Un vaccino gli avrebbe cambiato la vita

Carlo, Luccio per gli amici, era nato nel 1928 e da bambino aveva preso la poliomelite perché non c’era ancora il vaccino. Eppure, nonostante una gamba più corta e più piccola, riuscì a fare il soldato – lo volle, fortissimamente lo volle – caso unico forse in Italia. Abitava sopra di me con madre, padre (detto “Castagnin”), zio e sorella ed era uno che non la mandava a dire neanche ai suoi e se c’era bisogno usava anche le mani: ricordo che noi, ogni volta che sentivamo di sopra un trambusto, dicevamo: “Castagnin è al tappeto”. Quando la sera usciva per andare al bar, passava sempre da casa nostra, non c’era volta che non lo facesse. E piazzato davanti allo specchio dell’entrata, con l’immancabile sigaretta in bocca, si guardava e discorreva con noi, ammiccando alla sua immagine.

Luccio, detto “Casta” da suo padre “Castagnin”, ma soprannominato anche “Gable” per l’atteggiamento un po’ da attore americano, era un tipo burbero e spaccone. Ma le sue non erano soltanto parole perché, di fronte alla nostra incredulità di ragazzi, ogni volta saltava su qualcuno dei suoi coetanei a confermarci i fatti narrati che, sebbene talora fossero stati gesta esecrabili, testimoniavano però un’incredibile determinazione. Si narrava infatti che avesse risolto alcune controversie di lavoro a colpi di badile (faceva il manovale in un’impresa) oppure che avesse piegato le resistenze di un contadino che non voleva dargli delle fascine per il falò di Sant’Antonio con un “montante” che l’aveva mandato lungo disteso in un fosso. E tutto strascicandosi dietro la gamba menomata, fruscio che era una sorta di preavviso che lui stava arrivando.

Ma ciò che ci rendeva più scettici era quando ci raccontava di improbabili successi calcistici in alcuni tornei con la squadra del paese. Su questo c’era una strana omertà tra i suoi coetanei che, quando veniva il discorso, o se la squagliavano o cambiavano argomento. E noi pensavamo che lo facessero per non umiliarlo, visto che lui parlava di goal fatti di testa e con la mano come aveva fatto il mitico Piola (ancora non c’era stato Maradona).

Poi un giorno uno di loro ci prese in disparte e ci raccontò tutto. – Eravamo andati a giocare a Campo Ligure. Lui voleva giocare, non c’era verso di farlo star fuori  – ci disse – Ma la gente rideva, ci prendeva in giro perché facevamo giocare uno zoppo. E allora abbiamo preso coraggio e gli abbiamo detto che era meglio se non giocava. Lui se l’è presa e ancora non ce l’ha perdonata.

Che Luccio colpisse la palla di testa con perfetta scelta di tempo, come un calciatore vero, imprimendole una forza che pareva fosse stata calciata di piede, era un fatto innegabile. E io l’avevo provato già da bambino, perché spesso lungo la via principale del paese, davanti a casa nostra, giocavo a pallone con lui che se lo faceva tirare alto e lo colpiva preciso con un incredibile colpo di collo.

Ma ciò che accadde nel campo sportivo di Lerma a metà degli anni ’60, è qualcosa che non potrò mai dimenticare. Un lermese emigrato a Genova, gestore di un bar in zona San Bartolomeo del Fossato, aveva invitato a Lerma la squadra della Voltrese per un’amichevole contro la squadra del paese. Ma non aveva fatto i conti con i responsabili della squadra locale che quella domenica era già impegnata in un torneo a Castelletto d’Orba. C’era il rischio che saltasse tutto, con grande disappunto degli ospiti genovesi. Allora – io ero all’epoca quindicenne – noi più giovani mettemmo in piedi una squadra di fortuna, reclutando tutti coloro che avevano un minimo di confidenza con il pallone. E reclutammo anche Luccio, che si era offerto spontaneamente, curiosi di vedere che cosa sarebbe successo.

Il confronto era impari e il risultato pareva scontato: una squadra organizzata di città, iscritta al campionato di seconda categoria ligure, non poteva che fare un solo boccone di una squadra di raccattati qua e là all’ultimo momento; per loro sarebbe stata una passeggiata vincere quella partita, lo capivamo dal modo in cui ci guardavano come se fossimo dei poveretti. E poi quel numero 9 claudicante, con quella gamba più piccola e corta: com’era possibile presentare in campo uno così? Anche loro ridevano e ci prendevano in giro come avevano fatto quelli di Campo.

Ma il campo – scusate il gioco di parole – ci rese giustizia. Luccio ci aveva detto di crossare palle alte in area che poi ci avrebbe pensato lui e noi lo facemmo con diligenza, sgroppate sulla fascia e palla in mezzo. E la palla la colpiva sempre lui, con quella fronte che sembrava una piazza. E così, Casta, lo zoppo, quarantenne e senza allenamento, segnò due goal di testa tra l’incredulità degli avversari. Ma non solo, anche l’incazzatura, perché uno dei goal lo segnò davvero con la mano come Piola, così come ci aveva raccontato. E furono inutili le loro proteste, perché il pugno l’aveva messo così vicino alla testa che l’arbitro non l’aveva proprio visto.

Da quel giorno noi ragazzi, che eravamo stati la prima generazione di italiani ad essere vaccinati contro la poliomelite, pensammo che se Casta fosse stato vaccinato da bambino come noi avrebbe potuto giocare a calcio in qualche squadra professionistica e forse diventare anche un campione.

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