“In una vera democrazia la maggioranza che governa non tende ad annichilire le opposizioni, ma ad instaurare con esse una dialettica costruttiva garantendo loro la tutela di norme e di figure di garanzia. Il perseguire con strumenti legislativi facilitatori (vedi premi di maggioranza) maggioranze schiaccianti che consentano non solo di governare in modo “blindato” lo Stato, ma anche di modificarne unilateralmente le leggi fondamentali è l’anticamera del partito unico e del plebiscito che sono la morte della democrazia”

Per ragionare di crisi della democrazia voglio partire da queste parole con le quali ho concluso l’intervento precedente sulle forme della democrazia facendo riferimento alle democrazie dei paesi dell’ex blocco sovietico che tendono tutte a diventare democrazie autoritarie. Esse, infatti, ripropongono sotto la maschera della democrazia lo stesso sistema a partito unico – diverso il partito, magari di segno opposto a quello di allora – che vigeva prima dello scioglimento dell’URSS nel 1991. E tutto legittimato ora dal voto democratico (?) e favorito da mutamenti istituzionali votati unilateralmente dal partito o dalla coalizione di partiti che detengono la maggioranza qualificata dei seggi in parlamento grazie a una legge elettorale che li premia al di là del numero effettivo dei voti ottenuti.

Ma quali sono, invece, le caratteristiche di una democrazia liberale che presupponga e consenta effettivamente l’esercizio dell’alternanza, nella convinzione che sta proprio in essa il senso più genuino del diritto di voto libero, scevro da paure e da scelte fatte “contro” e non “per convinzione”?
- L’esistenza di movimenti di opinione che s’identificano in un’idea politica dello Stato e della convivenza sociale che è diversa da quella di altri, ma si basa sugli stessi presupposti di diritto naturale dei popoli, in base al quale tutti gli uomini sono uguali e hanno gli stessi diritti. Questi movimenti hanno generato nella contemporaneità delle organizzazioni politiche, in genere denominate “partiti”, che ne hanno portato avanti le idee confrontandosi con quelle di altri che divergevano dalle loro, ma partivano da quegli stessi presupposti. Il prevalere di una visione sull’altra viene deciso da libere elezioni, non prima di aver stabilito delle regole comuni a garanzia di chi dovesse risultare sconfitto.
- I partiti democratici hanno elaborato un’idea della politica e dello Stato in cui fosse consentito a chiunque di votare, di partecipare al dibattito politico ed eventualmente di presentarsi candidato alle diverse istanze della gestione politico/amministrativa di un paese. L’essere eletti comportava la responsabilità di rappresentare non solo gli elettori che li avevano votati, ma anche quelli che avevano preferito altri candidati di analoghe formazioni democratiche divergenti.
- Nelle democrazie liberali chiunque ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni liberamente, in un consesso pubblico o sugli organi d’informazione, tranne nei casi in cui le sue affermazioni ledano i diritti di qualcun altro. Inoltre, gli è consentito di criticare l’operato del governo in carica in varie forme (compresa la satira) e di dissentire dalla forma stessa della democrazia propugnando altre forme di governo, purché questo suo pensiero divergente non si traduca in azione tesa a sovvertire l’ordine democratico esistente con la violenza e non con l’esercizio del diritto di voto.
- Esistono in tutte le democrazie liberali contemporanee degli istituti di democrazia diretta che consentono a tutti i cittadini di partecipare alla modifica o alla proposta di leggi: il referendum e l’iniziativa di legge popolare. In alcune di queste democrazie liberali le possibilità di utilizzo di questi istituti sono più concrete sia perché essi hanno caratteristiche più ampie (referendum non solo abrogativo, ma anche confermativo e consultivo) sia perché esiste una tradizione e una cultura maggiore rispetto al loro utilizzo.

Indicata per sommi capi qual è la sostanza della democrazia nei paesi di ormai lunga tradizione democratica, vediamone però lo stato attuale alla luce di quella che tutti gli osservatori, anche i più ottimisti, ritengono che sia la crisi più grave della democrazia politica dal secondo dopoguerra ad oggi.
- I partiti politici sono stati protagonisti del ’900, nel bene e nel male. Nella prima parte del secolo hanno portato alla ribalta la massa dei diseredati della civiltà industriale e in alcuni casi si sono contesi democraticamente il governo dei paesi (in particolare nei paesi del Nord Europa), in altri con rivoluzioni violente o con lo stravolgimento delle regole democratico-parlamentari hanno imposto il loro dominio assoluto e trasformato Stati di democrazia liberale in dittature (il comunismo leninista in Russia, il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il franchismo in Spagna). Nel secondo dopoguerra i partiti democratici si sono contesi con libere elezioni il diritto di governare con la classica divisione in partiti di centro, di sinistra e di destra. In Italia i partiti che hanno avuto la maggiore adesione popolare sono stati la Democrazia Cristiana, di centro, il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano, di sinistra.[1]
- In Italia i partiti maggiori, Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, ma in parte anche gli altri, avevano delle scuole di formazione politica ben organizzate e di buon livello[2] che preparavano sia alla politica nazionale che all’amministrazione locale. Nessuno entrava in politica senza un minimo di preparazione, spesso semplicemente strumentale, ma necessaria.
- Con la crisi dei partiti anch’esse sono sparite e la formazione politica si è basata da allora sul percorso personale individuale che spesso non vanta né conoscenze né esperienze tali da consentire all’eletto di muoversi adeguatamente nel ruolo che va a svolgere. E se nei partiti storici o in quello che rimane di essi esiste almeno una sorta di cursus honorum che chi fa carriera politica deve compiere dalle amministrazioni locali al Parlamento, in altre formazioni nate dal nulla in questi ultimi anni molti si sono trovati sbalzati su un seggio in Parlamento senza il bagaglio culturale e di esperienza necessario per fare seriamente politica.

- E qui si pone un’altra questione della rappresentanza in democrazia: il livello culturale degli eletti. In tempi di populismo dilagante, di “uno vale uno”, si è diffusa un’opinione semplicistica del fare politica, assimilando la discussione da bar o da circolo ricreativo a quella del dibattito parlamentare. Tutti sono in grado, dopo qualche mese di frequentazione dell’aula parlamentare, di sparare pseudo ragionamenti in politichese, magari ripetendo una lezioncina ricevuta dal capocordata. Ma pochi conoscono a fondo la Costituzione e le principali leggi dello Stato e parlano con cognizione di causa quando intervengono nelle discussioni parlamentari. La maggior parte di loro, infatti, non fa che ribadire in aula gli umori popolari convinta di fare in questo modo l’interesse del popolo.
- È democrazia questa? Aristotele direbbe di no, che questa democrazia populista è una cattiva democrazia e quindi ci vuole un correttivo che la rimetta in carreggiata. E il correttivo sarebbe lo sbarramento culturale per coloro che accedono alle cariche pubbliche. Anch’io ne sono convinto, ho visto troppi ministri e sottosegretari fare figure barbine a discapito della dignità della nostra Repubblica. Si stabiliscano dunque dei criteri oggettivi di accessibilità e le competenze necessarie per entrare in Parlamento.
- Il populismo è oggi la maggior forma di condizionamento della politica. E qui, anziché Aristotele, mi soccorre Tucidide che, nel V libro delle sue “Storie”, descrive in anteprima parlando di Cleone, politico ateniese, la figura di un populista. Costui, che era un ricco conciapelli, si distinse per la sua oratoria gridata e focosa in assemblea, fatta di continui richiami al popolo di cui suscitava gli istinti più violenti sia nei confronti degli avversari politici che dei nemici esterni della patria, in particolare Sparta. E si spingeva al punto di sostenere, come scrive Tucidide, che “gli uomini semplici governano le città meglio dei più intelligenti”. Altro che rappresentanza qualificata! È il “ventre” popolare che deve governare, qualunque scelta esso faccia, anche se è contro la libertà e il diritto naturale individuale del cittadino. Ma non abbiamo forse visto emergere in questi ultimi anni, nel panorama desolante della politica del nostro paese, tanti novelli Cleone che hanno infiammato il popolo con mille proclami e altrettante contraddizioni? Che hanno promesso un giorno cose che hanno poi negato sfacciatamente poco tempo dopo sapendo che la massa ha bisogno piuttosto di emozioni che di soluzioni?
- Ma questo cavalcare gli umori popolari per suscitare consenso determina indici di gradimento dell’azione politica di chi lo pratica estremamente variabili, perché basta una forzatura o un errore di valutazione di quegli umori per passare dall’altare alla polvere, così come è successo nel recente passato prima a Renzi e poi a Salvini. E questo rappresenta un fattore di instabilità per il quadro politico, che necessita di tempo per programmare politiche che incidano effettivamente sull’economia e sul sociale.
- Il discrimine del declino dei partiti in Italia è stato da un lato il venir meno per la Sinistra comunista di un riferimento politico ormai logoro, ma ancora in piedi come l’Unione Sovietica e dall’altro la crisi di tangentopoli che ha travolto il cosiddetto Pentapartito (Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Socialdemocratico Italiano, Partito Repubblicano Italiano, Partito Liberale Italiano). L’irrompere in tutto questo del fenomeno Berlusconi – che non aveva bisogno di un partito tradizionale alle sue spalle, fatto di iscritti che partecipassero al suo dibattito interno, ma di un partito azienda in cui fosse lui l’unico a pensare e a decidere – e il suo continuo agitare lo spettro dei comunisti che pure non c’erano più ha risvegliato in molti italiani le aspettative populistiche nei confronti dell’uomo della Provvidenza, colui che da solo avrebbe risolto tutti i loro problemi. Aspettative rinfocolate dai suoi continui proclami di riforme sbrigative a favore della gente (si pensi ai leit motiv delle pensioni minime e dello sgravio fiscale) che si sono risolte nel 2011 con la bancarotta dello Stato e la cura Monti/Fornero.
- Per fare questa operazione Berlusconi ha “sdoganato” la destra nostalgica che fino ad allora era rimasta ai margini del cosiddetto arco costituzionale, ma nello stesso tempo ha indotto un mutamento antropologico anche nei quadri della Sinistra storica che non si sono più sentiti imbrigliati nei meccanismi tradizionali del Partito che discute e si confronta in assemblea. A quel punto essi si sono autoproclamati quadri politici permanenti di uno schieramento che si è poi chiuso sempre più nei vertici, assumendo posizioni politiche proprie, per nulla condivise con una base ormai abbandonata e distante. È iniziata allora la personalizzazione della politica e il suo trasformarsi da un’attività temporanea di servizio in una vera e propria professione esercitata da quella che viene definita ed è a tutti gli effetti una “casta”.
- I cittadini, dunque, non partecipano più alla vita politica dei partiti, perché si rendono conto di non contare più nulla nelle scelte che vengono fatte dai ceti politici della “casta”. Inoltre la costante individualizzazione della vita delle persone, che va avanti ormai dagli anni ’80 del Novecento tra consumo e società dello spettacolo, ha indotto molti di loro a dedicarsi soprattutto a fini individuali sia nell’ambito del lavoro (forte calo della sindacalizzazione) sia nel tempo libero e ha rinforzato un preconcetto, del resto giustificato, nei confronti della politica in generale.
- Ma oltre a non partecipare più attivamente alla vita dei partiti, i cittadini vanno anche sempre meno a votare. Del resto le liste bloccate predisposte dagli organismi residuali dei partiti non consentono ai cittadini neppure la scelta del candidato e quelli indicati sono spesso degli illustri sconosciuti ai territori dove dovrebbero essere votati. Significativi i dati della disaffezione. Le prime elezioni politiche del 1948 videro un’affluenza del 92% degli aventi diritto e da allora fino al 1979 l’affluenza è stata sempre superiore al 90%, raggiungendo il picco del 93,39% nelle elezioni del 20 giugno 1976. Nel 1983 si è scesi per la prima volta sotto il 90% arrivando all’88% e nel 2013 si è scesi anche sotto l’80% in quanto votarono soltanto il 75% degli elettori, percentuale scesa ancora nel 2018 al 73%. Ma il calo è stato ancora più drastico nelle ultime elezioni politiche del 2022 quando l’affluenza ha raggiunto addirittura il 63,9%.
- Se si aggiunge che nelle ultime elezioni regionali in Lombardia ha votato il 41,7% degli elettori, contro il 73,1% nel 2018, e che nel Lazio ha espresso la propria preferenza soltanto il 37,2% degli aventi diritto, mentre nel 2018 lo aveva fatto il 66,6%, il quadro della disaffezione è allarmante, nonostante i partiti si accontentino di prevalere significativamente (?) all’interno di quelle piccole percentuali di votanti.
- La burocrazia, anziché essere l’indispensabile idea regolativa nella prassi amministrativa, è diventata – nonostante i vari proclami politici di semplificazione – un meccanismo sempre più complicato di lacci e laccioli che tendono soprattutto a garantire l’apparato e a mallevarlo da eventuali responsabilità. Il risultato è che la politica non si rapporta più ad essa in modo dialettico, accettando il dualismo che dovrebbe esistere tra le due sfere, ma cerca di inglobarne i vertici sulla base di appartenenze alle maggioranze che si susseguono (pratica dello spoils system).
- Ma se questo è ciò che sta avvenendo in Italia ed è già consolidato nelle democrazie autoritarie dell’Est Europa, il problema di stravolgimento del ruolo della burocrazia è in atto anche in un paese famoso per la preparazione ed efficienza della sua burocrazia, la Francia. Il presidente Macron, infatti, – che pure proviene dall’apparato burocratico – ha rimpiazzato a partire dal 2018 interi settori della dirigenza pubblica con le maggiori società di consulenza private del mondo, suscitando polemiche sia a livello politico che popolare, visti oltretutto i risultati deludenti della campagna di vaccinazione di massa affidata per l’appunto a una di queste società.
- Si tratta di una scelta, dunque, che non garantisce qualità e pesa enormemente sul bilancio dello Stato. Per quale ragione allora viene fatta? La società di consulenza privata non contraddirà mai il cliente, farà le cose come lui richiede, non pretenderà di essere “l’indispensabile idea regolativa nella prassi amministrativa” come la intendeva Weber. Non preserverà il dualismo necessario di politica e burocrazia che è la formula di salvaguardia di una democrazia.
- Come ultimo aspetto della crisi della democrazia contemporanea voglio sottolineare come in questa trasformazione autoritaria delle democrazie si trovino concordi l’anima populista delle masse e dei politici che esse esprimono e il grande capitale finanziario che pure esse considerano il loro principale nemico. Una volta si diceva che in politica gli estremi si toccano e questa situazione mi pare che ne sia la conferma.
- Da anni, infatti, le maggiori società di investimento/gestione a livello mondiale insistono perché i tempi di decisione nei sistemi democratici si sveltiscano bypassando la prassi ripetuta di controlli politici e burocratici da essi messa in atto. In pratica sollecitano il decisionismo a discapito della discussione democratica, soprattutto in relazione ai tempi di decisione delle democrazie del Sud Europa ritenute troppo garantiste. Ma questa è la stessa cosa che vogliono i loro presunti acerrimi nemici, i partiti populisti, e la perseguono cercando di stravolgere le democrazie liberali e di trasformarle in democrazie autoritarie dove in pratica le opposizioni non contano e chi è al potere ha la forza parlamentare per assumere autonomamente tutte le decisioni.
È questa una concordanza che dovrebbe far riflettere molti, soprattutto coloro che evocano in continuazione i poteri occulti, quando essi invece sono ben palesi e paradossalmente loro alleati.
[1] La Democrazia Cristiana aveva 537.582 iscritti nel 1945 e ha raggiunto il suo tetto massimo nel 1990 con 2.109.670 iscritti per poi scendere a 809.456 nel 1994 prima di sciogliersi nello stesso anno e i suoi resti diventare Partito Popolare Italiano (tetto massimo di iscritti 172.711 nel 1997) . Il Partito Comunista Italiano aveva 1.770.896 iscritti nel 1945, ha raggiunto il suo tetto massimo nel 1947 con 2.252.446 iscritti, aveva ancora 1.264.790 iscritti nel 1990, prima di trasformarsi e dividersi in PDS (989.708 iscritti nel 1991, 613.412 nel 1998) e Rifondazione Comunista (tetto massimo di iscritti 130.509 nel 1997, 9.738 nel 2019). Il Partito Socialista Italiano aveva 860.300 iscritti nel 1948, suo tetto massimo, ancora 660.195 nel 1990, 51.224 nel 1992, l’anno di tangentopoli, e 43.052 nel 1994 prima di sciogliersi.
[2] L’Istituto di studi comunisti (meglio conosciuto come Scuola delle Frattocchie) è stata la scuola centrale del Partito Comunista Italiano
La Democrazia Cristiana aprì nel 1954, per iniziativa dell’allora segretario Amintore Fanfani, una sua scuola di formazione dei quadri del partito in una villa di sua proprietà, a Roma, ai piedi di Monte Mario, denominata la “Camilluccia”
Il Partito Socialista non aveva una tradizione di scuola di partito e l’organizzazione e la formazione dei quadri avveniva all’interno delle strutture tradizionali del partito, nella pratica quotidiana dell’attività politica. Solo quando Bettino Craxi diventò segretario nel 1976 venne avviato un processo di formazione strutturato che fu affidato a Valdo Spini, docente di Storia delle Relazioni Economiche Internazionali alla facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze e militante del partito