Per ricordare una signora della montagna di Marcarolo che domani avrebbe compiuto novantacinque anni
L’uomo stava tagliando il prato con la falciatrice, una vecchia BCS a due ruote. Un prato in una riva, con la macchina ai limiti del ribaltamento. Eppure l’uomo manovrava il mezzo con naturalezza, come se fosse abituato a lavorare in quelle condizioni. Faceva tutta la tagliata in senso orizzontale, poi, quando arrivava ai margini del prato, impennava la macchina e la faceva ruotare su se stessa con una scaltrezza incredibile, saltellando quasi sospeso in aria per tutta la giravolta. E poi ripartiva con determinazione ripetendo dall’altra parte la stessa acrobazia.
Piero si sedette sulla proda che sovrastava il terreno e stette a guardarlo incantato. L’uomo era a dorso nudo e aveva in testa un cappellino con la visiera con la scritta “Husqvarna”, una marca di motoseghe. Era magro, tirato, nervegno più che muscoloso, e aveva sulla pelle abbronzata il segno pallido della canottiera. Si capiva dalle grinze della pelle sul collo e dal cascame nelle braccia che era vecchio, ma quella acrobatica agilità lo faceva sembrare un ragazzino.
Si fermò soltanto quando ebbe finito di tagliare il prato. Allora frenò la macchina, alzò la lama e spense il motore. Poi si tolse lentamente il cappellino, si passò l’avambraccio sulla fronte e, dopo essersi ravviato i pochi capelli grigi, disse: – Bello guardare lavorare gli altri!
Piero si riscosse da quella sorta di contemplazione e d’istinto rispose: – Guardare lavorare lei è come essere al cinema.
– Ah, è davvero un bel cinema – disse l’uomo scuotendo ripetutamente il capo. Poi, si fermò di colpo e aggiunse guardando Piero dritto negli occhi: – È un lavoro da matti che non rende niente! Ci vuole il mio coraggio a farlo, ma cosa vuole, non li posso vedere i prati in disordine.
– Stamattina ho fatto il giro della valle e ne ho visto tanti ormai persi.
– Ah, se aspetta un po’, ci vede anche questi qui belli persi.
– Da come l’ho vista lavorare non direi.
– Ma lo sa quanti anni ho?
– Ne avrà… massimo settanta.
– Eh, sì, quasi – disse l’uomo abbassando la testa. Poi la risollevò deciso e aggiunse: – Ne ho ottantuno, compiuti il mese scorso.
– Accipicchia, non li dimostra! Davvero, non li dimostra.
– Eh, ma ci sono tutti… oh, se ci sono.
L’uomo aveva il viso affilato, con le guance scarnite che parevano due fossette; ma soprattutto un bel naso aquilino che gli dava un aspetto fiero, grifagno. Dietro, però, quell’apparente rapacità si percepiva un’espressione ironica che l’arco della bocca tradiva in continuazione.
– Beh, venga su con me che andiamo in casa a bere qualcosa.
– Ma no, lasci stare, magari lei deve finire.
– Oh, per oggi ho finito, faccio festa -. E senza aggiungere altro mise in moto la falciatrice e con la consueta dimestichezza s’avviò su verso la cascina.
Quando entrarono nella grande cucina a piano terra, Piero ebbe la sensazione di entrare in un forno: nonostante fosse agosto, una stufa a due bocche era accesa e una pentola bolliva sul fuoco.
– Ruzétta! Ruzétta! – gridò l’uomo. Poi, rivolto a Piero, aggiunse: – Quando la cerco, non c’è mai.
– È sua moglie?
– No, no, è mia sorella. Ma si sieda, si sieda -. E ripeté: – Ruzétta, dunde t’é?
– Végnu! – si sentì gridare da fuori.
Poco dopo la porta si aprì: apparve una vecchina riccioluta, con i capelli grigi d’argento, anche lei ossuta ma nervegna, e con uno sguardo da sparviere che ti trapassava all’istante; era vestita di lana nonostante la stagione e aveva in grembo un cestino con dei pomodori e della cicoria.
– Buongiorno! – disse Piero alzandosi immediatamente.
Lei ribadì “Buongiorno!” con una voce sommessa, guardinga, e diede uno sguardo all’ospite da capo a piedi.
– Mi chiamo Piero e vengo da Torino. Sono qui per fare un’escursione nella valle – disse lui porgendole la mano.
– Come mi chiamo io lo sa già, quello lì l’ha gridato tanto forte – rispose lei stringendogliela appena, e mentre lo diceva aveva la stessa espressione ironica che lasciava trasparire suo fratello. Poi si avvicinò alla tavola e vi poggiò sopra il cestino.
– Ti l’è pijàu u radiciùn?
– Eh, ti vö che nu l’agge pijàu?
– Questo è il nostro pranzo – disse l’uomo indicando la verdura. – Sano, leggero, e toglie la sete. A proposito: ne ho detto tante, ma mi sono dimenticato di dirle il mio nome. Io sono Beppe, e lei Piero, se non ho capito male.
– Sì, Piero.
– E viene da Torino.
– Sì.
– Una città grossa Torino.
– Eh, abbastanza.
– Io non ci starei nemmeno se mi legassero.
– Ma cose ti dixi, cose u gh’interessa a lé! – intervenne Ruzétta.
– Fassu pè di’! Mi nu ghé sc-taiéiva mancu…
– La capisco, eccome se la capisco. Uno che è abituato a vivere qui non ci potrebbe stare in città.
– Ma scherza! In quel casino lì, macchine, cami, palazzi, negozi… ci diventerei bello matto.
– Lo diventiamo anche noi che ci siamo cresciuti.
– Ma… cambiando discorso: è quasi mezzogiorno, lei dove va a mangiare?
– Ho dei panini nello zaino, contavo di mangiare nei prati qui sopra.
Beppe guardò Ruzétta con un’espressione complice, poi, rivolto di nuovo a Piero, disse: – Guardi, se si accontenta di un po’ di minestra e di pomodori e radicchio, ci fa piacere se si ferma qui con noi.
Piero era imbarazzato, ma la proposta lo lusingava. – No, no, vi ringrazio, siete troppo gentili.
– Non faccia complimenti, se si accontenta ci fa piacere.
– Ma davvero, non voglio…
– Si metta a tavola – disse Ruzétta risolutiva – che la minestra è quasi pronta.
Piero continuava a ringraziarli, a ribadire che non voleva disturbare, ma il fatto che l’avessero invitato così, senza nemmeno quasi conoscerlo, lo riempiva di gioioso stupore: mai avrebbe immaginato che potesse succedere una cosa del genere.
– Ha visto che pomodori? – disse Beppe orgoglioso.
– Belli, belli davvero. Che cosa sono, “cuore di bue”? – chiese Piero in un velleitario tentativo di riconoscimento.
– No, no, noi mettiamo ancora quelli di una volta. Teniamo la semente da un anno all’altro. Lo faceva nostro padre e abbiamo continuato a farlo anche noi.
– E che qualità sarebbero?
– A questi – disse Beppe prendendone in mano uno – ci dicono “tondo liscio” e a quest’altri – ne prese in mano un altro – “costoluto genovese”. Che poi ora dicono tutti di averceli, ma ce l’hanno che lo sembrano, però non lo sono -. Poi porgendoglieli aggiunse: – Ma senta, senta che profumo hanno.
Piero li prese in mano: uno era perfettamente tondo e liscio come diceva il nome, poteva sembrare il pomodoro “insalataro” che vendevano nei supermercati; l’altro era scanalato, con costole rilevanti e solchi profondi come non aveva mai visto. Li annusò e, fosse perché li avevano appena colti dall’orto o perché avessero davvero un profumo diverso, l’aroma che percepì era intrigante, selvatico e familiare nello stesso tempo.
Intanto Ruzétta aveva cominciato ad affettarli in un grilletto, tagliandoli a grandi fette che parevano raggiate. Poi si mise a preparare anche il radicchio e, stringendo il mazzo delle foglie con una mano, lo tagliava a strisce minute sul tagliere con colpi secchi e precisi.
Quando il grilletto fu colmo, apparecchiò e tolse la minestra dal fuoco. Posò direttamente la pentola sul tavolo, perché restasse calda, utilizzando un poggia pentole d’alluminio che pareva la corona di latta di un re travicello. Poi riempì con il mestolo prima il piatto dell’ospite, poi quello del fratello e infine ne versò appena mezzo nel suo.
– Sc-tann-i aténta che nu té fasse ma – le disse Beppe accentuando il tono ironico delle sue parole.
Lei guardò Piero con gli occhi ridenti, come per prendere in giro suo fratello.
Era una minestra di fagioli, bietola e cipolle, cotta a pezzi, densa, con una pasta che lì chiamavano “brichétti”. C’era dentro una cotica di maiale che le dava un leggero sapore di carne.
Piero era sbalordito da come Beppe la buttava giù, senza quasi soffiare nel cucchiaio, mentre lui doveva sorbirla lentamente, gingillando il cucchiaio avanti e indietro e soffiandoci di continuo per riuscire a metterselo in bocca. A tal punto che Ruzétta gli chiese se per caso non gli piacesse.
– No, è buonissima, è che per me è ancora calda.
– Ah, a me piace bella calda, estate o inverno che sia – disse Beppe – Il motore deve scaldarsi se vogliamo che renda.
– In quantu – replicò Ruzétta – semmu ’nti ‘na sc-tagiùn che cadu ghe l’emmu sensa besöggnu de sc-câdase. Cosa ne dice lei?
– Se ho capito bene, fa già caldo così e non c’è bisogno di scaldarsi.
– Sa come ci diciamo noi qui: levare la neve, soffiare nella minestra e ammazzare la gente sono lavori inutili, perché tanto poi lo fanno da soli. E lei faccia così, aspetti che venga fredda. Io la faccio raffreddare nello stomaco.
Mangiava lesto Beppe, e qualche goccia di sudore cominciava a colargli sulla fronte. Poi pian piano due aloni di sudore gli apparvero anche sotto le ascelle, ma lui continuava a buttare giù quel brodo bollente e ogni tanto mormorava “Ah, che pru!” con un’espressione di godimento.
Venne il momento del “condigione” e Beppe tirò fuori dalla vetrina una testa d’aglio.
– Almenu dìghelu s’u ghè dà fasc-tidiu – gli disse Ruzétta.
– È ti pö capì s’u ghè dà fasc-tidiu, au mangiu mi, mia lé. Io ci metto l’aglio nei pomodori, lei faccia come crede.
– Non l’ho mai mangiati con l’aglio.
– Non sa cosa si perde. Senza aglio i pomodori non valgono un belino.
– Io spesso ci metto la cipolla di Tropea, sa quella rossa.
– Mi dispiace, ma non c’è paragone. Con l’aglio sono tutta un’altra cosa.
– Eh, bèn, a lé i ghè piaxiàn de ciü cu a siàula, cosu gh’intra – intervenne Ruzétta.
– Ah, lé cu fassa cumme u vö, ma mi diggu chè è tumate sun ciü bunn-e ’ncu l’aiu.
Beppe staccò tre spicchi dalla testa e cominciò a pulirli. Tolse prima la pellicina che li ricopriva tutto intorno, poi li divise a metà e ci tolse anche “l’anima”.
– Senza questa si digerisce meglio. Ou, che io lo digerisco a tutti i modi. Ma magari se lei volesse provare…
– Ma lascilu sc-ta! – disse Ruzétta.
– E sc-tann-i ’n pó sitta, u’u decidià lé cos’u vö fa. – rispose Beppe.
Poi tagliò l’aglio a pezzettini e, prima di spargerlo nel grilletto, disse un’ultima volta: – Se li mangia senza, se li tiri giù, altrimenti li condiamo tutti qui.
– Ma… quasi quasi vorrei provare con l’aglio.
– Bene! Non se ne pentirà, stia tranquillo! – gridò Beppe gettando l’aglio nel grilletto.
Ruzétta, con un’espressione un po’ scettica, versò un bel fiotto d’olio nel “condigione” e rimescolò tutto accuratamente.
– Tiri giù! – gli disse Beppe sollecito.
Piero, per educazione, tirò giù poca roba e allora Beppe prese il grilletto e gli riempì il piatto. – Mangi – gli disse – che questa è tutta roba che fa bene!
Cominciarono a mangiare e, man mano che Piero metteva in bocca pomodori, aglio e radicchio, Beppe lo scrutava come per capire quanto gli piacesse quella pietanza. Poi, visto che Piero mangiava silenzioso, attaccò lui: – Sente che sapore diverso che c’hanno? È come se l’aglio gli togliesse l’acido ai pomodori e li facesse diventare dolci. Ma non dolci come il dolce, voglio dire saporiti in modo giusto, bello rotondo, come quando mangi il pane appena lo sforni. E, per l’appunto, provi a pucciarci il pane in quell’olio lì: sentirà come è appetitoso. Uno ci finirebbe una micca nel piatto…
Piero era incuriosito dal sapore nuovo che stava gustando e, mentre Beppe decantava le qualità di quel condimento, gli pareva di riscontrarle veramente nel suo palato. Perché era vero, quel sapore pervadeva tutta la bocca, non si limitava a stimolare la sensibilità della lingua. Ed era qualcosa che potevi godere a lungo, al di là del momento vero e proprio della degustazione.
– E sentirà poi: una volta finito di mangiare le resterà in bocca un sapore pieno, forte, come se quell’aglio lo stesse mangiando sempre…
– U ghè sc-püsià u fià tüttu u dì! – disse Ruzétta sarcastica.
– Ma cose ti dixi, sun tütte balle! – le rispose Beppe. Poi, rivolto a Piero: – Dice che le puzzerà il fiato, ma son tutte idee delle donne quelle lì, non ci faccia caso. Quello che conta è quello che sente lei, non quello che sentono gli altri.
Intanto Ruzétta si era alzata ed era andata a prendere un po’ di legna per la stufa.
Beppe, furtivo, si piegò sulla tavola per avvicinarsi di più a Piero, poi gli sussurrò: – Sa, le donne non vogliono che si mangi l’aglio, perché l’aglio fa… come le posso dire, fa diventare più uomini, mi capisce? Fa aumentare il “tiraggio”, e allora uno ne ha sempre voglia.
Piero aveva sentito dire delle proprietà afrodisiache dell’aglio, ma aveva sempre pensato che fosse una delle tante “fole” che la gente raccontava per divertimento. E invece si ricordava bene la smorfia che facevano le donne se uno l’aveva anche solo sfiorato l’aglio, al punto di rinunciare all’amplesso.
– Io – continuò Beppe – lo mangio tutti i giorni da quando ero un bambino. E non ne mangio uno spicchio e via, ma dodici tutti i giorni.
– Dodici? – chiese Piero stupito.
Per mangiarne dodici, pensò, bisognava mangiarlo a colazione, pranzo e cena, forse anche a merenda.
– Dodici tutti i santi giorni. E le assicuro che… gli effetti si vedono.
Piero lo guardò imbarazzato, quell’uomo aveva ottant’anni.
– Non ci crede?
– No, no, se me lo dice.
– Funziono come quando avevo trent’anni, glielo garantisco.
Piero ripensò ai vari “viagra” e “impianti” cui certa gente ricorreva per essere “ancora uomini” e gli parvero un’aberrazione di fronte a quel semplice rimedio naturale che quell’uomo aveva adottato. Ma lo era davvero un rimedio? Oppure quell’uomo stava, come dire, giocando. E se invece fosse stato fuori di testa? Non sembrava, ma certe demenze senili, l’aveva sentito dire, si manifestavano solo nei confronti di particolari argomenti.
In quel momento rientrò Ruzétta e Beppe si tirò indietro sulla sedia.
– Lo mangia un po’ di formaggio? Lo fanno in una cascina qui vicino – disse la donna.
– Lo assaggio volentieri, sono un appassionato di formaggi.
Beppe continuava a guardarlo con quei suoi occhi furbi e ridenti e pareva orgoglioso di avergli confidato il suo segreto. Aveva le labbra socchiuse e ogni tanto le spingeva innanzi a trombetta con un movimento ritmico della bocca cosicché anche le sopracciglia, che aveva ispide e folte, gli si aggrottavano sul naso aquilino dandogli un’espressione da satiro.
– Qui ci diciamo “formaggetta” – disse Ruzétta posando in tavola un piatto con il formaggio – È di latte di vacca -. Poi, rivolta a suo fratello: – Ti ti nè vö?
– Ah, io non ne mangio di formaggio, non ci voglio avere a che fare con le vacche -. Fece una pausa. – Quelle lì, eh, che le altre invece mi piacciono, eccome.
Ruzétta guardò Piero e scrollando la testa gli disse: – Non lo stia a sentire perché è scemo.
– A saiö scémmu perchè u mè piaxe è dónne? Au saiéiva se nu mè piaxéssen!
– Le avrà raccontato la storia dell’aglio, ormai la sanno in tutto il Piemonte e la Liguria.
– Dice così perché è invidiosa e vorrebbe trovarlo lei un uomo come me.
– Ma ciàntila, chi t’é ciü végiu che Bacüccu!
– Ah, t’é zuéna ti. Io, giovani e vecchie, le prendo tutte. Mi raccomando, se viene un’altra volta, non porti la sua fidanzata, perché non guardo in faccia a nessuno.
– Scì, da’a vergöggna – disse Ruzétta ridendo.
Rideva anche Beppe, e rideva Piero, contento però che la sua ragazza fosse rimasta a Torino.