Lo scatolone dei desideri

La vigilia di Natale ho ricevuto una telefonata da mio fratello che mi ricordava come nel 1960 o 61, entrambi non ricordiamo bene l’anno, in prossimità del Natale nostro zio, che abitava a Genova, ci aveva fatto sapere tramite il corriere del paese Nan ’di Sélla (della cascina Ca’ di Sélla) che un cognato di sua moglie, un certo Broli che faceva il portiere in un palazzo di Albaro, quartiere storico della borghesia genovese, ci avrebbe inviato la vigilia di Natale uno scatolone – proprio così, uno scatolone! – di regali. Alt, ferma un momento! Regali… si trattava di giocattoli e cose similari che i figli dei signori avevano buttato nella spazzatura perché vecchi e rotti e lui, anziché mandarli in discarica, li teneva e poi li regalava a qualcuno dei suoi tanti parenti. E quell’anno toccava a noi.

C’è da dire che in quegli anni per noi bambini dei paesi, figli di gente semplice, che per lo più lavorava in campagna e sbarcava con fatica il lunario, l’idea dei giocattoli era un’idea remota in quanto eravamo cresciuti imparando a farceli, a inventarceli, oltretutto senza tanti termini di paragone mediatici se non la tradizione popolare paesana. Succedeva quello che ho raccontato in una mia poesia/canzone in dialetto intitolata “Zü da i paîze” (Giù dal paese): “Zü da i paîze u zöga di fiöi / cu i biglie, i ciaplinn-i e cun di risöi / a sc-cunda lévre, fusètta e mandillu / cun tóccu d’lèggnu i fan in cavòllu”. “Giù dal paese giocano dei bambini, con le biglie, i tappi delle bottigliette di gazzosa (la bevanda a cui allora aspiravamo tutti) e con delle pietre, a nascondino, a fossetta (con le biglie) e al fazzoletto, con un pezzo di legno ci fanno un cavallo”. Da tener presente che “Zü da i paîze” era la denominazione della via principale del paese che in effetti, a livello urbanistico ufficiale, era ed è “Via Benedicta”.

Ce li inventavamo, dunque, i giocattoli e i giochi, sprigionavamo un immaginario formidabile che non ci faceva certamente divertire meno di coloro che i giocattoli ce li avevano già belli e fatti. Certo, se poi arrivava uno scatolone di giocattoli (rotti) da Genova, il cuore batteva comunque forte.

Lo scatolone doveva dunque arrivare con Nan la sera della vigilia. Lui, che portava anche il vino a Genova, aveva il deposito merci al Poggio, la piazzetta più alta del paese, dove abitavamo anche noi. Era nella cosiddetta “Ca’ da Gexa”, casa della chiesa, di proprietà della parrocchia. Nan era passato da casa nostra alcuni giorni prima dicendoci che sarebbe arrivato verso le nove di sera per cui noi, il giorno fatidico, appena cenato (allora, d’inverno, si cenava alle sei e mezzo, massimo alle sette) ci andammo a sedere sullo scalino d’entrata del suo magazzino. Faceva freddo, c’era in giro neve nell’aria, ma noi non lo sentivamo tutti presi a fantasticare su cosa avremmo potuto trovare in quello scatolone dei desideri.

Vennero le otto, il campanile della chiesa parrocchiale scandiva il tempo battendo anche i quarti d’ora. Le otto e mezzo, le otto e quarantacinque e, finalmente, le nove. L’emozione ci toglieva quasi il respiro. Nove e un quarto… niente… nove e mezza… niente… e così anche nove e tre quarti, dieci e dieci e un quarto… Restammo lì al gelo intenso di quella sera fino a mezzanotte, cercando di convincerci che forse aveva trovato troppo traffico (immaginate che traffico ci poteva essere allora…), che gli era venuto tardi per le consegne di vino che aveva dovuto fare, che forse era passato a salutare sua sorella che abitava proprio a Genova… Insomma, quando suonò la mezzanotte non riuscimmo più a raccontarcela e rientrammo a casa come se ci avessero bastonati. A niente valsero le giustificazioni che cercò di trovare mia madre, ormai ci sentivamo traditi e andammo a letto con il magone.

Lo scatolone arrivò la settimana dopo, in tempo per l’Epifania. C’era dentro un po’ di tutto: un trenino di legno con la locomotiva a pezzi, un altro, forse elettrico, ma che non aveva presa né rotaie, una matassa di scoubidu e qualche intreccio già fatto, un orologio/giocattolo a pendolo che però non funzionava, tre palline da tennis sgonfie, due paia di guanti di pelle spaiati, alcuni soldatini di piombo e di gesso per lo più mutilati (beh, lo era anche quello della fiaba), una racchetta da tennis sfondata, un paio di sci di legno con gli attacchi rotti e tante altre cose che ora non ricordo. Una però la ricordo bene: una macchina da corsa stile Nuvolari, lunga trenta/trentacinque centimetri, di ferro o altro metallo pieno, rossa fiammante come la Ferrari, anche se un po’ scolorita, con grandi ruote di gomma piena. Peccato che gliene mancasse una. Ma era così bella, così vicina al concetto di giocattolo che avevamo allora, cioè che fosse solido e duraturo, che ci giocai a lungo anche senza ruota sostenendone solidaristicamente l’equilibrio. Del resto come avrei potuto fare diversamente visto che sono cresciuto con un padre senza una gamba che nonostante la disabilità ha vinto in pieno la corsa della sua vita? Quella macchina senza una ruota era in fondo per me la normalità.

Ma questo racconto sulla nostra strana vigilia di Natale, oltre a raccontare una diversità sociale che riteneva normale che qualcuno si accontentasse degli scarti degli altri – e qui ci sarebbe da ragionare a lungo sui complici che lo favorivano – mi pare che possa rappresentare anche un’anticipazione della trasformazione consumistica che a partire da quegli anni ci ha poi cambiati radicalmente.

Esaminiamo innanzitutto l’occasione, cioè la festa natalizia cristiana che da allora ha subito una mutazione sostanziale diventando sempre meno religiosa e sempre più laica e veicolo commerciale. A tal punto che anche gli interpreti sono cambiati, perché quelli di prima non erano più confacenti alle leggi del mercato. Ecco che allora al Gesù Bambino nato a Betlemme e destinato, per i cristiani, a cambiare il mondo è stato sostituito un buontempone dei paesi del Nord Europa, Santa Claus, che, pur avendo una lontana origine nella persona di San Nicola di Myra, in Turchia, si è completamente laicizzato diventando un distributore seriale di regali la notte della vigilia. E la stessa cosa è avvenuta per i Re Magi, i tre sapienti che erano venuti dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa per rendere omaggio al bambino Gesù. Anch’essi sono stati sostituiti dalla Befana, personaggio variamente attribuito nel Sud Europa a una figura femminile propiziatoria dei raccolti in epoca romana e nel Nord a una figura germanica, una vecchia ingobbita e con il naso adunco che si muove a cavallo di una scopa, rappresentazione simbolica dell’anno vecchio. E, in entrambi i casi, si tratta di personaggi che non hanno alcuna fisionomia spirituale, ma concretamente laica e materiale, e sono pienamente a loro agio nell’emulsione progressiva del valore economico del regalo.

A questo punto mi viene da fare una considerazione: forse che l’approccio religioso al regalo, valorizzato per la sua funzione di dono e non come bene di consumo con un valore di mercato sempre più caro, è stato l’ultimo argine al delirio parossistico e compulsivo della merce e del superfluo proprio della contemporaneità? E come poteva la rappresentazione sacrale della povertà evangelica continuare ad andare d’accordo con tutto questo? Non si trattava, dunque, in questo passaggio di testimone, semplicemente di un fattore di scristianizzazione della società occidentale, ma piuttosto della sconfitta di un’idea sobria della vita, più improntata all’essere che all’avere?

Un dato è certo: quella che viene definita emancipazione dall’irrazionale religioso non ha prodotto, in alternativa, una diffusa razionalità laica virtuosa tale da migliorare eticamente e culturalmente l’individuo. Anzi, la laicità e il libero (presunto tale) pensiero sono stati interpretati dalla massa in modo sfrenatamente individualista, una lotta senza tregua l’uno contro l’altro che ci sta sprofondando in una nuova barbarie. E tutto questo senza alcun riferimento o conforto come era una volta la fede religiosa o politica della stragrande maggioranza.

Del resto l’umanesimo laico, secondo lo scrittore ungherese Sándor Márai, era finito con la Prima Guerra Mondiale che aveva spazzato via tutte le illusioni di “magnifiche sorti progressive” della Bella Epoque. E anche i tentativi di rivitalizzarlo tra le due guerre portati avanti dalla Società Umanista di New York a cui aderirono Huxley, Dewey, Einstein e Thomas Mann furono spazzati via dall’atroce follia della Seconda Guerra Mondiale provocata dall’irrazionalismo fideistico laico dei populismi autoritari.

Sono questi, purtroppo, gli stessi fermenti che ribollono oggi nella pentola bruciacchiata del vecchio mondo occidentale, che dopo aver monetizzato tutto, pace e guerra, è “percosso, attonito” di fronte alla sua crescente impotenza e allora vuole mostrare i muscoli che non ha più da tanto tempo, sprofondando sempre più nel suo fallimento. E così riemergono uomini del destino e tornano a galla ideologie di intolleranza, di sopraffazione, di razzismo e di suprematismo, che riscoprono, come in un leit motiv ormai consunto, lo specchio per le allodole del nazionalismo.

Ma purtroppo sono poche le voci che hanno il coraggio di opporsi a tutto questo con atti concreti e prese di posizione che non siano semplici comparsate attoriali. Coloro che non credono che il connubio materiale e culturale capitalismo e tecnocrazia possa essere la panacea per i mali del mondo, ma, anzi, pensano che ne sia il devastante moltiplicatore. Uomini e donne che credono ancora al valore simbolico del dono nelle relazioni interpersonali, come in un rito natalizio del passato. Dono che non si ferma a chi lo riceve, ma si moltiplica come esempio di relazione, di accoglienza, di condivisione. Come era il regalo di Natale quando eravamo bambini, che non stimolava la nostra vanità materiale, ma semplicemente il piacere di ricevere e di ricambiare che era il vero premio a cui aspiravamo. Perché in fondo noi ci divertivamo di più con i giocattoli  che man mano inventavamo, che diventavano la concretizzazione di ogni nostro grande o piccolo sogno.

 

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