziale. Ha dunque un assetto  istituzionale simile a quello dell’Ucraina, con la tendenza a concentrare il potere nella figura del presidente così come ha sancito la Costituzione del 1993. Si differenzia invece per il bicameralismo che vige nel suo Parlamento, l’Assemblea Federale della Federazione Russa, distinto in Duma, la camera bassa, 450 membri eletti con il sistema proporzionale, e Consiglio Federale, 178 membri, 2 per ogni soggetto federale.
Il presidente in carica Vladimir Putin ha già ricoperto tale incarico nel 2000, nel 2004, nel 2012 – con l’intermezzo del 2008 quando, vista l’impossibilità di svolgere un terzo mandato consecutivo come stabilisce la Costituzione, si scambiarono la carica lui e il suo primo ministro di allora Dimitrij Anatol’evič Medvedev, attualmente vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa – e nel 2018. La riforma costituzionale del 2020 – che ha azzerato i precedenti mandati da presidente ed è stata approvata con un referendum popolare in cui otto russi su dieci hanno votato a favore – e il prolungamento del mandato del presidente da 4 a 6 anni a seguito degli Emendamenti alla Costituzione del 2008 consentiranno a Putin di candidarsi, se lo vorrà, anche nel 2024 e nel 2030. E questo, con le modifiche sopravvenute, in modo pienamente legittimo e, in base all’esito della guerra con l’Ucraina, con concrete possibilità di riconferma. Un altro caso, anche più longevo, di “autocrazia elettorale”.

A questo punto, parlare di democrazia per i paesi dell’ex blocco sovietico è dunque difficile, perché sia nelle parole che nei fatti la loro democrazia è spesso soltanto una maschera. Perché in una vera democrazia la maggioranza che governa non tende ad annichilire le opposizioni, ma ad instaurare con esse una dialettica costruttiva garantendo loro la tutela di norme e di figure di garanzia. Il perseguire con strumenti legislativi facilitatori (vedi premi di maggioranza) maggioranze schiaccianti che consentano non solo di governare in modo “blindato” lo Stato, ma anche di modificarne unilateralmente le leggi fondamentali è l’anticamera del partito unico e del plebiscito che sono la morte della democrazia. Il capo del governo ungherese Orbán alle accuse che gli vengono rivolte di essere autoritario e illiberale risponde che l’Ungheria è una democrazia illiberale e che sono gli ungheresi a volerla così.

Come Orbán, dunque, anche Putin può sventolare la bandiera della democrazia, quella che non gli riconoscono gli avversari politici in patria e la maggior parte degli osservatori internazionali soprattutto per l’intolleranza nei confronti del dissenso e della stampa libera e per la spartizione dell’economia tra gli uomini della sua cerchia che è alla base del suo sistema di potere.
Per quel che riguarda la libertà di stampa l’Ong “Reporter senza frontiere” ha stilato una classifica che vede la Russia al 155° posto su 180 paesi “sull’effettiva possibilità per i giornalisti, come individui e come gruppi, di selezionare, produrre e diffondere notizie e informazioni nell’interesse pubblico, indipendentemente da ingerenze politiche, economiche, legali e sociali e senza minacce alla loro sicurezza fisica e psichica”. Il Comitato per la protezione dei giornalisti, associazione internazionale nata con lo scopo di difendere la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo, cataloga la Russia come “il terzo Paese al mondo per numero di giornalisti morti” dal 1991. Secondo lo stesso Comitato sono 36 i giornalisti assassinati dal 27 ottobre 1999 al 2022, cioè da quando Putin è al potere, e Anna Politkovskaja è una di essi
Nell’Indice di percezione della corruzione di Transparency International, relativo all’anno 2022, la Russia è al 137° posto. Tangenti, favori politici, finanziamenti privati e ricatti, denunciati spesso dal Fondo anti-corruzione di Aleksej Naval’nyi, che oggi è detenuto nel carcere di Melekhovo dopo aver subito un tentativo di avvelenamento. Ma anche da Mikhail Khodorkovsky, potente oligarca della Russia delle privatizzazioni, caduto in disgrazia e condannato a dieci anni di campo di lavoro, oggi esule in Gran Bretagna.

Eugenio Colorni, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi

Ma cosa hanno a che fare queste prassi illiberali con il concetto di democrazia che nel corso del ’900 l’Europa occidentale ha maturato faticosamente dando vita a quell’Unione Europea che sognavano gli estensori del “Manifesto di Ventotene”[5] auspicandone nella chiusa finale la prospettiva? ”Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere e dei mezzi come raggiungerlo. La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!”.

[1] Alexander Hamilton (1755 – 1804) è ritenuto uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti di cui fu il primo Segretario del Tesoro. Fu il promotore della necessità di una Banca pubblica, che avesse potere di erogare credito come quelle private, affinché la politica fosse autonoma nelle sue decisioni sui piani di crescita dell’economia

[2] Andrew Jackson (1767 – 1845) è stato il settimo Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1829 al 1837. Durante il suo mandato rese più democratiche le strutture politiche e amministrative dello Stato federale

[3] Weber, Max, il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966

[4] Giuseppe Dossetti (1913 – 1996) è stato docente di diritto ecclesiastico nell’Università di Modena, partigiano, politico e teologo. Fu ordinato sacerdote nel 1959 e partecipò al Concilio Vaticano II come collaboratore del cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna.      .

[5] È un documento per la promozione dell’unità europea scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel 1941 durante il periodo di confino nell’isola di Ventotene nel mar Tirreno. È considerato uno dei testi fondanti dell’Unione Europea.

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