Il lockdown della PSA

La Peste suina africana (PSA) è una malattia virale che colpisce suini e cinghiali. È altamente contagiosa e spesso letale per gli animali, ma non è trasmissibile all’uomo. Si diffonde attraverso il contatto con animali infetti e il virus può sopravvivere in ambiente esterno rimanendo vitale fino a 100 giorni. Un’eventuale epidemia di PSA sul territorio nazionale avrebbe pesanti ripercussioni sul patrimonio zootecnico suino sia per la salute degli animali che per le prospettive del settore produttivo suinicolo a cui sarebbe vietata la commercializzazione internazionale di animali vivi e dei prodotti derivati.

Cinghiale colpito da peste suina africana (PSA)

Il primo capo infetto è stato trovato morto nel comune di Ovada, provincia di Alessandria, il 7 gennaio 2022. A tutt’oggi i cinghiali trovati infetti nella zona rossa tra Piemonte e Liguria sono 66.  

L’introduzione di cinghiali a scopo venatorio è iniziata nei lontani anni’70 e da allora la specie, costituita soprattutto da porcastri, ha proliferato enormemente rafforzata da altre introduzioni periodiche. Il suo impatto sul territorio in generale e, in particolare, sulle attività agricole e pastorali della zona è stato devastante, con danni ripetuti alle colture e ai prati da sfalcio. Nel tempo, vista la persistenza dei danni, si è cominciato a parlare di recinti elettrici e di risarcimenti, mai adeguati e burocraticamente difficili da ottenere, comunque inaccettabili da parte di chi lavora per le sue colture e per le sue bestie e da queste vuole i suoi frutti. E purtroppo spesso le istituzioni sono state latitanti e non sono state in grado di difendere il lavoro di chi ancora, nonostante le difficoltà, tiene viva la memoria della terra e argina con la sua cura il degrado incipiente dei nostri territori.

A tutto questo si è aggiunto man mano negli anni il dilagare del mito della wilderness proprio dell’ambientalismo cittadino che ha sostenuto entusiasticamente i vari “progetti lupo” come esempio estremo di recupero della biodiversità animale, anche qui senza che nessuno mai prendesse in considerazione ciò che avrebbe significato quella presenza per la già precaria economia pastorale delle nostre valli. Dopo di che, come se già non bastasse, a partire dal gennaio scorso ci è piombata addosso come un macigno la scoperta di casi di PSA tra i cinghiali dell’Appennino ligure-piemontese che ha fatto scattare immediatamente una sorta di militarizzazione della nostra zona, sancita con l’ordinanza del Ministro della Salute, d’intesa con il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, del 13 gennaio 2022, che, oltre alle misure di prevenzione previste per gli allevamenti di suini, prescrive interdizioni al movimento delle persone sui territori per limitare la diffusione del virus (pare che veicoli anche attraverso le suole delle scarpe e i pneumatici) introducendo una sorta di nuovo lockdown.

Si consente il passaggio sulle strade asfaltate, anche se attraversano boschi, ma non su quelle bianche e sui sentieri segnati che attraversano ugualmente boschi. Eppure l’etologia contemporanea sa che i cinghiali ormai preferiscono zone periferiche di città, regolarmente asfaltate, e luoghi di conferimento di rifiuti tipo bidoni della spazzatura che notoriamente non sono sperduti nelle campagne. E se è vero che  non sono loro la causa della PSA, ma se mai le vittime, se non fossero stati introdotti in quegli anni lontani o se fossero stati eradicati qualche anno fa quando alcune associazioni agricole e singole personalità lo suggerivano, non ci troveremmo in questa disastrosa emergenza.

Fatte queste considerazioni, come persone che vivono a vario titolo su questi territori, visti gli ultimi sviluppi della vicenda che prevedono addirittura la recinzione della zona infetta, chiediamo espressamente alle autorità competenti di valutare il tenore di queste nostre osservazioni:

  1. dal momento che l’ordinanza del Ministero della Salute del 13 gennaio 2022 ha un carattere assoluto tipico del documento burocratico prodotto da tecnici a tavolino, chiediamo che  essa – che doveva innanzitutto essere calata nei territori in base alla loro peculiarità morfologica – consenta alle popolazioni locali e ai potenziali visitatori di muoversi anche lungo strade bianche e sentieri ufficiali indicati con apposita segnaletica; se questo lo fanno i tecnici e il personale di sorveglianza, non si capisce perché non lo possano fare anche gli altri, nel rispetto di alcune norme minime di prevenzione (ad esempio, la disinfezione delle suole delle scarpe con prodotti di comprovata efficacia);

  2. fare un’ordinanza perentoria e assoluta come quella che è stata fatta, dal momento che è impossibile farla osservare in modo coercitivo vista l’assenza di forze necessarie all’uopo (aggiungeremmo anche la vergogna di farla osservare in quanto spesso nemmeno condivisa da loro), incrina ulteriormente la credibilità delle nostre istituzioni democratiche che emanano norme pur sapendo che non verranno rispettate e fanno cadere nel ridicolo chi si ostina a farlo per rispetto nei confronti delle istituzioni;

  3. perché non sono state allertate immediatamente le squadre di cacciatori operanti sul territorio in modo da cominciare a fare abbattimenti mirati, circoscritti a determinate zone, effettuando braccate con una densità di partecipanti tale da garantire la chiusura ermetica dell’accerchiamento? L’organizzazione simultanea e concentrica di tali battute avrebbe forse garantito dalla dispersione di capi e dalla conseguente diffusione del contagio che il fatto di non essere intervenuti tempestivamente sta invece evidenziando;

  4. non capiamo le misure previste in modo indiscriminato per tutti gli allevamenti di maiali. Secondo noi bisogna distinguere tra allevamenti da ingrasso e allevamenti di trasformazione in proprio: se nei primi, infatti, vista la movimentazione dei capi verso i luoghi di trasformazione i rischi di contagio sono forti, per i secondi una corretta profilassi aziendale e la trasformazione in loco garantiscono il controllo del prodotto, oltretutto destinato per lo più a un mercato locale; queste realtà produttive rischiano di chiudere per sempre, anche perché non sono in grado economicamente di adeguarsi alle misure di biosicurezza che la situazione contingente richiede; riteniamo dunque necessario  che vengano destinati fondi pubblici congruenti affinché esse possano riprendere la loro attività, in genere di eccellenza produttiva, a norma di legge continuando ad essere un presidio per i territori su cui operano;

     
  5. la realizzazione del mega progetto di recinzione della zona infetta (230 Km di barriera con altezze di almeno 150 cm fuori terra e 50 cm di profondità) che si svilupperà tra le province di Alessandria e di Genova e che dovrebbe chiudere lo spazio compreso tra le autostrade A26 e A7 ( che finora, secondo i tecnici, avrebbero contribuito a fare da barriera alla diffusione del virus) se è senz’altro di pratica esecuzione in ambito orografico pianeggiante, lo è tutt’altro nel nostro territorio preappenninico per la presenza di numerosi valloni, torrenti e calanchi che ne interromperebbero inevitabilmente la continuità;

  6. i tempi di messa in opera dell’impianto ( secondo il crono programma 49 km dovrebbero essere già pronti entro aprile ed entro agosto si dovrebbe arrivare a 116 Km) consentiranno ai cinghiali di riprodursi regolarmente e quindi di moltiplicare la densità dei soggetti ricettivi della peste; inoltre, gli eventuali abbattimenti programmati rischierebbero di essere effettuati nel periodo di massima vegetazione del bosco con un aumento considerevole delle difficoltà venatorie;

  7. i branchi di cinghiali presenti nel nostro territorio sono spesso composti da un elevato numero di individui con la presenza di animali di grossa taglia in grado di danneggiare la recinzione nei punti del loro transito abituale verso i luoghi di abbeverata, di bagni di fango e di raccolti pendenti; non è ipotizzabile che gli animali rinuncino ai loro bisogni primari per la presenza della recinzione e comunque, vista la morfologia del nostro territorio, utilizzerebbero per il suo superamento quei varchi inevitabili lungo i torrenti e i valloni più profondi;

  8. l’eventuale ausilio di recinzione elettrica (40 cm da terra posta a difesa della recinzione metallica) richiederebbe una manutenzione costante per tenerla libera dalla vegetazione che la ricoprirebbe riducendone l’efficacia;

  9. la gestione degli eventuali varchi per consentire gli spostamenti degli umani per fini agricoli o logistici in generale suscita non poche perplessità circa la possibilità di presidiarli in modo adeguato ed efficace.

Concludiamo dicendo che, se come trapela da più parti, la recinzione deve essere fatta perché ce la chiede l’Europa – ma tutti sanno, come noi, che non funzionerà – pur come al solito scandalizzati dall’uso reiterato in questo nostro paese de “il fine giustifica i mezzi”, fate pure ’sta recinzione, ma esaudite anche le richieste sensate e concrete degli allevatori e di chi risiede e lavora tutto l’anno in questi nostri territori.

Beppe Galmozzi, veterinario

Ottavio Rube, agricoltore

Gianni Repetto, filosofo del Territorio, già presidente del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo dal 2001 al 2011

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