Avevano avuto la segnalazione dal basista di L. che aveva saputo di quel carico prezioso in partenza per G. Era stato preciso nei dettagli, quanti erano i mezzi utilizzati e gli uomini di scorta, il tragitto che avrebbero fatto e l’orario di partenza. Ora toccava a loro organizzare l’agguato, scegliere il punto migliore dove metterlo in atto e le modalità con cui farlo. Avevano due giorni di tempo per preparare il piano, fare i sopralluoghi necessari e predisporre i mezzi e le armi adeguate. Per cui si misero subito al lavoro, e lo fecero meticolosamente, come dovevano fare dei professionisti.
Dopo alcune ipotesi valutate nei minimi particolari, decisero la linea da adottare. Avrebbero attaccato il furgone al ponte delle Crose, là dove quel bizzarro ponte fatto ad esse attraversava il rio della Cascina Grossa. Una strana storia aleggiava su quel luogo, lo stupro e l’omicidio di una donna che una sera tornava a casa dal lavoro nel cotonificio di Ovada percorrendo per l’appunto la crosa. L’aveva uccisa un suo vicino di casa, ma in galera c’era finito il suo fidanzato. Soltanto in punto di morte l’altro aveva confessato, ma erano passati vent’anni e il ragazzo era diventato vecchio. E sebbene fosse ormai una storia lontana, continuava ad essere ricordata nell’immaginario della popolazione locale che ogni volta che attraversava quel ponte provava una sorta di brivido addosso. Poi, quando pareva ormai che il ricordo fosse svanito, un’altra donna era stata uccisa su quella crosa, una ragazza che ci correva per svago. E ancora le indagini non avevano portato a niente e l’incubo dell’assassino era tornato a pesare su tutti quanti.
M., che era l’elemento di spicco del gruppo, aveva insistito con gli altri per sferrare l’attacco proprio in quel luogo, sia per ragioni logistiche che per quell’aura macabra che l’avvolgeva e che, secondo lui, aveva un effetto ammaliante su chiunque l’attraversasse, e probabilmente l’avrebbe avuto anche sugli uomini che scortavano quel carico prezioso. Le condizioni ambientali, poi, erano le migliori possibili, in quanto quella strana curva e controcurva rallentava la velocità di qualsiasi veicolo e aveva al suo inizio e alla sua fine due strade di campagna che sembravano fatte apposta per organizzare un agguato. Decisero dunque di appostarsi con una macchina e due uomini nella prima strada e con il furgone e gli altri tre nella seconda. Quando fosse arrivato il convoglio, avrebbero chiuso il furgone portavalori e l’auto di scorta in una morsa senza via d’uscita.
Venne dunque il giorno fatidico e, verso le dieci, il basista telefonò a M. per dire che il furgone era partito e che gli uomini della scorta erano quelli previsti: l’autista e un agente con mitraglietta e giubbotto antiproiettile sul furgone, due agenti sull’auto di scorta. M. e Z. accesero quasi simultaneamente i motori, pronti a immettersi sulla strada quando fosse apparso il furgone. Erano tesi, ma calmi, sapevano bene che cosa dovevano fare. Del resto c’erano abituati a quelle situazioni, ne avevano fatto a decine di quei colpi. Ma un carico importante come quello a loro non era mai capitato. Se fossero riusciti a portarlo a termine, sarebbero entrati di diritto nell’élite dei rapinatori.
Quando il furgone con il carico prezioso cominciò a rallentare lungo la discesa che precedeva il ponte, la macchina che attendeva nella prima strada lo seguì come se si fosse immessa nella provinciale per puro caso. Nel frattempo anche il furgone aveva cominciato a muoversi e prima che il portavalori raggiungesse la curva finale del ponte era già di traverso sulla strada a ostruirgli il passaggio. Immediatamente sia dal portavalori che dall’auto di scorta scesero gli agenti con le armi in pugno, ma non ebbero neanche il tempo di rendersi conto di che cosa stava succedendo che furono colpiti dal fuoco incrociato dei mitra dei rapinatori e caddero a terra crivellati di colpi. Subito il genovese, che era esperto di casseforti e di mezzi blindati, fece saltare il dispositivo di chiusura con una micro carica di esplosivo e spalancò le porte del portavalori. Era carico fino al soffitto di centinaia di sacchetti tutti uguali dai quali emanava inconfondibile l’odore del denaro. A quella vista M., G. e R. provarono un’emozione indicibile, come se finalmente avessero raggiunto il traguardo più ambito della loro vita, un bottino che avrebbe loro assicurato un inverno più caldo del previsto. Ma non c’era tempo da perdere e allora fecero catena a caricare tutti quei sacchetti sul loro furgone e a ogni sacchetto che si passavano sentivano crescere dentro l’orgoglio per ciò che stavano facendo. Intanto i loro compagni della seconda macchina proteggevano l’operazione vestiti da poliziotti e con la sirena luminosa accesa fermavano tutte le auto che stavano sopraggiungendo.
Quando tutto fu caricato, il furgone partì sgommando seguito a ruota dalla macchina che ancora per un tratto tenne la sirena accesa. Poi, al bivio della Caraffa, il furgone si diresse verso l’autostrada e la macchina verso Novi. L’accordo era quello di ritrovarsi in Alessandria, al rione Cristo, in una casa un po’ decentrata dove avevano la base del commando.
Neanche un’ora dopo erano già tutti arrivati a destinazione. La cascina, ai margini della città, era circondata da un muro alto due metri per cui potevano muoversi all’interno in piena libertà. Ancora euforici per l’esito dell’impresa, scaricarono i preziosi sacchi nella vecchia stalla ora adibita a magazzino. E ridevano mentre lo facevano, il loro sarebbe stato davvero un bell’inverno.
Poi, all’improvviso, si udirono due spari che rimbombarono a lungo nel cortile. Z. e C., che stavano scaricando gli ultimi sacchi dal camion, si guardarono perplessi e dopo un istante di esitazione corsero verso l’ingresso del magazzino dove erano esplose le detonazioni. Ma come lo raggiunsero furono investiti da due vampe di fuoco che li colpirono in pieno petto. Colpi ravvicinati di 44 Magnum, che lasciano senza scampo. Pochi istanti dopo M. uscì dalla porta scavalcando i cadaveri dei suoi due compagni con ancora la pistola fumante in mano. Raccolse gli ultimi sacchetti rimasti sul furgone, li portò dentro e poi, tenendone uno sollevato per aria, lo squarciò con un coltello. Il contenuto gli cadde addosso ricoprendolo dalla testa ai piedi. Ma come se non fosse ancora contento ne squarciò un altro e un altro ancora rovesciandosi anche quelli addosso…. Ci voglio fare il bagno in questa roba, continuava a ripetersi, come Paperon de Paperoni nel suo deposito di dollari… E mentre lo diceva ne prendeva anche dei pezzi in bocca e li assaggiava come se fossero cibo corroborante, avevano uno strano sapore di resina di abete… Sarà il mio inverno più caldo, aggiungeva, io me ne fotto delle loro restrizioni, della crisi energetica e dei loro prezzi triplicati e quadruplicati… Intanto in terra cominciavano ad accumularsi i sacchetti vuoti di quel carico prezioso e su ognuno di essi c’era scritto “Agri Pellet Prime Certificato A1”.