Memoria della Shoah 3

Fünf zu fünf!

È la storia di un operaio torinese della Fiat, arrestato durante gli scioperi del marzo 1944 e deportato a Mauthausen. Nel campo di concentramento ha la “fortuna” di fare l’attendente di una SS, ma ha moglie e tre figli e non riesce più a sopportarne la lontananza. Decide di provare a fuggire, ma il tentativo fallisce.

 

– Fünf zu fünf! – urlavano le SS.

I deportati si disposero lesti nel piazzale adiacente alle baracche. Iniziò la conta. Appena uno sentiva il suo numero lo gridava alto nell’aria.

– Neununzfünfzigtausendzwölf! -. Silenzio.

– Neununzfünfzigtausendzwölf! – ripeté l’SS. Nessuno rispose.

L’ufficiale guardò i kapò con una faccia stranita, come se non credesse alle sue orecchie. E loro, senza neanche sapere bene il perché, cominciarono a correre tra le file menando colpi a destra e a manca. Ma del 59012 neppure l’ombra.

Il caposquadra fece rapporto all’ufficiale che, urlando come un forsennato, minacciò di colpirlo con il frustino. Poi iniziò la caccia all’uomo. Venti-trenta persone perlustrarono il campo, ma non ci fu niente da fare, il fuggitivo non c’era. Allora mollarono i cani.

Bastarono pochi minuti per trovarlo, e fu un massacro. I kapò sfogarono su di lui l’angoscia che l’aveva presi. Quando smisero, l’uomo grondava sangue dappertutto e non sembrava neanche più un essere umano.

Lo costrinsero a camminare fino al piazzale, e ogni volta che accennava a fermarsi lo colpivano con dei calci nel ventre. Pareva Cristo sulla via del Calvario.

Fu il caposquadra a decidere che cosa fare.

– Le regole le conoscete bene: devo condannarvi tutti a morte – Un brivido percorse le file. – Ma vi offro un’alternativa… – Neanche un respiro – Annegate quest’uomo in quel barile, e io metterò una pietra sopra ciò che è stato.

Un silenzio di piombo calò sul piazzale.

Intanto, a un cenno del caposquadra, il barile venne portato al centro.

– Pietà… risparmiatemi… ho moglie e figli – sussurrava debolmente il prigioniero. Ma un kapò lo colpì di nuovo facendolo stramazzare a terra.

– Alzatelo! – ordinò il caposquadra a due deportati. – E ora mettetegli la testa sott’acqua.

I due si guardarono un istante, poi diedero un’occhiata perplessa al caposquadra.

– Avete capito, bastardi! Mettetegli la testa sott’acqua o vi faccio fare la stessa fine!

I deportati alzarono il compagno da terra e lo avvicinarono al barile mostrando un attimo di indecisione.

– Svelti, vi ho detto, svelti! – Nel frattempo aveva cominciato a picchiarli. – Maledette carogne!

Allora immersero nell’acqua il viso sanguinante del compagno senza spingere sotto anche la testa.

– Più giù, ho detto, più giù! – urlava il caposquadra.

I due spinsero più giù la testa guardando altrove per la vergogna. Come potevano reggere lo sguardo dei loro compagni?

Poco dopo l’uomo cominciò a recalcitrare per i primi sintomi di soffocamento. D’istinto i deportati gli sollevarono la testa, ma subito intervenne il caposquadra.

– Vi ho detto giù, cani! O vi farò fare la stessa fine! – e continuava a picchiarli accanito. I due allora chiusero gli occhi e spinsero più giù il loro compagno.

Passarono pochi secondi e lui riprese a scalciare e a sussultare. Stavolta lo tennero fermo.

Il caposquadra si godeva compiaciuto la scena.

– Questa è la sorte di chi osa fuggire da questo campo. Imprimetevelo bene nella mente, in modo che, ogni volta che vi viene la tentazione, vi manchi subito il respiro come succede a questo cane.

Poi, all’improvviso, ordinò ai due deportati di tirare su il malcapitato. Gli si avvicinò e battendogli sulla testa con un bastone disse: – Guardatelo, guardatelo bene in faccia e ditemi se questo è un uomo – e mentre lo diceva si guardava in giro come se mostrasse un trofeo. – Ve lo dico io che cos’è: questo non è un uomo, questo è un verme! -. Quindi fece cenno ai due di ributtarlo giù. Poi, rivolto alle file di deportati, aggiunse: – Lo so, oh lo so che mi odiate, e che se poteste mi fareste fare la stessa fine. Ma non potete, voi non potete fare nulla che non voglia io. Mettetevelo bene in testa, se qualcuno avesse ancora qualche dubbio. Perché voi non siete niente, anzi, siete spazzatura che prima o poi verrà bruciata. Siete talmente spazzatura che, se vi ordino di ammazzare il vostro migliore amico, lo dovete fare, e lo fate.

Guardò verso il bidone e vedendo che i due deportati avevano allentato un po’ la morsa urlò: – Giùù! Giùù, ho detto! Guai a voi se provate a disubbidire!

I due deportati spinsero di nuovo giù, e l’uomo ricominciò a scalciare.

– Ha provato a fuggire questo cane, a infrangere le leggi del campo. S’era illuso di farcela. Lui non sa che cosa vuol dire fare parte del Reich. Vuol dire ordine, efficienza, sicurezza, controllo. Vuol dire che neanche un ago può uscire di qui dentro senza il permesso del Reich. E il Reich è generoso con chi lo serve fedelmente, ma spietato e feroce con chi cerca di ingannarlo.

Intanto l’uomo aveva smesso di scalciare, fino a che non si era più mosso. I due compagni continuavano a tenerlo sott’acqua, mentre gli altri guardavano atterriti quel corpo che spuntava rigido dall’acqua.

Il caposquadra si lasciò sfuggire un sogghigno, poi disse ai kapò: – Portatelo via! -. Quindi, ostentando la sicurezza dei padroni, si rivolse ai deportati: – Ricordatevi ciò che avete appena visto. Nel vostro interesse. E ora tutti nelle baracche! -. Poi si allontanò seguito dalla sua piccola corte.

I due deportati non si muovevano, come se fossero paralizzati. Allora qualcuno si fece avanti dalle file per incoraggiarli.

– Su, venite – disse – ormai è tutto finito.

I due, con gli occhi sbarrati per l’orrore, ripetevano ossessivamente: – Questo ci hanno fatto fare, questo. Come potremo più vivere, se le nostre mani hanno dovuto stringere ripetutamente il collo di un nostro compagno?

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento