Ruralità e subalternità

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RURALITÀ E SUBALTERNITÀ[1]

Prendo spunto per una rilettura delle vicenda lazzarettiana dall’intervento di Francesco Pitocco, che mi pare puntualizzi efficacemente il nodo centrale, dal punto di vista storiografico, della vicenda stessa: la sua diversità rispetto ai criteri di classificazione elaborati nel tempo dalla cultura borghese. Questa diversità, e la conseguente impossibilità di inscrivere l’esperienza in quei modelli (“rivoluzionarismo primitivo”(Hobsbawn)[2], “movimento nettamente sociale” (Sereni)[3], “miscuglio bizzarro tra una componente religiosa e una socialistoide” (Gramsci)[4], ecc…) trova il suo fondamento nella cultura contadina che, se a partire dal Medioevo vive una condizione di subalternità economica, non è altrettanto vero che ne viva una anche di carattere culturale, basti pensare al persistere, nelle forme più disparate, della memoria orale e della ritualità religiosa popolare. È infatti troppo facile e semplicistico liquidare un mondo complesso e ricco di fermenti comunitariamente condivisi come la società rurale con lo stereotipo della sottomissione spirituale e culturale al clero e alla Chiesa. Che se c’è, c’è “obtorto collo”, necessariamente dovuta, solo per non incorrere nelle punizioni che il potere temporale e quello spirituale infliggono di comune accordo (si pensi alla dolorosa storia dell’Inquisizione, dalle eresie medievali, di stampo assolutamente popolare, alla idiosincratica caccia alla streghe che ha lambito finanche l’epoca moderna).

Innanzitutto va chiarito che, per quel che riguarda i rapporti di potere, il mondo contadino, per quanto abbia lottato a lungo contro la servitù nelle campagne, è più legato ideologicamente alla società aristocratica che non a quella borghese. Nella prima, infatti, il rapporto è più diretto, non assolutamente economico e talora anche condiviso; sicuramente intriso di soggettivismo per cui il rapporto tra le persone ha ancora un senso e il patto d’onore ne è l’espressione più alta. L’organizzazione borghese delle campagne, invece, si basa su regole economiche inderogabili, bada ai conti e chi non ottiene il risultato viene estromesso dal processo produttivo. Inoltre tale organizzazione pone fine a quella che è stata l’ancora di salvezza economica delle comunità rurali nei secoli, il cosiddetto sistema delle “terre comuni” o usi civici. Spazzati via essi, la famiglia contadina perde qualsiasi margine di indipendenza dal potere economico e diventa per la proprietà borghese soltanto braccia da sfruttare.

Ma se questo approccio o sguardo dall’esterno è ormai assodato che è stato un limite della cultura borghese, vediamo se e come è possibile configurare uno sguardo dall’interno della cultura – e il termine lo uso a pieno titolo e in tutta la sua estensione – contadina.

A proposito di essa, ci pare che nel tempo si siano delineate due possibili linee evolutive nel percorso di affrancamento dalla subalternità.

La prima, legata all’essere, nettamente superiore nelle sue finalità etiche, fortemente identitaria, ha espresso una volontà sia di emancipazione economica “tout court”, sia soprattutto di “fondazione” di un modello comunitario di convivenza legato alla tradizione delle comunità di villaggio e del Cristianesimo primitivo. Quando si è realizzata nella storia, è avvenuto per il tramite di uomini dall’evidente carisma profetico, come nel caso del Lazzaretti (ma si pensi anche a Fra’ Dolcino[5] e a Tommaso Müntzer[6]).

La seconda, legata all’avere, alla materialità, intesa come principio economico, ma anche filosofico, si è delineata nel tempo come un processo di graduale deculturazione dalla ruralità e di acculturazione secondo modelli di organizzazione borghese integrata nella quale rientrano e la ricerca del profitto della borghesia imprenditrice e le rivendicazioni politico-economiche della classe operaia nella sua fase più matura. Ci pare questo l’approdo odierno della storia del movimento operaio nel quale l’omologazione consumistica ha distrutto ogni parvenza di identità di classe, senza scomodare il mito della coscienza di classe.

L’esperienza lazzarettiana si sviluppa dunque secondo il primo modello. David conosce e frequenta, in quella che lui definisce la sua “missione”, molte persone di svariato livello sociale e culturale e da tutti riceve o prende qualcosa sul piano della costruzione di una sua “cultura”, nella quale è possibile identificare queste inferenze o mutuazioni. Ma, nei momenti cruciali della sua vicenda, nessuno riesce a condizionarne, nonostante gli svariati tentativi, i passaggi e chiunque ci provi deve arrendersi alla sua determinazione e autonomia e non può fare altro che allontanarsi da lui (David non allontana, non ha bisogno di farlo, sicuro com’è di ciò che sta facendo).

La sua percezione sia della spiritualità sia del sociale è fortemente legata alla storia della comunità locale, alle pratiche di vita collettiva che, fino all’introduzione del capitalismo nelle campagne, erano state una garanzia per le plebi rurali. Ma la sua rivendicazione di identità non è mai di stampo settario, e se è permeata di sociale lo è in modo profondo, non soltanto nei termini del rapporto di produzione, ma anche e soprattutto del legame con il territorio e con la sua cultura millenaria. Territorio che diventa terra di Sion, Nuova Gerusalemme, sette città eternali, monte Labbro-Labaro, in una sorta di consacrazione che lo emancipa da ogni dipendenza storica.

La proposta di David è totalitaria, definitiva, non più foriera di sviluppi ed evoluzioni. Essa garantisce il vero benessere, il necessario complemento di anima e corpo. E si ammanta scenograficamente della tradizionale ritualità delle Confraternite, della rappresentazione sacra come atto di identificazione popolare nella storia di Nostro Signore.

Così facendo Lazzaretti compie un atto culturale forte e segna un modello che è un discrimine, un limite invalicabile per aristocratici e borghesi che non amano ammantarsi di costumi nelle sacre rappresentazioni. Se lo fanno, lo fanno laicamente a Carnevale, “semel in anno licet insanire”[7], ma il giorno dopo è tutto finito, si torna alla normalità produttiva. Il contadino, invece, l’uomo di popolo, ci si abbandona a queste “mascherate”[8] come se si trattasse di un inveramento dei suoi sogni e delle sue credenze. La sua fede è letterale, fortemente identificativa, scevra da astrazioni spiritualistiche. Ed è questo che fa David attingendo a piene mani dal Nuovo e dal Vecchio Testamento. Ecco allora la ragione della meticolosità delle descrizioni e delle prescrizioni che, come nella cultura ebraica[9], hanno un valore sostanziale, non soltanto simbolico. Come a dire che il sacro e il profano hanno le loro regole millenarie e non c’è niente di nuovo da inventare, basta assecondare fedelmente le Scritture.

Pertanto, se si vuole definire “rivoluzionario” il pensiero di Lazzaretti lo si faccia per queste ragioni, non per altre. Per questa sua resistenza all’omologazione evolutiva che ciascuna delle classi dominanti, anche quella più reazionaria, cerca di realizzare. Con lui, infatti, non ha senso parlare di “movimento prepolitico”[10], di “rivoluzionarismo primitivo”[11] e via di questo passo. Nel suo pensiero si saldano passato, presente e futuro in un tempo solo. Del resto la parola di Dio è totale, immediata, non ha bisogno di evoluzioni. E così non ci sono classi che devono emanciparsi e sconfiggerne altre per farlo, perché gli uomini sono tutti, da sempre, uguali davanti al dio dei cristiani. È questo il principio letteralmente fondante della dottrina lazzarettiana.

Qualcuno potrebbe tacciare tutto questo come una delle tante varianti di interclassismo totalitario che il pensiero dell’800 e del ’900 ci ha proposto[12]. Ma tale valutazione sarebbe giustificata qualora nella concezione di Lazzaretti i rapporti economici rivestissero primaria importanza e l’organizzazione sociale conseguente li rispecchiasse. Il suo invece è un punto di vista assolutamente religioso e l’uguaglianza un concetto primitivamente cristiano in cui la comunanza dei beni è comunione spirituale innanzitutto. E l’età del diritto sulla terra è soltanto il preludio-preparazione spirituale al Regno di Dio, non un punto d’arrivo socioeconomico secondo i desideri materiali dell’umanità. Ma niente di più naturale che tutto ciò avvenga sulla base della tradizione solidaristica delle campagne in cui ogni evento individuale è patrimonio collettivo e diventa condiviso, nel bene e nel male, al di là di qualsiasi conflitto personale.

Quando la cultura borghese ha parlato delle campagne, l’ha fatto sui ruderi della civiltà contadina, ormai dilaniata e intaccata dal nuovo concetto borghese del profitto, e anche così ne ha dato una rappresentazione parziale, unilaterale, dai tratti miticamente barbari. Le ha negato essenzialmente la condivisione di un’identità positiva, di sentimenti universali ed elettivi di cui riteneva di avere l’esclusiva. Ha ritenuto, presuntuosamente, di dover tracciare per essa la strada dell’emancipazione rendendola vittima sacrificale del processo di modernizzazione industriale. Non si è mai preoccupata di capire se era proprio questo che voleva la gente di campagna oppure se ancora una volta vi era stata costretta da una stringente necessità. E le si è posta come modello, inarrivabile, divorante, sempre più scimmiottato in un delirio di consunzione. Acculturazione impropria, potremmo definirla.

Ma in un contesto di questo tipo, di radici spezzate, di valori capovolti, di progressivo straniamento dal territorio, che senso può ancora avere riflettere sulle peculiarità dell’esperienza lazzarettiana e su una sua presunta attualità?

Innanzitutto ci preme sottolineare la sua radicale antitesi agli sviluppi della contemporaneità. Se infatti questa è l’esasperazione parossistica dell’individualismo, la visione del mondo di David Lazzaretti è assolutamente collettiva, unitaria, e in essa non ha senso un destino che non riguardi tutti. Il corpo sociale è coeso, non ragiona in termini di “costi fisiologici” per cui qualcuno deve pur pagare il prezzo del benessere degli altri. Una concezione che il mondo rurale si porta dietro fin dall’antichità tribale e che entra in crisi solo nel momento in cui cambiano i rapporti di produzione anche nelle campagne.

Nel pensiero di David, dunque, questo senso di corresponsabilità e di condivisione del disagio degli altri come “pane quotidiano” è immediato, naturale, frutto di una tradizione plurimillenaria; ma è anche l’inveramento consapevole di tanti enunciati teorici delle ideologie progressive e socialiste degli ultimi due secoli, sulla base però di un principio che le filosofie positive e materialiste hanno sempre tacciato di soggettivismo e quindi di impraticabilità in un progetto politico di vasta scala: la concezione cristiana dell’amore. Sottolineo la concezione cristiana, perché solo in essa si trova il sublime paradosso “ama il tuo nemico”[13] che è la forma più ardita e dirompente di pacifismo non violento. Lazzaretti vive e pratica tutto questo, ovunque si rechi. Anche presso la Curia papale. Anche davanti al Sant’Uffizio. Non ha risentimento nei confronti dei membri del tribunale, sa che “non sanno quello che fanno”[14]. E va per la sua strada, che è la strada della consapevolezza cristica, di chi capisce che solo il sacrificio personale estremo, sacrificare se stesso per tutti/tutto, può essere il segno della nuova alleanza.

Sta qui il nocciolo duro dell’esperienza lazzarettiana, in questo proporre come unico elemento di salvazione l’annullamento dei bisogni individuali in quelli collettivi e di farlo sull’esempio/identificazione con il Cristo, il quale non bada a se stesso (uomo), ma si fa carico dei problemi degli altri (dio).

Rilanciare quest’idea del sacrificio, del vivere più per gli altri che per sé, è senz’altro uno dei modi per attualizzare più concretamente il pensiero lazzarettiano anche nelle forme della convivenza sociale. Perché, parafrasando Brecht, oggi più che mai il mondo ha bisogno di eroi[15], questo tipo di eroi, quegli “uomini integrali”[16] che preconizzava un altro grande amiatino, padre Ernesto Balducci, per riportare al centro dell’attenzione i problemi dell’essere e per riproporre su basi umanistiche, al di fuori di ogni determinismo, l’idea di una società solidale che abbia nell’avere soltanto uno strumento e non un fine.   


[1] Pubblicato in Eresia politica e religiosa nell’opera di David Lazzaretti,  Floriana Colao, Francesco Pitocco, Anna Scattigno, Antonio Moscato, Gianni Repetto, Piero Innocenti, Carlo Goretti, Effigi, Arcidosso 2010.

[2] Hobsbawm, Eric J., I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale (1959), Torino, Einaudi, 1966, cap. IV

[3] Sereni, Emilio, Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino 1975.

[4] Gramsci, Antonio, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1954

[5] Fra Dolcino (1250 circa –  1307) è stato un predicatore millenarista italiano. Nel 1291 entrò a far parte del Movimento degli Apostoli fondato da Gherardo Segalelli e, dopo la morte sul rogo di questi, fondò un movimento proprio, detto per l’appunto movimento dei dolciniani, con il quale nel 1304 si stabilì in Valsesia. Accusato di eresia dall’Inquisizione, venne organizzata contro di lui una crociata dal vescovo di Vercelli Raniero degli Avogadro. Catturato sul monte Rubello nella settimana santa del 1307, fu bruciato vivo sul rogo a Vercelli il 1° giugno dopo aver assistito all’esecuzione della sua compagna Margherita e del suo luogotenente Longino.

[6] Pastore protestante riformato che, in contrasto con Lutero, radicalizzò le sue posizioni riformatrici teorizzando sul piano teologico un rapporto diretto con Dio al di là delle Scritture, su quello politico un’idea di teocrazia in cui i santi erano chiamati a governare il mondo e su quello sociale un’uguaglianza tra tutti gli uomini. Partecipò con Heinrich Pfeiffer all’esperienza repubblicana di Mülhausen e intervenne attivamente con un gruppo di seguaci nella “guerra dei contadini”. Catturato durante la battaglia decisiva di Frankenhausen (14 – 15 maggio 1525) fu decapitato il 27 maggio dopo essere stato torturato per strappargli un’abiura.

[7] Sentenza divenuta proverbiale nel Medioevo che viene fatta risalire all’opera De superstitione di Seneca tramite una citazione che ne fa Sant’Agostino nel De civitate Dei.

[8] Vedi Imperiuzzi, Filippo, Storia di David Lazzaretti, Tipografia Nuova, Siena 1905. Alle pagine 427 – 428 racconta che David il 4 agosto aveva radunato i suoi seguaci per preparare la discesa dal monte prevista per il 15 e, dopo aver mostrato i vestiti che avrebbero indossato i crociferi, avrebbe loro detto: “Sì, miei cari, la nostra sarà una semplice comparsa, una piccola mascheratina”.

[9] Si pensi al valore rituale che hanno i precetti delle tzitziyoth, dei tefillin, della mezuzà e della kippà.

[10] Hobsbawm, Eric J., I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale (1959), op, cit.

[11] Ibidem

[12] Dall’interclassismo mazziniano alle grandi dittature di destra del ’900 europeo.

[13] Cfr. Vangelo secondo Matteo, capitolo 5, 38 – 48.

[14] Cfr. Vangelo secondo Luca, capitolo 23, 34.

[15] Brecht, Bertolt, Vita di Galileo, Einaudi, Torino 1997

[16] Vedi Balducci, Ernesto, L’uomo planetario, San Domenico di Fiesole (Fi), ECP 1991