Memoria della Shoah 2

Le tombe degli Ebrei

La minestra bolliva sulla stufa con un borbottio soffuso. Il vapore aveva fatto appannare i vetri e l’odore di cavolo lesso impregnava tutta la casa. Neanche al cesso si poteva sperare di non sentirlo, ché era così forte da superare l’effluvio di qualsiasi escremento. Sicché non c’era modo di scansarlo a meno di non uscire fuori nell’aria tagliente del piazzale.

A Gino il cavolo non piaceva. Mangiava di tutto, fossero castagne nella zütta o polenta rostita nel latte, ma il cavolo non riusciva proprio a mandarlo giù: gli faceva venire il vomito solo ad avvicinare il cucchiaio alla bocca. Eppure lo zio non transigeva, doveva mangiarlo anche lui come tutti gli altri. Diceva che di quei tempi non ci si poteva permettere di fare gli schizzinosi, di scegliere che cosa mangiare: bisognava prendere quello che c’era e dire ancora grazie che ce ne fosse. E se qualcuno portava in canonica un cavolo, era davvero benedetto, che i più manco ce l’avevano da farsi un po’ di minestra.

Don Luigi

Da quando, poi, erano arrivati anche quegli altri, gli Ebrei, mangiare qualcosa di decente era diventato addirittura impossibile. Quattro bocche da sfamare in più, figuriamoci! Lui c’aveva provato a dirglielo a suo zio perché quelli s’erano fermati lì con loro, che cosa c’entravano con il santuario, ma don Luigi l’aveva zittito bruscamente dicendogli che erano cose da grandi che non gli dovevano interessare, e che comunque si prendesse ben guardia di dirle a qualcuno perché l’avrebbe rispedito subito a Genova.

Bastava quella minaccia a fargli cambiare discorso. No, meglio il cavolo che ritornare in collegio a Genova, là sì che si faceva la fame, e poi i preti non erano come lo zio, là erano severi e gli mollavano anche degli scapaccioni. Lo zio, invece, era un prete tutto particolare, e quando magari gli veniva un po’ di malinconia del papà e della mamma se lo prendeva anche in collo, e gli raccontava delle belle storie facendo delle voci buffe che non l’avresti mai detto. E poi, se per caso non aveva voglia di alzarsi a servire la messa, lo lasciava dormire, perché diceva che il sonno ai bambini faceva meglio di qualsiasi messa. Ma soprattutto lo lasciava libero di girare per la campagna e d’estate di andare giù a fare il bagno al Piota al lago di San Pantaleo.

Gino

L’aveva persi nel giro di un anno i suoi: prima se n’era andato suo padre, fulminato dalla corrente in un cantiere del porto, poi la mamma, consumata dal dolore e da una malattia che si portava dietro fin da quando era ragazza. E meno male che c’era lo zio prete, che prima l’aveva messo in collegio lì dalle parti di San Martino, poi, una volta che l’era andato a trovare, non aveva resistito alla sua tristezza e se l’era portato con sé lì al santuario.

Prima degli Ebrei mangiavano giù con Maxillu e Main, i custodi, ma da quando erano arrivati loro se ne facevano da soli e cucinava la signora Lisa, moglie di Enrico Levi. Lei era più raffinata di Main a cucinare, ma il cavolo era sempre il cavolo per quanto cercasse di accomodarlo. Solo una volta era riuscita a fare una minestra un po’ fuori dal normale: assieme al cavolo c’aveva messo un’erba che diceva di aver trovato nel bosco. Un’erba che aveva dato alla minestra un sapore strano, dolciastro, che quasi il cavolo non si sentiva, ma che dopo l’aveva lasciato come stordito, con la testa che gli ciondolava da una parte e dall’altra. Avevano poi scoperto che la donna aveva cimato le piante di tabacco che Maxillu coltivava di nascosto nel bricchetto sotto la Pracina.

Anche quella sera la signora Lisa stava scodellando la minestra nelle fondine con la riga dorata che lo zio aveva tirato fuori da quando erano arrivati loro. Aveva un certa grazia nel farlo, come se fosse davvero una gran dama abituata a ben altri cibi e bevande. Stava giusto riempiendo la fondina di Gino, c’era per caso finito il pezzo del lardo e, sapendo che lui non lo voleva, cercava di riprenderlo ridendo, quando sentirono bussare alla porta.

Fermi immobili, quasi senza respirare, guardarono tutti don Luigi. Lui, lasciando trasparire appena una punta di nervosismo, si avvicinò alla porta e chiese chi era.

– Don Luigi, sono Baciccia della Bandita, ho bisogno di parlargli, subito! – Aveva una voce concitata, come se avesse davvero fretta.

Il prete aprì il battente e scivolò fuori nella notte attraverso la fessura. Lisa intanto aveva preso per mano suo marito Enrico e i fratelli Soria si guardavano angosciati. Gino, invece, era rimasto con il cucchiaio a mezz’aria, quasi avesse paura di posarlo.

Lo zio riaprì la porta dopo un istante rientrando in casa come un fulmine. Disse soltanto: – Mettete via i piatti, presto! Bisogna andare giù di sotto!

– Stanno… stanno arrivando?

– I fascisti. Qualcuno deve aver fatto la spia – e mentre lo diceva accese il lume a olio sul camino e cercò le chiavi che aprivano la porta del sepolcro.

Entrarono in chiesa dalla porticina della sua stanza, prima non l’aveva mai permesso, e neppure si genuflessero di fronte all’altare, ma tirarono dritto verso la cappella della Madonna. Spostarono il confessionale, e don Luigi aprì la porta che portava giù nelle tombe. Era la prima volta che Gino scendeva là sotto, lo zio non aveva mai voluto portarcelo. Ma ora non poteva farne a meno, non aveva il coraggio di lasciarlo in casa da solo. Alla luce fioca del lume Gino intravide con il fiato sospeso la cappella mortuaria, il catafalco con i quattro candelabri e poi le lapidi delle tombe allineate l’una accanto all’altra.

Don Luigi gli diede da tenere il lume. Poi chiamò vicino a sé i due uomini e cominciarono a smuovere la prima pietra. Intanto la signora Soria continuava a ripetere come una cantilena che no, non ce l’avrebbero mai fatta.

– Andate dentro! – disse secco il prete.

Lisa abbracciò la donna sussurrandole qualcosa all’orecchio. Poi, uno dopo l’altro, s’infilarono tutti nella tomba.

– Dammi una mano, su! – disse lo zio a Gino. Lui posò il lume e afferrò con le mani sudate il bordo freddo della pietra. Un brivido gli percorse la schiena. Aveva paura, gli tremavano le ginocchia da morire, e man mano che la lapide ritornava al suo posto aveva la sensazione che non li avrebbe più visti, come se li avessero sepolti per sempre. Stava quasi per mettersi a piangere, quando lo zio lo trascinò su per le scale di nuovo in chiesa. Stavolta si genuflessero, non restava che affidarsi a Lui.

Avevano appena ricominciato a mangiare che sentirono rombare un motore su per la montata del santuario. Gino si fermò con le orecchie tese, ma lo zio gli fece segno di mangiare come se niente fosse. Il rombo intanto era diventato più intenso, finché, dopo un muggito estenuante, si placò gorgogliando sul piazzale. Subito si udirono grida, ordini e uno scalpiccio pesante di scarponi sulla ghiaia. Poi, tutt’a un tratto, un colpo fece traballare la porta.

– Aprite, siamo della milizia! – urlò una voce.

Don Luigi andò ad aprire, ma senza fretta, come se niente fosse. Ma non fece nemmeno in tempo a sganciare il catenaccio che due camicie nere piombarono dentro con le pistole spianate. Lo zio cambiò colore. – Vi pare il modo di entrare in una canonica! – urlò in faccia ai due miliziani facendoli indietreggiare. Subito dopo ne entrò un altro che pareva il caporione.

– Reverendo – disse – ci deve scusare, ma ci hanno detto che lei nasconde degli Ebrei qui nel santuario, e allora siamo venuti a vedere.

– Qui non ci sono Ebrei. Chi ve l’ha detto vi ha mentito – disse don Luigi con tono sprezzante.

– Lei sa bene che è proibito dare ospitalità a persone di razza ebraica. Qualora ciò accadesse, saremmo costretti ad arrestarla.

Intanto un milite aveva afferrato Gino per il mento come per scrutare il suo profilo semita.

– Lasci stare il bambino, per favore. È mio nipote -. Don Luigi aveva lo sguardo duro, affilato, non sembrava affatto un prete. Aveva piuttosto qualcosa di Mosè di fronte agli idolatri quando ritornò dal monte. Il milite lasciò andare il bambino con un gesto di insofferenza.

– Dobbiamo perquisire la canonica e la chiesa – disse il capo – Le dispiace farci strada?

Don Luigi non rispose, ma cominciò ad aprire le porte della sala e delle stanze ostentando sicurezza. Poi li accompagnò in chiesa, ma loro li fece passare dal piazzale. Guardarono ovunque, persino nelle canne dell’organo. Poi il capo chiese di scendere anche nelle tombe. Quando Gino udì quelle parole trattenne a stento un grido. Guardò lo zio, ma vide che era tranquillo, incoscientemente tranquillo.

Mentre il prete girava la chiave nella toppa, c’aveva almeno dieci giri quella serratura, i militi lo guardavano impazienti, come se fossero convinti di trovare quello che cercavano. Ma non appena il portone chiodato della cappella mortuaria degli Spinola si aprì con un cigolio inquietante, ebbero tutti un attimo di esitazione: a nessuno piaceva visitare delle tombe. Entrarono dunque titubanti, pareva che avessero perso ogni baldanza. Le torce elettriche ruotarono veloci tutte intorno, sfiorarono le lapidi una volta, un’altra ancora, poi si spensero quasi simultaneamente, come se non vedessero l’ora di andarsene. Don Luigi non rinunciò a togliersi anche questa soddisfazione. – Avete già finito? – disse loro con enfasi dopo quella visita sommaria. Il capo lo guardò bieco, ma non ebbe il coraggio di ribattere.

I fascisti risalirono delusi sul piazzale minacciando sfracelli e vendette. Quando poi montarono sul camion non si udivano né grida né canti, ma solo qualche brutta bestemmia. Il mezzo cominciò a scendere a singhiozzo verso Lerma. Don Luigi lo seguì con gli occhi lasciandosi sfuggire una smorfia di soddisfazione. Se avessero mai potuto vederla…

Quando il prete e Gino spostarono nuovamente la lapide i quattro Ebrei erano ai limiti dell’asfissia. Respiravano a fatica, e alla signora Soria erano saltati i nervi. Diceva frasi sconnesse, e il fratello cercava invano di tranquillizzarla. Don Luigi li abbracciò uno per uno senza dire una parola. Poi, mentre rimetteva  a posto la lapide, mormorò sottovoce: – Venite, venite… che ve la do io la camicia nera! -. E mentre lo diceva rideva, Gino sostiene che rideva.

 

Don Luigi  Mazzarello (Mornese, 1885 – Lerma, 1959) è stato un sacerdote italiano annoverato tra i Giusti tra le nazioni da Yad Vashem di Gerusalemme per aver salvato quattro ebrei fra il 1943 e il 1945.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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