Per favore, no, lasciate stare Omero!

La scrittrice Marilù Oliva, autrice de “L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre“,  Solferino, Milano 2020, ha detto del suo libro: “Alcune dalla mia Odissea si aspettavano una rilettura rivoluzionaria dal punto di vista delle donne, qualcosa che ribaltasse le prospettive. Non era quello il mio obiettivo. Non stavolta. Mentre Madeline Miller (con cui non voglio confrontarmi ma alla quale tante volte sono stata accostata e che adoro) ha attuato una meravigliosa, competente rivisitazione, io volevo solo riscrivere l’Odissea mantenendomi fedele a Omero e mettendo in risalto la narrazione femminile, perché anche ricordare la stessa, in un mondo maschiocentrico come quello epico, è importante e credo che questo messaggio alla fine sia arrivato, soprattutto nelle scuole, dove il libro viene adottato. Le mie donne non stanno dietro a Ulisse. Sono davanti all’eroe, in piedi (e lui in ginocchio), quando non sopra, come fa Atena, che vigila dall’alto. Ho cercato di evidenziare la loro forza anche quando era dolcezza, la loro potenza, ma non le ho interpretate, non era questa l’operazione cui ambivo e non perché la snobbassi”.[1] 

Ho letto brani de L’Iliade e  de L’Odissea già alla Scuola Media, sotto la guida di un’insegnante donna mai dimenticata. Ho poi approfondito i due poemi al Ginnasio, con un’altra insegnante donna della stessa tempra e valore, e da quel momento essi sono diventati per me una chiave di lettura del mondo, sulla base di quel sistema di valori che permeava la società agropastorale dell’epoca omerica: la lealtà, la parola data, il senso del dovere, l’accoglienza dell’ospite, il rispetto dell’anziano, la compassione, il senso di responsabilità del capo. Chiave di lettura che ho poi utilizzato per circa quarant’anni facendoli leggere agli alunni della Scuola Media dove ho insegnato. E sia come studente che come professore le figure che mi sono rimaste più impresse e che poi ho spiegato con maggiore passione sono state proprio quelle femminili, perché il linguaggio che usa Omero per descriverle è un riconoscimento alla centralità della donna nelle vicende umane che ha corrisposto fin dal primo momento al mio sentire. Penso, nell’Iliade, ad Andromaca alle porte Scee, che dopo aver ricordato ad Ettore come Achille le avesse trucidato padre e fratelli (la madre era morta di crepacuore) gli dice:

Ettore, tu sei per me padre e nobile madre

 e fratello, tu sei il mio sposo fiorente;

 ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre,

 non fare orfano il figlio, vedova la sposa;[2]

Tale e tanta è sempre stata in me la risonanza di questi versi che quando mia madre, dopo la morte di mio padre, ripeté queste parole pressoché identiche rimasi folgorato, perché lei non aveva mai letto l’Iliade. Che anche la letteratura diventi patrimonio di quell’inconscio collettivo di cui parlava Jung?

E, nell’Odissea, penso a Penelope che Omero descrive come moglie, ma soprattutto come donna: lei, di fronte alla fretta tipicamente maschile di Ulisse e di Telemaco affinché riconosca il suo sposo (il maschio, sempre un po’ bambino, vuole tutto e subito), è saggia e cauta e mette il presunto marito alla prova.

“Ma come entrò, com’ebbe passato la soglia di pietra,
si mise a sedere in faccia a Odisseo, nel chiarore del fuoco,
presso l’altra parete: lui contro un’alta colonna
sedeva, guardando in giù, aspettando se gli dicesse qualcosa
la forte compagna, appena lo vedesse con gli occhi.
Ma lei muta a lungo sedeva, stupore il petto le empiva;
guardandolo, a volte lo conosceva in modo evidente,
a volte non lo conosceva, così coperto di cenci.
Telemaco la biasimò e disse parola, diceva:
«Madre mia, trista madre, dal cuore insensibile,
perché resti lontana dal padre e non siedi
vicino a lui, non lo interroghi, non cerchi di udirlo?
Nessuna donna con cuore tanto ostinato
se ne starebbe lontana dall’uomo, che dopo molto soffrire,
tornasse al ventesimo anno nella terra dei padri.
Ma sempre il tuo cuore è più duro del sasso».
E gli rispose la savia Penelope:
«Creatura mia, il cuore nel mio petto è attonito:
non riesco né a dirgli parola, né a interrogarlo,
né a guardarlo nel viso. Ma se è davvero
Odisseo che in patria è tornato, oh molto bene
e facilmente potremo conoscerci: abbiamo per noi
dei segni segreti, che noi sappiamo e non gli altri».[3]

E il segreto è il letto non di ulivo, ma costruito su un ulivo, prova inconfutabile che chi ha davanti è proprio Odisseo.

Ma allo stesso modo Omero tratteggia Nausicaa, che è una giovinetta, ma risponde alle lusinghe interessate di Odisseo, ancora di pura marca maschile, con la concreta saggezza di una donna matura che ha consapevolezza della diversa fortuna dei destini umani e dei doveri nei confronti dell’ospite qualunque sia la sua condizione (mirabile quel “… vengon tutti da Zeus / gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro”).

Gli replicò Nausicaa braccio bianco:
“Straniero, non sembri uomo stolto o malvagio,
ma Zeus Olimpio, lui stesso, divide fortuna tra gli uomini,
buoni e cattivi, come vuole a ciascuno:
a te ha dato questo, bisogna che tu lo sopporti.
Ora però, che sei giunto alla nostra terra, alla nostra città,
né panno ti mancherà, né altra cosa,
quanto è giusto ottenga il meschino, che supplica.
La rocca t’insegnerò e dirò il nome del popolo.
I Feaci possiedono terra e città,
e io son la figlia del magnanimo Alcinoo,
che tra i Feaci regge la forza e il potere”.
Disse, e gridò alle ancelle bei riccioli: 

“Fermatevi ancelle: dove fuggite alla vista d’un uomo?
Forse un nemico credete che sia?
Non esiste uomo vivente, né mai potrà esistere,
che arrivi al paese delle genti feace
portando guerra: perché noi siam molto cari agli dèi.
Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti,
lontani, e nessuno viene fra noi degli altri mortali.
Ma questi è un misero naufrago, che c’è capitato,
e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus
gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.
Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere,
e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento”.[4]

Ma se Penelope e Nausicaa sono stirpe regale e quindi come tali nell’etica omerica devono rappresentare la virtù del potere, che dire invece di Circe e di Calipso, maga e ninfa di dubbia reputazione? Entrambe bramano Odisseo e vogliono tenerlo con sé come schiavo d’amore. Ma sia l’una che l’altra rispettano i principi fondanti della classicità omerica e nonostante la loro condizione di immortali hanno un profondo senso della pietà (virtù per lo più sconosciuta a uomini e donne della postmodernità) nei confronti dei comuni mortali.

Circe, affinché Odisseo acconsenta a giacere con lei, gli giura che scioglierà i suoi compagni dall’incantesimo (li ha trasformati in maiali) e di fronte ai suoi dubbi su tale promessa gli ricorda che la parola data (“… forse altro inganno sospetti? Non devi // temere: già l’ho giurato il gran giuramento”) è sacra agli dei. E quando, toccandoli con la bacchetta, ritrasforma i suoi compagni in esseri umani, di fronte ai loro pianti di liberazione prova pietà (“… e in tutti, gradita, nacque voglia di pianto: la casa // terribilmente echeggiava; la dea stessa provava pietà”).

Circe, come s’accorse di me, che sedevo e sul cibo
non gettavo le mani, ma avevo troppo dolore,
vicino mi venne e parole fugaci parlava:
«Perché cosí, Odisseo, siedi simile a un muto,
il cuore mangiandoti, e cibo e vino non tocchi?

 forse altro inganno sospetti? Non devi
temere: già l’ho giurato il gran giuramento».Cosí parlava; e io rispondendole dissi:
«O Circe, chi è l’uomo, purché abbia giustizia,
il quale ardirebbe empirsi di cibo e di vino,
 prima che sian liberati i compagni e li abbia visti con gli occhi?
Se con cuore sincero a bere e a mangiare m’inviti,
scioglili, che li veda con gli occhi, i fedeli compagni».
Cosí dicevo: e Circe uscí attraverso la sala,
la verga in mano tenendo, le porte aprí del porcile
 e fuori li spinse, simili a porci grassi di nove stagioni.
Quelli le stavan davanti, e lei in mezzo a loro
andando, li ungeva a uno a uno con altro farmaco.
E dalle loro membra le setole caddero, nate
dal veleno funesto, che diede loro Circe sovrana:
uomini a un tratto furono, piú giovani di com’eran prima,
e anche molto piú belli e piú grandi a vedersi.
Mi conobbero essi, e ciascuno mi strinse la mano,
e in tutti, gradita, nacque voglia di pianto: la casa
terribilmente echeggiava; la dea stessa provava pietà.[5]

Calipso, figlia di Atlante, relegata a Ogigia per volere degli dei, ha un destino segnato che è quello di ospitare sulla sua isola come naufraghi uomini belli e famosi di cui s’innamora e dai quali è regolarmente abbandonata. La stessa cosa le succede con Odisseo, che trattiene presso di sé per sette anni, ma poi gli dei decidono che è giunto il momento di far tornare l’eroe a Itaca e allora le mandano Ermes, il loro messaggero, per convincerla a lasciarlo andare. Lei avrebbe il potere di trattenerlo, ma sia per rispetto del volere divino sia soprattutto perché prova commozione di fronte alla disperazione di Odisseo (“Infeliceormai di cuore ti lascio partire…”) si convince e gli consente di partire. Ma Ulisse non si fida, teme che sia l’ennesimo trucco della dea per fargli ancora del male. Allora Calipso, con tenerezza (“… lo carezzò con la mano…”), gli dà la sua parola (“Sappia dunque la terra e il cielo luminoso di sopra, // e l’onda di Stige, che scorre in profondo – è questo il più grande // giuramento, tremendo per i numi beati – // che contro di tenessun nuovomale preparo;”), ma non solo: è tale la sua compassione chegli fornisce anche i mezzi necessari per andarsene e gli dà delle preziose informazioni come se dovesse lei stessa intraprendere il viaggio (“… perché ho mente giusta, non c’è nel mio petto // un cuore di ferro, ma compassionevole”).


Lei, la ninfa sovrana, in cerca del grande Odisseo
andava, dopo che udì il messaggio di Zeus.  

Sul promontorio, seduto, lo scorse: mai gli occhi
erano asciutti di lacrime, ma consumava la vita soave
sospirando il ritorno, perché non gli piaceva la ninfa.
certo la notte dormiva sempre, per forza,
nella cupa spelonca, nolente, vicino a lei che voleva.
Ma il giorno, seduto sopra le rocce e la riva,
con lacrime gemiti e pene il cuore straziandosi,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.
Accanto gli stette e gli parlò, la dea luminosa:
«Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti
la vita: ormai di cuore ti lascio partire.
suvvia, grossi tronchi col bronzo tagliando, connettili
in zattera larga; poi saldo castello disponivi,
alto, che possa portarti sul mare nebbioso.  

Intanto io pane, acqua, vin rosso
porterò in abbondanza, che tengan lontano la fame,
e vesti ti vestirò, ti manderò dietro il vento,
perché illeso tu arrivi alla terra dei padri,
se i numi vogliono, quelli che il cielo vasto possiedono  

e hanno più forza di me per comandare e volere».
Così diceva, rabbrividì il costante Odisseo luminoso  

e rispondendole disse parole fugaci:
«Altro tu macchini, o dea, con questo, e non il ritorno,  

che vuoi su una zattera farmi passare abisso immenso di mare,
spaventoso, invincibile: neppure navi di perfetto equilibrio
lo passano, anche se sono allietate dal vento di Zeus.  

No, sulla zattera non salirò, a costo d’oppormiti,
se non hai cuore, o dea, di farmi il gran giuramento,
che contro di me nessun nuovo male prepari».

Parlò così, sorrise Calipso, la dea luminosa,
lo carezzò con la mano e disse parola, diceva:
«Ah brigante che sei, e non sciocco davvero;
senti un po’ che discorso hai pensato di fare!

Sappia dunque la terra e il cielo luminoso di sopra,
e l’onda di Stige, che scorre in profondo – è questo il più grande
giuramento, tremendo per i numi beati –
che contro di te nessun nuovo male preparo;
anzi consiglio e provvedo quel che a me stessa
provvederei, se uguale bisogno m’urgesse,
perché ho mente giusta, non c’è nel mio petto
un cuore di ferro, ma compassionevole».[6]

Amore, fedeltà, saggezza, cautela, accoglienza, parola data, commozione, tenerezza, compassione: tutte queste virtù celebrate dall’antichità classica – di cui avrebbe grande bisogno anche il nostro incerto presente – sono patrimonio indiscutibile delle figure femminili di Omero ed è per questo che esse rimangono impresse nella mente e nell’immaginario del lettore, maschio o femmina che sia, più delle gesta guerriere o delle astuzie dei maschi. È questo che ha saputo fare il vegliardo creando figure di donna antiche e moderne nello stesso tempo, senz’altro esemplari.

Cara signora Oliva, da duemilasettecento anni la narrazione di Omero ci affascina e attraversa le epoche con la stessa forza con cui commuoveva gli astanti ogni volta che l’aedo la intonava alla corte di qualche re pastore. Lasciamo che lo faccia ancora, così come ci è stata tramandata, anche nelle scuole, e vedrà che nessuna ragazzina, anche in futuro, si sentirà esclusa dalla fruizione del poema per una mera questione di genere.


[1] Dall’articolo di Claudia Sarritzu Care insegnanti, quest’anno fate la rivoluzione: insegnate una nuova Odissea raccontata dalle donne, Tiscali Cultura, 20 settembre 2021

[2] Omero, Iliade, libro VI, vv. 429 – 432

[3] Omero, Odissea, libro XXIII, vv. 88 – 110

[4] Omero, Odissea, libro VI, vv. 186 – 210

[5] Omero, Odissea, libro X, vv. 375 – 399

[6] Omero, Odissea, libro V, vv. 149 – 191

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