In questi tempi di crisi dei sentimenti e degli affetti possono esistere ancora amori come questo?
Era andata a prendere il prezzemolo nell’orto e aveva fatto fatica a rientrare. Strano, ci andava e veniva di continuo durante la giornata e non se ne accorgeva nemmeno. E invece le aveva preso il fiatone e aveva dovuto fermarsi due o tre volte su per le scale.
Voleva fare la salsa verde per suo nipote, gliel’aveva chiesta l’ultima volta che erano venuti a trovarla. – Nonna, mi fai la salsa verde, che la tua è più buona di quella della mamma – le aveva detto. Lei l’aveva rimproverato, le dispiaceva che dicesse quelle cose davanti a sua madre, ma in fondo provava un sottile piacere che lui preferisse la sua a quella di sua figlia Carla.
Erano state sempre in competizione lei e sua figlia, fin da quando era una bambina, e Carla l’aveva spesso accusata di essere la causa di tutti i suoi insuccessi. Il marito che l’aveva lasciata, il lavoro che aveva perduto, tutto imputava a lei! Ma soprattutto le rinfacciava di averle impedito il rapporto con il padre da quanto ne era gelosa e che questo l’avesse resa fragile di fronte agli altri uomini.
Gelosa? Lo amava follemente, altro che, e non poteva stare un istante senza di lui quando tornava da lavorare. Era qualcosa più forte di lei, se ne rendeva conto, ma non poteva farci niente, neanche di fronte a sua figlia. Ed era vero: se Carla si metteva in mezzo, le parlava aspra, addirittura la strattonava, a tal punto che anche suo marito si ribellava. Ma lui era come soggiogato da quell’ebbrezza che li legava, e allora a lei bastava uno sguardo per farsi perdonare.
Prese il prezzemolo e lo sciacquò sotto il rubinetto della cucina. Com’era fredda l’acqua, le faceva venire il formicolio nelle mani. Eppure era appena passato ferragosto e non c’erano ancora stati i temporali che facevano cambiare la temperatura e mettevano fine all’estate; anzi, era così caldo che la gente faceva ancora il bagno nel fiume.
Lo mise sul tagliere e cominciò a tritarlo. Ne aveva di anni quel tagliere: gliel’aveva regalato suo marito il primo anniversario di matrimonio, tagliere e mezzaluna. Gliel’aveva comprati al mercato a Ovada, il tagliere di legno di faggio, spesso, pesante, con il manico modellato nello stesso pezzo, la mezzaluna di acciaio inox e con i manici d’osso. Quante cose c’aveva tritato da allora, a tal punto che ormai c’aveva un solco nel mezzo profondo almeno quattro dita. Perché con le cose tritate se n’era andato anche il legno, poco per volta, ma inesorabilmente. Forse l’avevano anche mangiato e non aveva mai fatto male a nessuno nonostante quello che dicevano ora le Asl: avevano messo fuori legge i taglieri di legno e costringevano la gente a tritare le robe su dei taglieri d’acciaio, neanche fossero stati in un’officina. No, lei non ci rinunciava al suo tagliere e neanche alla mezzaluna che nel tempo aveva perso uno dei manici d’osso ed era rimasta con un moncherino d’acciaio che pareva la punta di un coltello.
Prese da una scodella la mollica impregnata d’aceto e la aggiunse alla poltiglia bruna del prezzemolo e delle acciughe. Poi ricominciò a tritare. Purtroppo il pane non era più bagnato nell’aceto che faceva suo marito, quello che rinnovava con la “madre”, tenendola sempre nel pulito. Ormai chi lo sapeva più fare quel lavoro lì! Ora si usava quello industriale, quello che si comprava al supermercato, ma che era leggero e non sapeva di niente, perché la sua acidità era artificiale, non – e si ricordava le parole di suo marito – “il frutto di un processo naturale di alterazione degli enzimi del vino”. Certi aceti faceva il suo uomo! Allora l’aceto lei lo usava per un sacco di cose: ci si lavava i capelli, che diventavano lucidi e brillanti, ci lavava i pavimenti, lo usava come disinfettante, soprattutto per la gola, e poi nella preparazione di un’infinità di piatti dai peperoni sott’aceto al “sancrau”, dalle cipolline in agrodolce all’insalata russa.
Ma anche il pane non era più lo stesso, che ora la mollica era sempre cruda e potevi rimpastarla di nuovo. Sicché, messa a bagno nell’aceto, s’impregnava solo superficialmente e stentava ad amalgamarsi con il resto. Lei, per ovviare un po’ all’inconveniente, usava il pane posato che era più asciutto e si comportava come una spugna. Fatto sta che tra aceto scadente, senza profumo e acidità, e pane cotto male e gommoso era sempre un’incognita aggiungere quella componente al tritato, senza la quale, però, non era possibile fare la salsa.
Cominciò a sgranocchiare le uova sode che aveva preparato. Con un colpo leggero ruppe la scorza, poi cominciò ad asportarla pezzo per pezzo. La mano, intanto, continuava a perdere di sensibilità e allora lei cercava di utilizzarla soltanto come appoggio affidando all’altra la pulizia delle uova. Le era già successo di provare una sensazione simile, ma dall’altra parte, quella ora efficiente. Era caduta nella vigna durante la vendemmia, era scivolata nel fango di un vialetto. Per non infangarsi tutta aveva messo istintivamente giù la mano destra e il peso del corpo aveva gravato tutto su di essa provocandole una distorsione al polso. Come le era gonfiato! Le era diventato come un enorme salsicciotto, livido da far paura. E il dolore: se muoveva la mano, sentiva delle fitte lungo tutto il braccio che la lasciavano senza respiro. Meno male che c’era lui, il suo uomo, che non aveva esitato a mollare lì tutto quanto e ad accompagnarla al pronto soccorso nonostante sua figlia si fosse offerta ripetutamente di portarcela lei. No, lui non la lasciava da sola, non si fidava di nessuno, voleva esserci lui ad accudirla. E anche in quei frangenti, con la vendemmia incombente e dei giornalieri da controllare, la cosa più importante restava sempre lei. Si ricordava ancora come era corso ad aprirle la portiera una volta arrivati all’ospedale: sembrava un attore da film americano, agile ed elegante come quando ballava; e le sorrideva, cercando di rassicurarla. Com’era bello!
Una volta ripulite le uova, le mise sul tagliere e cominciò a sminuzzarle. Queste sì che erano ruspanti, venivano dal suo pollaio. Si era ridotto a poca cosa il suo pollaio, ormai c’aveva solo una decina di galline, ma un tempo ne aveva tenuto quasi un centinaio e aveva venduto uova e polli a mezzo paese. Ci si faceva i soldi per la spesa, che suo marito si meravigliava che non avesse mai bisogno di niente. Ma le bastavano, sapeva amministrarli. Del resto come avrebbero potuto farsi la casa nuova e comprarne una anche per Carla se non fossero stati capaci a risparmiare? Quelli del raccolto li mettevano quasi tutti da parte e se non ne tocchi fai poi presto a farti un bel gruzzolo. Mica da diventarci ricchi, per carità, ma da essere all’onore del mondo e averci un tetto tuo da dove nessuno ti possa mandar via. Perché non c’è cosa peggiore che non avere una casa tua, lei lo sapeva bene: quando era una bambina e i suoi erano mezzadri dal marchese, avevano dovuto andarsene dalla cascina Fontanile dov’era nata e lei aveva ancora negli occhi il carro trainato dai buoi del loro vicino che li portava via con quattro sedie, un tavolo e i sacconi per dormire. Allora, nella sua mente di bambina, aveva chiesto alla Madonna che non le facesse più provare una cosa del genere e poi crescendo aveva dato una mano alla Vergine affinché il suo desiderio si esaudisse. E la Vergine l’aveva ricompensata con quell’uomo insieme al quale aveva subito avuto la certezza che niente di simile le sarebbe mai più capitato.
Le uova non erano tutte uguali, avevano ben dire. Si vedeva bene da fresche quando le spaccavi: se erano di pollaio, il rosso era davvero quasi rosso, denso, cremoso, e se lo lavoravi cresceva che era un piacere, soprattutto nella maionese; se invece erano uova di allevamento, il rosso era di un giallo scipito, acquoso, e quando lo mescolavi agli altri ingredienti, anziché rinvigorirli e amalgamarli ci spariva dentro, come se fosse davvero acqua. Ma lo potevi vedere anche da sode, perché il rosso restava lì inerte, come una gelatina, e non diventava cremoso, avvolgente, ma bisognava fare una fatica orba per impastarlo.
Vuotò il tritato dentro una scodella e ci versò un po’ di olio d’oliva. Poi cominciò a rigirarlo con un cucchiaio delicatamente, pian piano si sarebbe trasformato in salsa. Ma non riusciva a tenere ferma la scodella e il movimento rischiò alcune volte di farle rovesciare il contenuto. Si concentrò al massimo, ma le dita della mano sinistra non le rispondevano più.
Improvvisamente sentì un dolore lancinante in mezzo al petto, come la lama di un pugnale che glielo squarciasse. E quella fitta le si propagava come una scossa per tutta la parte sinistra del corpo e poi ritornava indietro lì, in mezzo al petto, per ripartire ancora più forte di prima un’altra volta, a ondate successive. Riuscì a stento a sedersi, quasi lasciandosi cadere sulla sedia. Ora anche la vista le si annebbiava e cominciava a girarle la testa. Provò ad afferrare la scodella, ma ogni volta le pareva di toccarla e invece continuava a sfuggirle. “A dévu fòila” si ripeteva “A iö prumissu a mè névu a solsa e a vöju mantéggne a prumissa”. Nessuna preoccupazione invece per ciò che le stava succedendo.
Ci aveva pensato spesso alla morte, soprattutto da quando se n’era andato il suo uomo. Prima il pensiero l’aveva appena sfiorata, anzi, le sembrava che fin che ci fosse stato lui niente avrebbe potuto capitarle. Poi, da quando lui era mancato così all’improvviso, era iniziata per lei una vera e propria attesa, perché ormai la vita aveva perso ogni significato. Del resto per lei la vita era soltanto lui. Sarebbe dunque stato molto facile vivere ancora quello che le restava da vivere, poco o tanto che fosse lei era pronta a raggiungere suo marito di là in qualsiasi momento.
Chi non era disposta ad accettare quella situazione era Carla. Lei amava suo padre e quando era mancato ci aveva sofferto molto, anche per quell’incompiutezza affettiva dovuta all’interferenza di sua madre. Ma dietro quel lutto aveva intravisto la possibilità di raggiungere almeno lei, di farla uscire da quell’esclusiva sentimentale che l’aveva sempre tenuta lontano. E invece lei si era chiusa ancora di più nel suo bozzolo e faceva la madre e la nonna solo per ragioni biologiche, mai che ci fosse uno slancio nei confronti di sua figlia e di suo nipote. Che la cercava in continuazione, come se fosse la migliore delle nonne.
Finalmente riuscì ad afferrare la scodella. “A dévu tiròla pian” pensò “ se no u finisscia ch’a la ’nvèrsu”. Se la avvicinò, quasi le incombeva addosso con il corpo, e lentamente le passò il braccio attorno; ma dovette spostarlo con l’altro, che da solo non ce l’avrebbe mai fatta, ormai era come paralizzato. Quando l’ebbe bloccata da quella parte, se la tirò fino contro il petto, stringendola come in una morsa. “Ovvra ti nè sc-còppi ciü” si disse con una smorfia di compiacimento. Poi riprese a mescolare la salsa con il cucchiaio, sarebbe bastato poco per rifinirla.
Sì, stavolta l’avrebbe raggiunto davvero il suo uomo. Da quando se n’era andato, ogni volta che si era sentita poco bene aveva sempre sperato che fosse la volta buona. Ma dentro di sé capiva che era soltanto un desiderio e il corpo non era ancora pronto per fare quel passo. Ora, invece, l’aveva deciso lui di andarsene, senza neanche interpellarla, e poco ci mancava che la facesse venir meno alla promessa. Ma ce l’aveva fatta, per il rotto della cuffia ma ce l’aveva fatta.
“Póvvru nanin!” si disse “at’ mancherà tó nonna”. Ma non ebbe neanche finito di dirlo che si sentì un’ipocrita. Perché, sì, lei c’era stata con lui, non avrebbe potuto fare diversamente, c’era bisogno di tenerlo ’sto bambino, ma mai una volta che si fosse lasciata andare, che l’avesse percepito come carne della sua carne, che l’avesse sentito vicino fisicamente. Eppure lui se l’abbracciava, se la stringeva, e guai a chi gli toccava la sua nonna. E lei le riceveva tutte queste coccole, stava diligentemente al gioco, ma le viveva in modo razionale, come una pratica inevitabile e necessaria. E comunque le riceveva soltanto, mai che a sua volta l’accarezzasse o lo sbaciucchiasse o lo scarruffasse un po’ come è naturale in un rapporto tra genitori e figli. Beh, ma lui era il nipote, ci si contiene di più con i nipoti, forse perché c’è di mezzo qualcun altro, i figli o addirittura degli estranei. Ma perché voleva continuare a ingannarsi? E a ingannare? Lo stesso atteggiamento l’aveva avuto con sua figlia, e lì non c’era di mezzo nessun altro. C’era però lui, il suo uomo.
È mai possibile amare così tanto una persona da perdere di vista tutti gli altri? Pensare incessantemente a lei in ogni istante della propria giornata, della propria vita? Sentirsi vivi soltanto quando è con noi, si mangi, si dorma o si faccia l’amore? Lei aveva vissuto così, privando tutti gli altri che la circondavano dell’amore di cui anche lei aveva bisogno, ma che teneva egoisticamente per sé, preoccupata di perderne anche una goccia. Aveva goduto la sua felicità lontano da tutti, forse a spese di tutti, e allora aveva ragione Carla a rinfacciarglielo. Povera Carla! Non le aveva mai dato una soddisfazione, neanche quando aveva preso la maturità con il massimo dei voti e la lode. L’avevano messa anche sul giornale, e quando gliel’aveva fatto vedere lei aveva commentato con una smorfia, senza neanche degnarla di uno sguardo. Ma era sempre stato così, fin da bambina, mai che ne fosse stata orgogliosa. E sempre perché pensava solo a lui.
“L’è véra, a sun sc-tòia ’n eguisc-ta” si disse “E un disc-piòxa, per Carla, per mè névu, per tücci. Ma’nsciünn-i u pó capì ’s’è ch’l’è sc-tò lé per mi”. Tutto a un tratto sentì una stanchezza infinita, profonda, che le saliva su per il corpo e le prendeva la testa; e la testa diventava sempre più pesante, confusa, e gli occhi le si chiudevano nonostante cercasse di tenerli aperti. “I duvrésscia tosc-tu esse chi, almenu salitòie…” fu l’ultima cosa che riuscì a dire. Poi lasciò cadere il cucchiaio, appoggiò il capo sul tavolo e si addormentò.
La salsa verde era pronta.