Memoria della Shoah 1

Da “Trentun chili di pelle e ossa”. Breve storia dell’odissea di Pino Sericano, il partigiano “Brescia”, classe 1923, Serravalle Scrivia, deportato a Mauthausen dopo il rastrellamento della Benedicta.

“Una mattina, erano due mesi che eravamo lì, eravamo gli ultimi arrivati, quelli che prendevano più botte, eravamo lì ad ammazzarci i pidocchi, quando è arrivata una squadra vestita di nuovo, numero di matricola e tutto, e avevano una striscia gialla qui sotto. C’era un russo, che siamo sempre stati insieme al comando, e gli chiedo: ”Chi è che sono?”. Mi risponde: “Juda”. Juda? E chi è che capiva Juda. Poi c’era un francese lì vicino a me che cercava i pidocchi e mi dice: “Sono Ebrei, Giudei”. Ottomila erano, in quindici giorni ne è rimasto uno. Uno che sapeva otto lingue, un pezzo d’uomo grande così.

Un giorno facevo la notte, e sono arrivati alcuni prigionieri al comando e il capo mi ha detto di andare nella galleria che era già finita, c’era ancora l’armatura, a cercare dei badili. “Schaufer”, s’impara subito. Ho preso un pezzo di tavola, perché era scuro, da toccare un po’. Ho sentito che c’erano dei badili. Vado avanti, e ho picchiato una facciata contro due gambe. Belandi, puoi immaginare come ci sono rimasto! Allora allo scuro ho preso tre o quattro badili, quelli che c’erano. Proprio in quel momento è arrivato il capo che mi veniva già incontro con il bastone per picchiarmi perché ci avevo messo tanto. Gli ho subito detto: “Camerata kaputt!”. Lui ha fatto una specie di torcia con la carta di un sacchetto di cemento ed è andato a vedere: era un Ebreo. Mi ha detto: “Prendilo e tiralo giù”. “Ma sì, capo, se lo tiro giù gli strappo il collo”. Allora mi sono arrampicato su, ho slegato il fil di ferro che si era legato al collo, l’ho mollato giù, l’abbiamo preso e l’abbiamo portato là. C’erano cinque Ebrei nel nostro comando, li ha ammazzati tutti. Gli ha detto: “Dobbiamo ammazzarvi noi, non dovete ammazzarvi voi”.

Siamo andati avanti così, sempre legnate e fame, ché il mangiare era porcheria.

Una volta, facevo ancora il turno di notte, sono corso per infilarmi dentro l’armatura, ho perso uno degli zoccoli, allo scuro, e tocca e ritocca l’ho trovato, ma sono arrivato quasi all’ultimo sicché mi è toccato essere in fondo. Arrivava il vagonetto del cemento, lo rovesciavi e buttavi il cemento su nel nastro. E lì c’erano sette Ebrei, ché loro venivano giù bella piano perché con quegli zoccoli peggio dei nostri non potevano quasi neanche andare. È arrivato il capo, è andato di là e gli ha preso tutti dei badili che se avessi dovuto infilarli nell’acqua non lo so se ce l’avresti fatta a piantarceli, figuriamoci nel cemento. Dei manici con la crosta, con tutto, dei manici che non avresti potuto manco adoperarli da dare nella schiena a qualcuno. Io buttavo su, buttavo su, e loro con ’sti badili facevano fatica a vuotare il vagonetto.

Poi, da lontano, nella galleria, ho visto due occhietti luccicare e mi son detto: “Ci siamo”. Ho detto con loro di darci una botta, che c’era l’SS che arrivava. E infatti è arrivata l’SS con il cane, gli occhietti che vedevo erano del cane, un doberman. È arrivata e si è messa a dare delle legnate. Dava una botta a uno e il cane gli strappava la gola. L’altro uguale. L’ultimo mi è caduto addosso e mi è rimasto qui, e allora il cane invece di prendere per la gola lui m’ha preso me nella gamba.

L’SS, quando ha visto che io non ero ebreo, allora gli ha gridato al cane, ma il cane era così arrabbiato… gli ha dato una pedata e il cane mi ha strappato giù tutta la pelle. Poi ha mandato giù degli uomini da là sopra e mi hanno portato a disinfettarmi sotto un rubinetto d’acqua fredda e mi hanno fatto su con una benda di carta elastica. E io sono stato lì, ma non potevo lavorare, mi faceva un male del diavolo.

Il giorno dopo ho marcato visita, ché è stata una fortuna per me quella morsicata lì, perché ho passato cinque mesi e due giorni all’infermeria, ci ho passato l’inverno, dai primi di ottobre a marzo ci ho passato. Tutte le mattine ci portavano il termometro per misurarci la febbre e noi lo fregavamo nella coperta e facevamo andare su la febbre”.

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