Il pensiero democratico nella Storia

 

È ormai un patrimonio comune dell’uomo occidentale fare riferimento alla Grecia antica, e in particolare all’esperienza di Atene, ogniqualvolta si parla di democrazia. Si insegna nelle scuole e, per quanto possa perdersi nel marasma delle nozioni ricevute, questa idea – Atene come esempio di democrazia – rimane in tutti, anche negli adulti meno acculturati, vaga, ma in qualche modo rimane. Più difficile che rimanga anche il nome di coloro che furono i teorici del pensiero politico di quell’epoca, in pratica coloro che diedero inizio alla scienza della politica. Magari se ne ricordano i nomi, Platone e Aristotele, ma poco si sa o si ricorda di quello che fu il loro pensiero politico. Ma per fare un percorso alla ricerca del pensiero democratico nella Storia non si può assolutamente prescindere da loro.

Platone (428/427 a. C. – 348/347 a. C.) vive in un periodo di decadenza della democrazia. Emblematica la condanna a morte di Socrate nel 399 a. C. da parte di un tribunale democratico con l’accusa di “empietà e corruzione dei giovani”, che potremmo modernamente definire un reato di opinione. Platone fa di Socrate il protagonista dei suoi dialoghi, colui che con la sua maieutica provoca gli interlocutori e riesce a far emergere le loro contraddizioni nel chiedersi il “cos’è” di vari argomenti. E questo glielo fa fare anche nella “Repubblica” e nel “Politico” che sono i due dialoghi in cui si affronta in pieno il tema delle forme di governo.

Nella “Repubblica” egli delinea una sorta di utopia politica, propugnando una città perfetta, governata da un’élite di filosofi (veri e propri monaci laici), con una popolazione divisa in classi e un controllo totalitario sulla condizione dei singoli cittadini. Controllo che prevede l’abolizione della famiglia naturale e della proprietà privata, in aperta contraddizione con l’Atene democratica di Pericle. Anzi, è proprio l’atteggiamento “populista” di Pericle, il suo ammiccare alle esigenze del popolo e il suo cavalcarle, il bersaglio della sua polemica: egli vuole infatti introdurre un sistema di governo che impedisca alla vocazione demagogica del leader di attecchire e di renderlo dipendente dal favore della maggioranza a discapito del bene comune. Nel “Politico” ribadisce ancora che la scienza della politica non può essere esercitata da chiunque e soprattutto dalla massa incolta, ma deve essere appannaggio delle poche persone che sanno praticarla. E stabilisce una tassonomia tra le varie forme di governo, indicandone tre rette e tre corrotte: monarchia, aristocrazia e democrazia secondo le leggi, le prime; tirannia, oligarchia e democrazia contro le leggi, le seconde. La democrazia è la peggiore delle forme di governo tra le rette ed è la migliore invece tra quelle corrotte.

Nelle “Leggi” (in cui non compare più la figura di Socrate) recupera le istituzioni democratiche attenuando l’idea che soltanto pochi specialisti possano esercitare compiti di governo, disconosce il controllo totalitario sulla sfera privata dei cittadini ristabilendo la famiglia naturale, la proprietà, le ricchezze individuali e le disuguaglianze e introduce al suo posto una legislazione minuziosa che regolamenta le condotte dei cittadini (riguardo all’educazione, alla vita sociale, al lavoro, ecc.), propone un comitato di saggi che vigili sui vari aspetti e funzioni della repubblica (non vuole rinunciare in assoluto alla competenza).

Ma se il pensiero politico di Platone può essere definito idealistico e il suo pensiero in generale il fondamento dell’idealismo filosofico successivo, quello  di Aristotele (384 – 322 a. C.), suo allievo, è invece un modello organicistico di giustificazione del potere politico.

Aristotele nella “Politica” ragiona su quale sia il bene dell’uomo e su quali siano i modi di organizzare la vita in comune affinché esso possa essere perseguito. Egli parte da un presupposto che è diventato una sorta di marchio del suo pensiero politico: l’uomo è un essere sociale, con attitudine a vivere in comunità; anzi, soltanto all’interno di essa può conseguire il suo bene. La comunità prevale, dunque, sull’individuo, in antitesi, come vedremo, al pensiero democratico moderno che mette invece al centro la libertà dell’individuo.

Per quel che riguarda, poi, il governo della polis Aristotele dice che il potere del governante sui governati non si deve conformare ai poteri naturali che le danno vita (le differenze naturali padrone – schiavo, marito – moglie, padre – figlio), perché trattandosi di governo su individui liberi non è giustificabile alla luce di quelle differenze innate, ma soltanto in base alla capacità di esercitarlo, che può essere quella di un singolo o di un gruppo di persone che non hanno le competenze richieste singolarmente, ma le esprimono nel loro insieme attraverso le competenze di qualcuno di loro. Viene dunque meno la concezione elitaria platonica dell’esercizio del potere e si apre a un ventaglio più ampio e più democratico di possibilità da parte dei cittadini di governare la polis, purché abbiano le competenze e le capacità necessarie per reggere proficuamente un ruolo di governo. 

E a questo proposito Aristotele, nel libro III della “Politica”, recupera la tassonomia platonica delle forme di governo, definendone anche lui tre rette – monarchia, aristocrazia e politeia – e tre corrotte – tirannia, oligarchia e democrazia. Nelle prime tre, secondo lui, il potere è esercitato nell’interesse comune, mentre nelle seconde nell’interesse dei governanti. Ma lui stabilisce una diversa gerarchia rispetto a Platone tra queste forme di governo e lo fa sulla base del criterio della Legge: sono preferibili quelle forme di governo che si basano rigorosamente sul rispetto della Legge piuttosto che quelle che si affidano soprattutto al governo degli uomini. Vieni fuori qui il suo approccio scientifico alla politica che, per essere giusta e condivisibile, deve basarsi sull’impermeabilità della Legge alle passioni piuttosto che sulle passioni stesse e la discrezionalità nell’esercizio del potere.

Per questo suo approccio concreto e scientifico all’esercizio della politica e soprattutto per l’indicazione della centralità della Legge rispetto agli uomini Aristotele è ritenuto a ragion veduta il fondatore della teoria democratica nella Storia, anche se ciò che lui propone è in fondo un regime di governo misto (una sintesi tra le tre forme di governo rette).

 

Il modello di governo misto che propone Aristotele si afferma, dopo gli inizi monarchici, anche a Roma quando viene cacciato l’ultimo re e instaurata la Repubblica. Ma con l’impero e il suo successivo disfacimento per un millennio nessuno elabora più un approccio scientifico alla politica e l’unico fatto culturale rilevante e funzionale alla ripresa successiva degli studi politici e giuridici è il Corpus iuris civilis di Giustiniano[1], la raccolta di materiale normativo e giurisprudenziale che quell’imperatore affidò nel 529 d.C. al giurista Triboniano al fine di riordinare il sistema giuridico dell’Impero bizantino. Esso ha rappresentato fino all’epoca moderna la base del diritto comune europeo, sostituito soltanto agli inizi dell’Ottocento dal codice napoleonico.

Nell’Alto Medioevo si fece strada il cosiddetto “agostinismo politico”[2] che facendo riferimento al De civitate dei di Agostino d’Ippona[3] lo interpretava come un’indicazione di subordinazione del potere imperiale a quello del papato. I propugnatori di questa idea sostenevano che il potere deriva dall’alto, discende al sovrano direttamente da Dio, per rimediare al peccato originale e condurre i sudditi alla salvezza spirituale.

Il clima culturale cambiò nel XIII secolo con la traduzione in latino della “Politica” aristotelica che mandava in frantumi l’idea del potere proveniente dall’alto affermando che l’uomo è un animale sociale e che le istituzioni politiche sono prodotti naturali. Molti furono gli intellettuali che cominciarono a porsi la domanda quale fosse la migliore forma di governo, quella che era in grado di perseguire il bene comune per un maggior numero di individui. Tra questi Tommaso d’Aquino (1225 – 1274).[4]

Egli, riprendendo in pieno Aristotele, sostiene che non è compito del potere politico rimediare alla caduta e al peccato, ma se mai di organizzare la società in modo funzionale al perseguimento del bene comune. E riguardo all’assetto della forma di potere ritiene che sia preferibile una forma di governo mista nella quale il sovrano venga affiancato da un gruppo di cittadini qualificati scelti dal popolo. Ed è da questa idea della partecipazione popolare alla gestione del potere che nasce l’esperienza dei Comuni italiani e delle città anseatiche del Nord Europa.

Ma colui che soprattutto delinea la nuova frontiera laica della concezione del potere e rifiuta decisamente l’agostinismo politico e ogni forma di teocrazia è Marsilio da Padova (1285 – 1343).

Egli nella sua opera Defensor pacis sostiene che è la volontà dei cittadini ad attribuire il potere a chi governa e costui o costoro devono governare secondo una legge politica, non naturale, che miri a tutelare la pace e l’interesse dell’insieme dei cittadini. E tale legge deve essere approvata da tutti loro o da cittadini qualificati che li rappresentino.

Un’altra voce autorevole è quella di Bartolo da Sassoferrato (1314 – 1357), che appartiene ai cosiddetti Commentatori, coloro che individuano nelle norme del diritto romano la potestà di emanare statuti da parte dei Comuni italiani. Egli ritiene che tale diritto indichi dei precisi limiti al potere dei sovrani, rappresentati dai diritti naturali individuali, e vincoli la loro azione di governo al perseguimento del bene comune. Celebre in vita e addirittura venerato per tutto il Quattrocento (venne soprannominato “specchio del diritto”) viene considerato uno dei fondatori del diritto internazionale privato.

Purtroppo l’esperienza comunale si esaurisce a partire dal XIV secolo a causa delle lotte intestine  tra guelfi e ghibellini, tra le varie categorie sociali e soprattutto tra le fazioni delle famiglie più abbienti che vogliono instaurare la propria egemonia politica ed economica sulle città. E così pian piano si fa largo in molti cittadini l’idea di affidarsi al più potente dei vari contendenti, colui che può permettersi per le ricchezze accumulate di avere milizie proprie a sua disposizione e di garantire in questo modo la sicurezza ai suoi concittadini. Nascono dunque in Italia, laddove c’erano state esperienze comunali, le cosiddette Signorie e si passa da governi elettivi a governi ereditari che ricevono la consacrazione nobiliare dall’imperatore o dal papa trasformandosi in Principati.

Chi, alla luce di questi cambiamenti, ripensa l’intera vicenda repubblicana è Nicolò Machiavelli (1469 – 1527) che nelle sue opere più importanti, “Il Principe” e “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”, riprende il punto di vista aristotelico sulla forma di governo migliore. E soprattutto nella seconda, riflettendo sull’ascesa e sulla caduta della Repubblica romana, giunge alla conclusione che, nel corso della Storia, le forme di governo dei popoli si siano rivelate instabili – con l’alternarsi continuo di monarchia, aristocrazia e democrazia – proprio perché nessuna di esse, applicata in modo puro, riesce ad essere migliore delle altre. La stabilità si ottiene infatti solo con una forma di governo mista che bilanci tra di loro monarchia, aristocrazia e democrazia, riuscendo da un lato a contenere le spinte conflittuali dei vari ceti sociali e dall’altro a consentire al popolo – che lui ritiene più saggio del sovrano – di limitare il potere stesso del sovrano impedendogli di commettere abusi.[5]

Con il Principe nasce in Europa lo Stato moderno, frutto della dissoluzione del sistema feudale, del tramonto del potere imperiale e dell’affermazione delle monarchie ereditarie, in particolare Francia e Inghilterra. E lo Stato moderno esprime anche i suoi teorizzatori.

Thomas Hobbes (1588 – 1679) è il fondatore della tradizione contrattualista in filosofia politica.  Nella sua opera “Leviatano” critica la concezione aristotelica dell’uomo come animale sociale, sostenendo che nello stato di natura ogni uomo tende ad appropriarsi di tutto ciò che serve alla sua autoconservazione. Ma questo genera conflitto con gli altri individui che vogliono anch’essi la stessa cosa per cui si genera una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Da questa condizione di conflitto permanente è possibile uscire soltanto tramite un accordo tra tutti gli individui. Accordo inevitabile per garantirsi la sopravvivenza, siglato per necessità, non per virtù. Esso segna il passaggio dallo stato di natura alla società civile e prevede da parte di tutti i contraenti la cessione dei propri diritti, tranne quello all’autodifesa, a un sovrano generato dal patto stesso, sia esso un solo uomo o un gruppo di uomini. Una volta stipulato il patto, il suo potere è illimitato ed egli agisce come un sovrano assoluto, la sua volontà è legge e può decidere la vita e la morte di coloro che sono diventati suoi sudditi.

Hobbes secolarizza completamente la politica e con questa svolta materialista che intende il potere come un patto tra individui pone le basi su cui si svilupperanno le concezioni democratiche della modernità.

Anche John Locke (1632 – 1704) rientra nella tradizione contrattualista. Ma egli, nel “Primo trattato sul governo”, delinea un quadro dello stato di natura molto diverso da quello di Hobbes, in cui non c’è conflittualità, ma un ordine che deriva direttamente da Dio. Gli individui vivono in uno stato di uguaglianza e hanno già alcuni diritti inalienabili che il potere politico avrà il dovere di riconoscere e tutelare. In particolare il diritto alla vita, alla libertà personale e alla proprietà dei beni frutto del loro lavoro. Ma, nello stato di natura, non è possibile tutelare questi diritti e allora bisogna costruire una società civile per farlo: gli individui, tramite un patto, devono cedere i propri diritti al corpo politico che diventa sovrano. Ma sovrano per quel che riguarda i compiti esecutivi, perché il potere di fare le leggi rimane al popolo che lo delega ai propri rappresentanti eletti in un Parlamento su base censitaria. Pertanto il sovrano, in Inghilterra il re, viene investito dal Parlamento del potere esecutivo, ma il potere legislativo rimane saldamente nelle mani del Parlamento stesso. Che si adopera affinché vengano effettivamente tutelati i diritti naturali degli individui alla vita, alla libertà e alla proprietà. In particolare quest’ultimo, acquisito tramite il lavoro, diventa una legittima rivendicazione della nascente borghesia e sancisce che l’uguaglianza spirituale davanti a Dio può coesistere con la disuguaglianza economica.

Il modello lockiano sarà il fondamento del liberalismo moderno.

Ma il sistema di governo inglese diventa all’inizio del XVIII secolo un punto di riferimento per tutta l’Europa. Chi contribuisce maggiormente a diffonderlo è Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689 – 1755) con il suo libro “Lo spirito delle leggi”. In esso egli contrappone le istituzioni inglesi alla monarchia di Luigi XIV e analizza le tre principali forme di governo – monarchia, repubblica e dispotismo – mettendo a confronto esperienze politiche di diverse epoche storiche ed evidenziando la correlazione esistente tra ordinamento giuridico e politico e fattori di natura economica, religiosa, climatica e di costume.

Secondo il Montesquieu la repubblica è legata al passato e a comunità politiche di limitata estensione e non garantisce la libertà politica dei cittadini, che non è fare ciò che si vuole – come sembra che il popolo faccia nelle democrazie, in quanto in esse detiene sia il potere legislativo che quello esecutivo – ma quello che le leggi permettono. Egli ritiene infatti che la libertà sia meglio garantita da un monarca che, esercitando soltanto il potere esecutivo, vigila sulle leggi approvate dal popolo in Parlamento e le applica secondo il loro effettivo spirito. Il suo riferimento concreto è la monarchia inglese ed è riflettendo sul suo ordinamento che Montesquieu elabora la teoria della separazione dei poteri, in base alla quale i tre poteri fondamentali dello Stato – legislativo, esecutivo e giudiziario – devono fare capo a ordini diversi, autonomi, capaci di limitarsi a vicenda.

Di Contratto ne parla anche Jean Jacques Rousseau (1712 – 1778), filosofo ginevrino. Ma si tratta di tutt’altro contratto rispetto a quelli di Hobbes e di Locke. Egli infatti elabora, tenendo conto dell’esperienza del contrattualismo precedente, una moderna teoria politica basata sull’idea della sovranità del popolo. Innanzitutto contraddice ciò che sosteneva Hobbes, perché secondo lui lo stato di natura non è “la guerra di tutti contro tutti”, ma addirittura una condizione felice nella quale ciascun individuo è in grado di soddisfare i propri bisogni semplicemente assecondando le leggi di natura. Purtroppo questa condizione di felicità viene guastata dalla civilizzazione e dal progresso, in particolare con la scoperta dell’agricoltura e l’istituzione della proprietà, e si trasforma in uno stato di grande infelicità collettiva nel quale esplode la conflittualità degli individui. Occorre, dunque, individuare uno stadio intermedio tra stato di natura e società civile (intesa come società civilizzata) e questo può essere la società politica. Per attuare questo tipo di società gli individui devono rinunciare completamente ai loro diritti naturali a favore del corpo politico che glieli restituisce sotto forma di diritti civili. La comunità politica che ne risulta è una repubblica nella quale la sovranità appartiene al popolo e le leggi che essa emana sono espressione della volontà generale, che non coincide con la somma delle volontà particolari o con la volontà di tutti, ma le trascende in quanto è stata resa possibile dalla rimozione delle volontà soggettive. Essa persegue il bene comune, che non è ciò che gli uomini effettivamente vogliono, ma ciò che devono volere a garanzia dei diritti di ciascuno di essi.

Dal punto di vista istituzionale Rousseau sostiene che il popolo deve esercitare la sua sovranità direttamente, perché soltanto così può esprimere la sua volontà reale. Tuttavia in stati molto estesi, per ragioni puramente tecniche, essa deve necessariamente essere delegata a dei suoi rappresentanti. Per evitare, però, che questi agiscano di testa propria e non rispettino la volontà popolare occorre introdurre delle forme di controllo sulla loro attività.

Questa riflessione del filosofo ginevrino ribadisce ciò che afferma Aristotele nella “Politica”: per sottrarsi al rischio di una degenerazione nella tirannide della maggioranza e quindi per consentire alla politica di perseguire il bene comune è necessario introdurre qualche meccanismo idoneo a condizionare coloro che fanno politica. Perché la società politica funzioni ci deve dunque essere – secondo Rousseau, ma anche secondo Aristotele e i teorici della forma di governo mista – una selezione di coloro che vanno ad esercitare il potere oppure bisogna prevedere una serie di norme a cui le decisioni politiche devono conformarsi.

 

Le idee di Locke e in generale dei giusnaturalisti sono alla base della Rivoluzione Americana. Nella premessa della Dichiarazione di Indipendenza si dice testualmente “che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”. E questa ascendenza ideale a Locke si traduce anche nell’organizzazione dell’assetto del potere repubblicano che nella ripartizione Presidente, Congresso e Corte Suprema ripropone il modello inglese della separazione dei poteri, Re, Parlamento e Giudici. Esso è così impostato in funzione della tutela dei diritti inviolabili degli individui – Vita, Libertà e perseguimento della Felicità – che riecheggiano la triade lockiana Vita, Libertà e Proprietà, in quanto nello spirito coloniale americano la Felicità è soprattutto rappresentata dal possesso individuale della terra.

Ma su come si debbano perseguire politicamente questi ideali si delineano presto nella Repubblica americana due punti di vista.

Da un lato ci sono le idee di James Madison (1751 -1836), uno dei Padri fondatori e quarto presidente degli Stati Uniti, che sostiene che la sovranità popolare si debba esprimere sempre e comunque tramite rappresentanti e mai direttamente, in quanto la democrazia diretta rischia di tradursi in conflittualità prolungata tra fazioni e in tirannide della maggioranza. Inoltre, colui che rappresenta il popolo non deve farsi portavoce esclusivo di coloro che l’hanno eletto, ma fungere da filtro di quelle istanze in un dialogo continuo con quelle portate da altri al fine dell’unificazione del corpo politico e della preservazione del pluralismo. La sua è una concezione aristocratica della rappresentanza, in base alla quale tutti gli eletti devono innanzitutto pensare al bene della nazione, cioè il bene comune, e non a quello di una parte di essa. Che si rifà in qualche modo al principio aristotelico secondo il quale, per evitare che il potere popolare diventi distruttivo, occorrono dei meccanismi di correzione della sua volontà.

Anche per quel che riguarda l’assetto istituzionale della Repubblica americana Madison, insieme ad Alexander Hamilton[6] e John Jay[7], è un convinto sostenitore della Federazione di stati, cioè una vera e propria Unione di Stati, a cui attribuire personalità giuridica internazionale, sulla base di una Costituzione federale che preveda una divisione di competenze tra il governo federale e i governi degli Stati federati. Ci devono essere pertanto due livelli di governo, uno dei singoli Stati e l’altro federale, indipendenti, ma coordinati tra di loro. Ogni Stato esercita i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, ma nei limiti della Costituzione federale. Le decisioni di interesse generale dell’Unione spettano a un Congresso unico e nazionale le cui prerogative e modalità di elezione Madison, Hamilton e Jay, sotto lo pseudonimo di Publius, descrivono nei “Federalist Papers”. E per rispondere alle accuse e ai timori di perdita di sovranità dei singoli Stati essi elaborano una serie di forme di controllo e di contrappeso degli organi costituzionali che garantiscano il rispetto delle diverse competenze.

Di tutt’altro stampo è la posizione di Thomas Jefferson, Padre fondatore e terzo presidente degli Stati Uniti. Egli ritiene infatti che i rappresentanti eletti dal popolo debbano attenersi fedelmente ai programmi per cui sono stati votati e non debbano necessariamente mediare la loro posizione con altri per conseguire quell’unità del corpo politico di cui parla Madison. È un sostenitore del Confederalismo, fino a spingersi al punto di ritenere legittima l’eventuale volontà dei singoli Stati di recedere dalla Confederazione stessa. E riguardo alle Costituzioni, sia quella dei singoli Stati che quella Federale, ritiene che non debbano essere considerate strumenti giuridici rigidi, esemplificativi e fondanti, ma piuttosto suscettibili di modifiche in base alle nuove esigenze dei popoli. In particolare esse non devono condizionare le generazioni successive che probabilmente avranno dei punti di vista politici diversi rispetto ai Padri fondatori. La stessa cosa pensa del debito pubblico che l’Unione ha accumulato durante i primi anni della sua esistenza, che è una costante preoccupazione del suo mandato presidenziale durante il quale si adopera per ridurlo drasticamente.. Su questi due temi, stabilità nel tempo delle istituzioni e debito pubblico, si scontra spesso con il suo compagno di Partito e suo vicepresidente nel secondo mandato James Madison (c’è un ampio carteggio al proposito tra i due), che invece sostiene che la stabilità istituzionale sia fondamentale per cementare una nazione e tutelare i diritti inalienabili del suo popolo. Essa dà fiducia ai cittadini e diventa con il passare del tempo un patrimonio per tutte le generazioni, e non solo uno strumento giuridico, ma anche una Memoria collettiva. E la stessa cosa pensa del debito pubblico, che non considera una cambiale pendente sulla testa delle nuove generazioni, ma se mai un necessario investimento soprattutto per esse.

Le posizioni di Jefferson sono quelle proprie del ceto agrario del sud dell’Unione, che non vuole cedere la propria autonomia e critica fortemente il massiccio intervento di denaro pubblico per lo sviluppo industriale del Nord. Temi che scatenano cinquant’anni più tardi la guerra di Secessione.

 

Come  Locke e il giusnaturalismo sono i fondamenti della Rivoluzione Americana, l’Illuminismo e i suoi principi – libertà, uguaglianza e fratellanza – sono gli ispiratori della Grande Rivoluzione Francese del 1789.

La società francese dell’ancien régime era suddivisa in tre ordini sociali, nobiltà, clero e terzo stato, e il 98 % della popolazione rientrava in quest’ultimo che accomunava i sudditi dalla ricca borghesia al sottoproletariato. In pratica tutti coloro che erano esclusi dai privilegi di cui godevano la nobiltà e il clero. E nel corso dei secoli la monarchia assoluta aveva teso a indebolire sempre di più i legami comunitari presenti all’interno di questo tessuto sociale favorendo con la sua politica accentratrice il nascere di una cultura individualista.

È su questa che fanno leva gli Illuministi, mettendo al centro colui che deve essere un cittadino e non più un suddito, detentore naturale di tutta una serie di diritti e di doveri. Ed è l’insieme dei cittadini che costituiscono la Nazione che deve detenere il potere sovrano, non una dinastia regia che vive sulla sua torre eburnea, completamente estranea alla realtà sociale del paese.

Gli eventi che portano la Francia alla Rivoluzione sono tutti segnati da questa nuova consapevolezza di essere dei cittadini che anima i rappresentanti del terzo stato. E il primo atto rivoluzionario è proprio quando essi, durante la riunione degli Stati Generali del 5 maggio 1789, si proclamano “deputati dei Comuni” rifiutando il titolo di rappresentanti di un ordine. E così è anche quando si costituiscono in Assemblea Nazionale e quando poi giurano nella palestra della Pallacorda “di non separarsi mai e di riunirsi ovunque le circostanze l’avessero richiesto, fino a che non fosse stata stabilita e affermata su solide fondamenta una Costituzione per il regno francese”.

 Ma l’atto che sancisce la centralità dell’individuo nel processo rivoluzionario francese è la promulgazione il 26 agosto di quell’anno della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Già nella premessa si dice che “l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi” e che i diritti naturali dell’uomo sono “inalienabili e sacri” E nello specifico degli articoli si dice che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”(art. 1), che “questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”(art. 2), che “il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”(art. 3), che “la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”(art. 4), che “la Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione”(art. 6) , che “nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte”(art. 7), che “nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge”(art. 10) e che “la libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi per dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge” (art. 11).

Possiamo dire che la Dichiarazione è già una prima bozza di quella che sarà poi la Costituzione del 1791 e che i principi a cui è improntata sono quelli della tutela dei diritti naturali dell’individuo (sulla scia di Locke e di Rousseau) e che tale tutela deve essere garantita dalla Legge, non dagli uomini (come sosteneva già Aristotele). Inoltre l’indicazione della Nazione come personificazione della volontà generale è un preciso riferimento a Rousseau.

Ecco che si ripropone anche nella Francia rivoluzionaria il nodo teorico del rapporto tra partecipazione e rappresentanza. Da un lato infatti troviamo personaggi come Emmanuel Joseph Sieyès (1748 – 1836) e Jacques Pierre Brissot (1754 – 1793) fautori della separazione tra la fonte della sovranità e il suo esercizio in base alla convinzione che ogni rappresentante rappresenta la volontà della Nazione e non può essere vincolato al perseguimento degli interessi di una parte. Dall’altro lato Nicolas de Condorcet (1743 – 1794), filosofo illuminista, che si preoccupa di canalizzare il dissenso, proveniente soprattutto dai distretti, attraverso forme regolate di partecipazione e sostiene che la formazione della legge è il risultato di una partecipazione a più livelli e implica l’esercizio diretto della sovranità attraverso il referendum e la petizione, e Maximilien de Robespierre (1758 – 1794) che, in disaccordo con i criteri di rappresentanza democratica indicati nella Costituzione del 1791 (il diritto di voto era riservato solo a coloro che avevano superato i 25 anni e pagavano tasse elevate), sostiene che i rappresentanti devono esprimere la volontà autentica del popolo sovrano e non hanno pertanto un’autonoma volontà di scelta. E perché ciò avvenga devono essere sottoposti costantemente al controllo popolare. Egli ritiene infatti che l’autentica volontà del popolo espressa in Assemblea non debba mai farsi omologare dal potere costituito, ma debba mantenere l’indipendenza e la potenzialità necessarie per opporsi e sovvertire tutto ciò che le venga imposto in nome della volontà astratta della Nazione.

Questi due punti di vista, quello democratico rappresentativo, addirittura con esiti specialistici di ruolo, e quello democratico diretto, con la rappresentanza come espediente tecnico di manifestazione autentica e rigidamente controllata della volontà popolare, si combattono durante tutto il periodo rivoluzionario e, sebbene diventino un elemento di riflessione importante per tutti coloro che si apprestano a intraprendere nei loro paesi un percorso democratico, segnano anche con la loro inconciliabilità il destino della Rivoluzione: con il colpo di stato del 9 Termidoro prende il potere una classe dirigente che limita l’esercizio della democrazia e favorisce la nuova borghesia arricchita a discapito delle classi popolari.

 

[1] Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano (482 –  565) , meglio conosciuto come Giustiniano I il Grande, è stato imperatore bizantino dal 527 fino alla sua morte. Fu l’ultimo imperatore a tentare di ricongiungere all’Impero romano d’Oriente parte dei territori dell‘Occidente romano con la cosiddetta guerra greco-gotica (535 – 553) contro gli Ostrogoti che dominavano l’Italia, prima con Teodato e poi con Vitige. Ma il dominio bizantino sulla penisola durò pochi anni, perché a partire dal 568 i Longobardi cominciarono a invadere l’Italia.

[2] L’agostinismo politico portò a pensare che la realizzazione di quello che per Agostino era un concetto puramente mistico, la “città di Dio”, dovesse tramutarsi nella realizzazione di un’istituzione politica, cioè uno Stato teocratico della Chiesa.

[3] Aurelio Agostino d’Ippona (354 – 430), conosciuto anche come sant’Agostino, è Padre, dottore e santo della Chiesa cattolica. Nel suo libro De civitate dei  afferma che “«l’amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l’amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al di sopra di tutto la gloria di Dio. […] I cittadini della città terrena son dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l’uno all’altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale.»

[4] Tommaso d’Aquino, venerato come santo dalla Chiesa cattolica, è stato uno dei principali esponentl della Scolastica, punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica.

[5] Famosa l’interpretazione dalla parte del popolo che ne dà il Foscolo ne “I sepolcri”:  … Io quando il monumento // vidi ove posa il corpo di quel grande // che temprando lo scettro a’ regnatori // gli allor ne sfronda, ed alle genti svela // di che lagrime grondi e di che sangue; //

[6]Alexander Hamilton (1755 – 1804) è ritenuto uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti di cui fu il primo Segretario del Tesoro. Fu il promotore della necessità di una Banca pubblica, che avesse potere di erogare credito come quelle private, affinché la politica fosse autonoma nelle sue decisioni sui piani di crescita dell’economia.

[7] John Jay (1745 – 1829) è ritenuto uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti. È stato presidente del Congresso Continentale e successivamente della Corte suprema. Come governatore di New York fece approvare nel 1799 l’emancipazione di tutti gli schiavi dello Stato omonimo.

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