Una storia contadina
La solitudine del paesano
È finita, il paese che abbiamo vissuto non esiste più. Svanito nel giro di cinquant’anni: deserta la campagna, stravolto il paesaggio, mutata l’urbanistica e sparita la comunità. Irriconoscibile, da stropicciarsi gli occhi e chiedersi se è ancora lui. Ma sappiamo bene che non lo è più, lo sappiamo talmente bene che non riusciamo a scrollarci di dosso il disagio che proviamo, la malinconia che ci travolge. E non ci consola affatto sentir dire che è sempre stato così, che il tempo passa e le cose cambiano. Perché non è vero: il paese per secoli è cambiato, ma restando sempre se stesso, un paese contadino. Oggi è qualcos’altro, sicuramente non più un paese contadino perché, è un dato di fatto, la sua campagna è in pressoché totale abbandono. Ecco ciò che ha fatto la differenza: il paese ha cominciato a mutare e a morire quando la gente ha lasciato la terra.
Erano gli anni del boom economico, dell’industrialismo sfrenato, degli inizi del consumismo, dell’emancipazione sociale degli uomini e, soprattutto, delle donne che non volevano più essere subalterne. Gli anni del tempo libero, delle cucine componibili, dei servizi in casa, dell’acqua corrente calda e fredda. Come si faceva a restare in campagna? È stato un esodo impetuoso, la piena di un fiume che ha travolto una cultura millenaria che aveva resistito a guerre e invasioni e ogni volta si era ripresa. Stavolta no, stavolta non ce l’ha fatta. Non poteva farcela, il virus l’aveva minata alla base. L’illusione del benessere e il consumismo incombente l’avevano delegittimata. Fare il contadino era diventato un arcaico disonore, sia per i piccoli proprietari che per i mezzadri. Spartire con il padrone, su una terra non propria, come si poteva sopportare? Là, nelle città, li aspettava l’Eldorado. Fatto di posti fissi, di orari ridotti, di sabati e domeniche liberi. Altro che l’impegno costante di una vita contadina!
Chi non ha vissuto almeno gli ultimi scampoli della civiltà rurale che per millenni ha scandito le abitudini e i costumi dei nostri paesi non può capire che cosa ha voluto dire crescere in quell’ambiente. Si nasceva in sobrietà, ancora in casa, e la sobrietà era la cifra della nostra educazione, fatta di doveri tacitamente appresi e di sofferte privazioni che ti formavano più di un collegio di elite. Era l’etica del sacrificio, quello necessario per mandare avanti la baracca senza fare brutte figure, con dignità.
Un mondo che si basava più su un diritto orale e presto sottointeso che sulle leggi di un governo sempre troppo lontano. E fin da bambini s’imparava ad accontentarsi, ad arrangiarsi con quello che si aveva, a giocare – per fortuna questo abbiamo potuto farlo tanto – con pietre, bastoni e rottami che la nostra fantasia trasformava nei giocattoli più svariati. Eravamo i designer e i registi dei nostri giochi, non era possibile non avere fantasia. Ma per farlo dovevamo fare sempre i conti con le poche risorse materiali.
Allora, tranne due o tre famiglie, eravamo tutti poveri (“Tutti eguali!”, come lo slogan di Babeuf!) e non c’era nessuna competizione tra di noi per il possesso di status symbol o di vestiti firmati. In verità ne avevamo di marchiati, ma dai rammendi delle nostre mamme e delle nostre nonne, che erano autentici ricami e recuperavano all’uso vestiti e calzini che altrimenti sarebbero stati a brandelli. E allora lo ripetiamo: solo chi ha vissuto queste cose è in grado di capire il valore effimero delle cose materiali e come si possa essere più liberi e creativi con niente che con tutto a disposizione. Mangiavamo, sì, – ormai era passato il tempo delle polente che avevano fatto venire la pellagra a tanti nostri antenati – anche con una certa abbondanza, ma della nostra immagine non c’importava nulla, anzi, spesso ci si scherzava anche su. Bastava che uno sfoggiasse un capo di abbigliamento un po’ fuori della norma, perché diventasse preda del motteggio e del sarcasmo paesano.
Poi, quando hanno cominciato a perdersi i pezzi, quando la città ha cominciato a divorare la campagna, è venuta meno in pochi anni quella multiculturalità di atteggiamenti e personaggi che contraddistinguevano la comunità paesana. Ed è stato come se si zittissero uno dopo l’altro gli strumenti di un’orchestra diminuendone l’intensità e la varietà dell’esecuzione. E alla fine sono rimasti solo pochi solisti, e magari nemmeno dei migliori, e così la sinfonia di paese è diventata una melodia zoppicante che si avvia a spegnersi per sempre.
È questo l’amaro destino del paesano sopravvissuto: la solitudine là dove condividere lavoro e tempo libero era stato per secoli il sale della sua vita. Povera, ma ricca di scambi e di parole. Una vita che ti faceva stare insieme.
Le stagioni del bosco
Se qualcuno mi chiedesse qual è la stagione dell’anno in cui il bosco mi pare più bello risponderei sicuramente: – La primavera! -. Sarebbe una risposta istintiva, legata al senso di rinascita che la primavera porta con sé. Ma non sarebbe una risposta estetica. Perché una risposta estetica è molto più complessa e qualsiasi peculiarità stagionale ne troverebbe sempre un’altra di riscontro. Certo, se ripenso al verde tenero dei germogli di frassino e di roverella mi sento estasiato come di fronte alle guance paffute di un bambino, per non dire della bellezza turgida di tante gemme, che mi rammenta l’intimo turgore del “gelsomino notturno”.
La primavera nel bosco è un prodigioso mutamento, e se uno ha la costanza di frequentarlo per qualche giorno se ne rende conto materialmente. Bocciòli che schiudono in poche ore, germogli che fioriscono da un giorno all’altro, steli che s’allungano nell’arco di un mattino: un’esplosione di energia che penetra sotto la pelle e dà una strana sensazione di ebbrezza. Se poi si spinge fino ad abbandonarsi carponi sulla terra appena risvegliata allora si accorge che non è affatto una sensazione indotta dalla coscienza della stagione: la terra infatti trema per davvero, palpita, brulica, risuona, è pervasa da un formicolio sotterraneo che la riporta incessantemente alla vita. Vita che rinasce all’insegna del profumo, un guazzabuglio di effluvi che disorienta soavemente l’odorato. E qui intervengono le ariette, gli “zefiri sereni” della tradizione poetica, che portano alla ribalta ora l’uno ora l’altro degli aromi. E il cuore li percepisce in sintonia con la memoria, sicché balenano d’istinto nella mente immagini di storie ormai dimenticate. Ma ciò che caratterizza maggiormente il cambiamento è la dinamica dei colori. Si provi a fare l’esperimento su un versante osservandolo tutti i giorni per almeno due settimane. Si coglierà il progressivo definirsi delle tinte, l’allargarsi imperioso delle macchie e lo sparire lesto e impercettibile dei tronchi scheletriti delle piante. E allora ci si renderà conto che non è il verde a farla da padrone , ma soprattutto il bianco candido dei ciliegi in fiore, che spruzza il bosco come una nevicata fuori stagione. Oppure il giallo paglierino delle inflorescenze del castagno, che rende il bosco ambiguo, sospeso com’è tra il verde aitante della giovinezza e il giallo caduco di una maturità ancora lontana.
È d’estate che prevale il verde. Allora ogni altra pretesa di colore viene soffocata nel tripudio denso e pastoso del verde delle foglie. Quando si dice che d’estate le chiome sono lussureggianti è la sacrosanta verità. E per lussureggianti s’intenda qui tutta l’estensione semantica del termine, anche nella sua accezione più sensuale. Quella che associa calore e nudità e fa salire vertiginosamente l’eccitazione. Il bosco allora diventa molle e vaporoso e ha il fascino esotico di un harem. Niente più zefiri e ariette, ma la calma totale, spessa, greve, impregnata di sudore. È il paradiso torrido delle cicale.
Cambia tutto già con le prime piogge d’agosto. Il verde esausto dell’estate sembra riprendere vigore, ma è solo un’illusione: bastano poche nebbie mattutine a farlo rabbrividire. Ora il sottobosco si popola di suoni e di rumori che l’attraversano come un uragano: è la stagione appassionata dei funghi. Bande di ricercatori rastrellano inesorabilmente ettari e ettari di bosco. Cominciano a cadere le foglie, prima dell’inverno ce ne sarà per terra almeno un palmo. Ma il mutamento di colore non è così repentino: tra il verde dell’estate e il marrone delle foglie morte c’è spazio per tante altre gradazioni. E ancora una volta si distingue il frassino che nel lento approssimarsi alla sua fine tocca vette altissime di colore: dal rosso rubino che fa invidia ai pampini della vite al giallo ambrato che luccica come l’oro. È l’effetto generoso del sole dell’autunno, che ravviva i colori dopo averli a lungo sfuocati.
È novembre che spoglia definitivamente il bosco. Prima lo macera con piogge torrenziali, poi bastano poche folate di tramontana a renderlo secco e intirizzito. Cominciano le galaverne, magici ricami arabescati che stringono in una morsa le piante. Compaiono anche le prime brine, e allora non c’è più erba che mostri coraggio. Ma a cambiare è anche la terra che, percorsa dal fremito del gelo, si solleva in un famelico sorriso. Sono “i denti della vecchia”, piccoli cristalli di ghiaccio che si ergono in bella parata.
È così che si prepara il bosco a ricevere la neve. Poi, dopo alcuni vani tentativi, cadono finalmente i fiocchi tanto attesi. E allora la neve si posa soffice ovunque, sulle sagome degli alberi spogli, sui cespugli, sulle macchie dei sempreverdi, sulle pietre delle cime e sui torrenti, sulle strade, sui sentieri ormai persi. E man mano che ricopre il paesaggio lo consacra all’immobilità. Perché la neve rallenta tutto, ogni gesto e ogni rumore, e lo rende sordo, attutito, come se venisse da lontano. Fino a farlo cessare completamente. È l’incantesimo provvidenziale del letargo, l’istinto di conservazione della vita che si ribella di fronte alla morte. Sotto il manto ghiacciato nessuno dei venti freddi del nord potrà nuocere al bosco. Poi, ci penseranno le folate di marino a primavera a sciogliere gioiosamente l’incanto.
L’uso del bosco
Il bosco bisogna governarlo se non vuoi che ti vada in driverio. Bisogna tagliare al momento giusto, e tagliare come si deve, senza fretta ed egoismo. Sono le piante che ci lasci in più che ti salvano il bosco. E poi il taglio deve essere bello raso, leggermente inclinato, che l’acqua ci possa scorrere sopra. Se noi avessimo tagliato come vedo che fa certa gente oggi, non ce ne sarebbero più di boschi a Marcarolo.
Una volta la montagna dava un senso di pulito, di ordinato. Vedevi quei bei prati tagliati, rasini, non c’era un filo d’erba fuori posto. Persino le rive venivano tagliate, venivano su fin da Campo. E poi nei boschi ci si poteva passare come nello stradone, che non c’era tutta quella boscaglia di spine che t’ingombrava. Ma ora dicono che non si può tagliare, che se la levi il bosco perde la sua sostanza. Ma io dico che la perde se non gliela levi, altro che balle!
Tagliare con l’accetta era tutta un’altra cosa. Lì, se non lo sapevi fare, non lo facevi, non c’era verso. Bisognava darci con l’inclinazione giusta, con colpi secchi e precisi, e poi calcolare bene la profondità del taglio in modo da far cadere la pianta dove volevi. Sicché bisognava saper tagliare sia di dritto che di mancino. Mi ricordo che una volta, lì alla Benedicta, abbiamo tagliato un castagno che avrà avuto trecento anni. Tanto per dare l’idea di com’era grosso ci volevano tre uomini per abbracciarlo. C’eravamo io, Gigi della Leviatta, Beppe dell’Astore e Paolino della Merlina, e c’abbiamo lavorato tutto il giorno per tirarlo giù. Ma alla fine il taglio sulla ceppa sembrava la lama di un rasoio.
La montagna è finita quando la gente ha cominciato ad andarsene. Anzi, si potrebbe dire a scappare, perché hanno abbandonato tutto, persino i mobili che c’avevano in casa. I nostri vicini se ne sono andati che c’avevano ancora una mucca nella stalla. C’abbiamo dato da mangiare noi per un po’, poi finalmente sono riusciti a venderla. Perché io non me ne sono andato? Per una ragione semplice, che io senza il bosco non ci posso stare. Per me lavorare nel bosco è come un divertimento e tagliare le piante mi fa star bene. Ma lo faccio con cognizione, ché se andassimo a vedere basterebbe togliere quelle secche e quelle schiantate dalla galaverna per soddisfare ogni esigenza.
Ci sono delle piante che non vanno tagliate. Uno lo deve vedere da sé quali sono, basta un colpo d’occhio per capirlo. Sì, forse è un dono di natura, non tutti ce l’hanno. Ma se uno conosce il bosco, se sa cosa vuol dire una pianta, lo capisce. Ci sono piante che nascono perfette e man mano che crescono diventano sempre più belle, il tronco, i rami, le foglie, e ogni volta che le vedi ci resti incantato. Non si possono tagliare quelle piante lì, sarebbe come fare un dispetto, non lo so, alla bellezza. Ma la bellezza non viene forse da Dio?
Non c’è cosa più brutta che passare in un bosco dopo un incendio. Cammini sulla cenere e l’odore di bruciato ti fa venire da vomitare. Le piante, poi, ridotte a stecchi ancora fumanti, sembrano scheletri sparsi per la montagna. Non si salva proprio niente, neanche un filo d’erba. E allora ti viene da pensare a quanto ci vorrà perché su quel terreno ci ricresca il bosco e per quanto tu sia giovane ti convinci che forse non avrai la fortuna di poterlo vedere
L’inverno
La neve cade bianca, fitta, farinosa, e sembra che ovatti il mondo. Soffice e silenziosa, ma se l’ascolti nel profondo ci senti un fruscìo come di vento, appena attecchisce che già copre il prato, la strada e il bosco lontano. Una coperta provvidenziale che arresta la morsa del gelo. Perché la neve è calore nonostante la sua composizione. E senza la neve qui seccherebbe tutto, anche le piante. Ma una nevicata fresca, oltre ad essere cara alla terra, spande nell’aria un profumo che sa di pulito ed è un piacere respirare a pieni polmoni. E che dire del crocchiare morbido e compatto sotto gli scarponi che dà una tale sensazione di fragranza che non smetteresti più di camminare! Nell’impronta il disegno del carrarmato resta così nitido che ci si possono leggere la marca e la misura meglio che nell’originale.
Con la neve tutto il monte si ferma e va davvero in letargo. Anche per l’uomo finisce l’attesa e si scarica così la tensione per la cattiva stagione. Perché la neve qui mette gli animi in pace, non è passeggera. E’ un sovrano che prende possesso e lo devi ubbidire per mesi. In casa, seduto vicino al fuoco ad attizzare i ceppi con le molle, o nella stalla, a dare un’occhiata alle bestie con le mani in tasca e il bavero della giacca alzato sul collo. Ma l’immagine della neve soffice e vaporosa dura lo spazio di un giorno; poi la prima notte di cielo sereno la candida coltre ghiaccia in superficie e brilla al chiaro di luna come se fosse di cristallo. E allora il gelo riprende a mordere con insistenza nell’aria, ché la neve ghiacciata lo fa incattivire…”.
Il gelo
Avevano incrociato il sentiero che correva a mezza costa nella valle del Piota e che li avrebbe portati dritti alle Capanne. Era questa l’unica via agibile d’inverno, che metteva in comunicazione i monti con la piana, per cui era ben battuto e in certi punti largo da poterci camminare appaiati. Il versante che stavano percorrendo era per lunghi tratti privo di vegetazione e si poteva scorgere in fondo alla gola il livore ghiacciato del fiume. Ogni tanto si udivano degli schianti secchi provenire dal greto e Paulin scrollava la testa con una smorfia di disappunto.
– Senti che roba, qui va davvero tutto in driverio.
– Ma che cosa sono questi colpi, padre?
– E’ il gelo che si è infilato nei tronchi delle albere giù nel fiume e li apre tutti come ceppi spaccati dalla scure. E per ora tocca alle albere, che sono più soggette, ma se va avanti così lo farà anche con il resto del bosco. E i risultati li vedremo poi a primavera.
– Volete dire che li apre proprio a metà, così da un momento all’altro?
– Te ne lascia certi segnati da cima a fondo che neanche se uno ci si mettesse riuscirebbe a spaccarli così precisi. E per loro non c’è più scampo.
Michele era molto impressionato dalla forza oscura e misteriosa del gelo contro la quale pareva proprio che non ci fosse rimedio. Perché se faceva così con le piante, presto l’avrebbe fatto anche con gli uomini e allora non sarebbe più bastato neanche scaldarsi vicino alla stufa. Lui le sentiva già le dita dei piedi intirizzite, che gli facevano male e sembrava che si spaccassero. Ma se mai immaginava che cosa gli sarebbe successo se il gelo lo avesse attaccato in quel modo gli prendevano i brividi giù per la schiena: spaccato a metà come una pianta, con uno schianto simile a quelli che provenivano laggiù dalla gola. E per la prima volta si sentì a disagio in mezzo a quel paesaggio.
– Guarda, guarda quella pianta: lì puoi vedere come se l’è lavorata il gelo -. Paulin indicò a suo figlio un’albera che era appena fuori dal sentiero. Aveva un tronco imponente e l’avresti detta la pianta più resistente del mondo. E invece si vedeva distintamente una fenditura che la tagliava fino a metà del tronco.
Michele salì sulla crosta ghiacciata e si avvicinò all’albera perché voleva vedere da vicino la ferita del gelo. Toccò la corteccia: era gelida, tutta ricoperta da un sottile strato di ghiaccio. Poi fece scivolare la mano dentro la fenditura e sentì il legno secco, sfibrato, come se fosse stato dilaniato da una forza sovrumana che gli avesse prosciugato ogni umore. Guardò su in alto i rami scheletriti, bianchi di galaverna, e ne presagì il triste destino. Per loro il disgelo non sarebbe mai venuto.
Michele ritrasse di scatto la mano dalla fenditura, come se per un attimo avesse temuto di perderla in quell’incavo ormai morto. Poi, dopo aver dato un ultimo sguardo a quell’albera sfortunata, raggiunse suo padre sul sentiero e riprese il cammino.
La lotta con il grande Leviatano
Lavorare stanca. Lo diceva anche Pavese, che aveva intitolato così la sua più celebre raccolta di poesie. Ma soprattutto lo sapevano bene coloro che facevano il lavoro vero, l’unico che avesse i crismi del sacrificio: quello del contadino. Poteva dire ciò che voleva chi gridava allo sfruttamento operaio, alla malabolgia della fabbrica: solo il contadino non aveva orari e quando i compagni operai passavano con la cravatta al collo lui era sempre là, ché c’era ancora “un uomo di sole”. Oh, che la cravatta qualche volta se la metteva anche lui, magari alla fiera o alla festa patronale, ma poi non la resisteva, abituato com’era alla “libertà” del lavoro pesante.
Lavorare la terra voleva dire bagnare delle camicie, aspergere la terra di sudore giorno dopo giorno, come se fosse acqua benedetta. Zappare, potare, falciare, arare, mietere, roncare: ecco, soprattutto roncare aveva tutte le caratteristiche dello scontro epico, della lotta con il grande Leviatano. La folle impresa di guadagnarsi della terra scendendo sempre più giù, verso le viscera. Passare sopra quello che è di sotto, spaccarlo, frantumarlo, sminuzzarlo. Carpirgli la sostanza della vita. Ma per farlo bisognava prima sconfiggere il nemico che s’annidava strisciante sottoterra: il tufo. Ogniqualvolta il piccone del contadino cozzava contro una vena resistente aveva inizio la battaglia. Ci voleva punta e mazza, e allora la campagna risuonava del battere ritmico del ferro sul ferro fino a quando l’ago non s’apriva un varco. C’era un sospiro soffocato nel verso che faceva il contadino ogni volta che alzava la mazza per colpire. E in esso c’era tutta la rabbia di una stirpe, l’orgoglio della sfida, ma anche la paura maledetta di non farcela. Perché lì ci si giocava l’esistenza, la certezza di poter continuare a sperare in un futuro di lavoro, nientedimeno. Chi roncava per proprio conto andava con la mente alle viti nuove e la notte si sognava già l’impianto, perfino le botti che avrebbe potuto riempire. Chi lo faceva per altri aveva un mito da difendere, che andava ben oltre i soldi della paga, quello del gran lavoratore. “Bròvu, Paulin! U’gn’è ’nsciünn-i ch’u runca ’mè ti”. Bastava un po’ di gratificazione, lo spargere la voce nel crocchio sulla piazza, perché le schegge di tufo schizzassero più alte dei pali della vigna.
Ma il lavoro del contadino era tutto fatto di sfide e di fatica, soprattutto quella con il tempo. Quando veniva l’ora, che fosse erba da rastrellare, grano da falciare o uva da vendemmiare non c’erano orari né feste, c’era soltanto da lavorare. La campagna non aspettava nessuno, era lei che doveva essere servita. Purtroppo spesso tempo cronologico e tempo atmosferico non coincidevano perfettamente, e allora iniziavano le tribolazioni. Provate a immaginare lo stato d’animo di un contadino che al tempo della mietitura si vedeva distruggere un campo da un temporale: le messi abbattute come se ci fosse passato sopra uno schiacciasassi, le spighe svuotate del loro seme prezioso, neanche più la paglia buona per fare dello strame. Oppure quello di chi faceva la vendemmia in mezzo all’acqua e vedeva i grappoli marcire, i mosti scolorire e magari anche qualche proda franare. Bagnato fino alle mutande, si sentiva tutto contro, anche il Padreterno.
Eppure era proprio lì, in questa eroica sopportazione, che gli nasceva dentro lo spirito di sacrificio, quella forza tenace e grintosa che l’accompagnava fino alla morte. E così il lavoro diventava una malattia, e l’ozio un peccato mortale, e l’idea che un giorno avrebbe dovuto smettere di lavorare un’angoscia che gli faceva desiderare la fine. Era questo il vento che soffiava sul collo del contadino fin dal giorno in cui era venuto al mondo. E ogni gesto, ogni parola, andava in quella direzione, come se non esistesse altro che il lavoro. Ovunque andasse si portava dietro quello schema mentale che diventava come un’ossessione, il bisogno assoluto di fare. Ci voleva almeno una generazione per sottrarsi a quella specie di condanna che perseguitava anche i familiari. Eppure era da essa che nascevano le grandi cose, e chi aveva una radice contadina, succhiata dal latte della madre, non si fermava più davanti a niente e prima o poi ci arrivava dove voleva arrivare…
Memorie di una legéra
I padroni delle cascine erano furbi e cercavano di mettere i manenti gli uni contro gli altri. E così c’era sempre qualcuno che faceva la spia. É successo a Paulin della Bessia. Eravamo qui d’ottobre e Paulin ha tagliato un albero per fare gli zoccoli a suo figlio: il vicino è andato subito a dirlo al padrone e lui ha dovuto far su le sue robe e cercarsi un’altra cascina per San Martino. Per un paio di zoccoli, capite? Essere cacciati di casa con cinque figli e un padre anziano per un paio di zoccoli. Dover andare a chiedere in qua e in là come una legéra che qualcuno gli desse un tetto per dormire e una terra da lavorare. Provate a immaginare l’angoscia di quell’uomo… Io ero amico di Paulin, mi trattava sempre bene, e allora lo sapete che cosa ho fatto? Una sera che quel vicino tornava da vegliare ho messo un fil di ferro steso di traverso nel sentiero all’altezza della caviglia e lui ha preso una bella patta per terra che c’ha tenuto la faccia gonfia per un mese.
Una volta ero alla Colarèia, una domenica mattina. Ero con Cin, il capofamiglia, a sarchiare le patate nell’orto, quando arrivano all’improvviso il padrone e la padrona con il calesse. Facevano una puvréra! Subito Cin è corso sull’aia per riceverlo togliendosi la caplina di paglia dalla testa. Io sono rimasto nell’orto a sarchiare. Eravamo qui di giugno, e faceva già bello caldo. La padrona si faceva fresco con un ventaglio e Maria, la moglie di Cin, le ha portato una sedia perché si sedesse all’ombra. Il padrone aveva gli stivali di cuoio e teneva in mano dei guanti di pelle traforati. Sono venuti, lui e Cin, verso l’orto e io mi sono sentito svenire. – Chi è quello lì? – gli ha chiesto il padrone. E Cin gli ha risposto: – È uno che mi aiuta ogni tanto –. – Sì, ho capito, è una legéra – ha detto il padrone e Cin è stato zitto. Poi si sono messi a discutere della vigna e dell’orto e Cin gli diceva che aveva bisogno di verderame perché era un’annata di malattia. E il padrone gli diceva che così lo mandava in rovina, che c’erano troppe spese e lui non ce la faceva più. Lui lo diceva, lo capite?Aveste visto la faccia di Cin.
Ma ora viene il più bello. A un certo punto s’è sentita la voce della padrona che chiamava il marito. – Guglielmo! Guglielmo! -. Aveva una voce fine la signora, era una Raggio. Il padrone ha mollato lì Cin ed è andato verso la casa. – Sapessi, Guglielmo, che bel regalo mi ha fatto Maria. Sono andata in casa a bere un po’ d’acqua e, meraviglia, Maria stava impastando per fare le lasagne. Era tanto tempo che ne avevo voglia e allora lei, lei spontaneamente, ha detto che me le potevo portare via. Pensa come sarà contenta la nostra Betty.
Si sono portati via le lasagne che cinque figli aspettavano da una settimana! E quando Menegullu, il più piccolo, è scappato nel bosco piangendo e gridando che lui la polenta quel giorno non la mangiava, Cin a sua moglie che era preoccupata ha detto: – Dvègroi che primma d’séira u véggna a ca’ e u mangia anche ra pulénta.
La polenta
La donna aveva appena cominciato a gettare delle piccole manciate di polenta nell’acqua bollente. Compiva quel gesto in modo grazioso, come se accarezzasse la superficie schiumosa. E la piccola nube di polvere gialla che scivolava via dalla sua mano si rapprendeva immediatamente al primo contatto con l’acqua. La porta si aprì lasciando entrare uno sbuffo di nebbia. Tre ragazzi, il più piccolo avrà avuto quanto Michele, irruppero dentro sgomitando e ridendo. Si arrestarono non appena si accorsero che c’era qualcuno.
– Avete dato da mangiare alle bestie, fuenti?
– Sì, padre – rispose quello che sembrava il più grande – Abbiamo anche cambiato lo strame alle pecore.
– Bravi! – disse Tognu, orgoglioso che ci fossero arrivati da soli a fare un lavoro che andava fatto. E si girò soddisfatto verso Paulin.
Nel frattempo la porta si riaprì e uno dopo l’altro entrarono quattro giovani spilungoni, tra cui i due che erano rimasti sotto il portico.
– Ecco la truppa al completo! Quando sentono l’odore della zuppa, state tranquillo che nessuno manca all’appello.
– Certo, Dina, che avere a che fare con otto uomini deve essere dura – intervenne Paulin quasi per provocarla. Lei smise di gettare polenta nel calderone e girandosi di scatto esclamò:
– Se è dura? E’ una cosa impossibile, che ci vuole il mio coraggio a sopportarla! Eh sì, se dovessi sposarmi un’altra volta, comprerei dei vitelli piuttosto che avere così tanti figli maschi. Ve lo garantisco io! – Dina disse queste cose senza troppa convinzione, come per stare allo scherzo. Perché se era vero che per lei era dura con tutti quegli uomini e forse una ragazza in famiglia le avrebbe fatto comodo, una cosa però era certa, che per niente al mondo avrebbe rinunciato a qualcuno dei suoi colossi.
– Gino, prendi il bastone che bisogna cominciare a girarla!- gridò la donna.
Un ragazzo con i capelli rossi si alzò lesto e andò a prendere il bastone nella madia. Sembrava il manico di una forca, ma del resto per girare tutta la polenta che c’era in quel calderone da venti litri ci voleva proprio quello. Gino cominciò a girare, mentre la madre gettava le ultime manciate di farina nei gorghi che il bastone faceva. L’impasto diventava sempre più duro e allora ogni tanto i ragazzi si davano il cambio. Ci provò anche Michele e lo fece con tanta energia che cominciò a sudare tutto accalorato.
– E’ proprio un garzonetto in gamba. Va là, Paulin, che non tremate più.
– Oh, sa lavorare. Speriamo che continui così.
– Preparate la tavola che è pronta! – La voce di Dina risuonò nella stanza e subito ci fu un darsi da fare frenetico dei ragazzi: chi provvide a passare uno straccio sulla tavola, chi distribuì tutt’intorno le scodelle di legno, chi andò a prendere nel ripostiglio il secchio del latte che doveva fare da condimento.
Intanto i due ragazzi più grandi avevano afferrato il calderone per il manico e lo avevano tirato via dal fuoco. Poi con un gesto scaltro avevano rovesciato la polenta sulla tavola: era davvero enorme, almeno grossa come una ruota da carro e spessa un palmo buono; sprigionava una colonna di vapore e ribolliva ancora tutta gorgogliando di bollicine che poi sfiatavano leggere.
Tutti attesero che si avvicinasse la madre. Era lei che aveva il compito di fare e di distribuire le fette. Tirò fuori dal grembiule uno spago unto e dopo averlo lisciato un po’ cominciò a tagliare la coltre fumante. Faceva delle fette lunghe mezzo braccio e poi con una tavoletta sottile le inforcava e le metteva nelle scodelle. Appena uno riceveva la sua fetta ci si avventava su senza preoccuparsi degli altri. Chi voleva del latte poteva prenderne con un mestolo nel secchio della mungitura.
Paulin e Michele si scambiarono occhiate di stupore: non avevano mai visto mangiare con tanta voracità. Le fette sparirono dalle scodelle in un baleno, prima ancora che Michele, che l’aveva lasciata un po’ raffreddare, attaccasse la sua. In tre, quattro bocconi la polenta era finita in quelle viscere interminabili e al ragazzo era parso di sentire distintamente una specie di tonfo ogni volta che un boccone veniva ingerito, come se davvero finisse in fondo a un pozzo.
I figli di Tognu attesero che la madre facesse una seconda distribuzione. Anche la nuova fetta fu consumata con la stessa voracità di prima. Avrebbero forse continuato all’infinito, ma dopo quel turno dell’enorme polenta non rimaneva che la traccia umida sul tavolato. La fame atavica restava insoddisfatta.
Il minestrone insieme
Erano ormai due ore che il minestrone cuoceva sulla stufa a due bocche della cucina. Il mestolo, appeso alla raggiera per i panni attaccata al tubo della canna fumaria, gocciolava lentamente provocando un vapore frizzante sulla superficie incandescente della stufa. La nonna rigirava ogni tanto la minestra per evitare che si attaccasse e ogni volta il mestolo gocciolava ritmicamente fino quasi a esaurirsi poco prima che la nonna lo riutilizzasse.
– Ti l’oi missu u scelleru? – disse il nonno che stava rabberciando un cestino di lamelle di castagno che aveva perso il fondo.
La nonna lo guardò un istante scettica e poi rispose: – Eh, d’vuròi dì?!
– Perchè, iün u pó anche sc-curdôse, nó?
La nonna lo riguardò con la stessa espressione. – An sun mia tì.
Il nonno biascicò qualcosa di incomprensibile, poi disse: – ’Sè ch’it vuréssci dì?
– Quellu ch’a iö dicciu, propriu quellu ch’a iö dicciu.
Il nonno posò il cestino, si lisciò i baffi grigi, poi si avvicinò al lavello dove la nonna stava lavando alcune stoviglie.
– Dunca mi a saréiva iün cu sè sc-córda? E quande, dai, dimmle.
La nonna continuò a sciacquare le stoviglie, poi, visto che lui non se ne andava come se stesse aspettando una risposta, disse un po’ infastidita: – Sü, ni sc-tôla a fò tantu lunga.
– Nó, nó, ora ti mè sc-pieghi perchè t’l’oi dicciu – la incalzò il nonno.
– Zino, piant’la lì, ch’a gnö tesc-ta.
Il nonno la guardò serio, non pareva tanto convinto di smetterla. – A riguòrdu, su iè iünn-a ch’a sè sc-córda, quella t’éi ti.
– Eccu dande d’vuréivi ’rivò, al savéiva – disse la nonna un po’ esasperata – Du rèsc-tu l’è u tó ció fissu.
– E sè moi ch’a nö raxùn! S’a duvèssa mòi cuntò tutte i vôte chi t’òi brixò u dixnò un mè basc-tréiva ’na giurnò.
– E ti? – replicò la nonna – Ti t’l’éi za sc-curdò che l’an pasò t’òi lasciò a butte sensa preggia e, se a iumma vusciü beive, a iumma duvü catò i vin da tó frè?
– Ma sè tante pignotte ’mè ti un gnà mancu brixòie u diovu…
La nonna si avvicinò alla stufa, prese il mestolo e cominciò a rigirare il minestrone. – Óvvra u finisscia chi t’in fòi brixò anche i m’nèsc-trùn -. Stette un istante in silenzio. – Ou, chè’n pó tacò l’è ’ncu ciü bun.
– Ah, cun ti un gnè periculu ch’un lé séggia.
– Eh ben, sè mòi, s’u bruxa, t’lè fòi ti, ch’i t’la sòi tantu lunga.
– Oh, sègüru, ch’al fossu tantu ben ’mè ti.
La nonna a questo punto s’infuriò. – Alùra, saciü ch’i ti néi ôtru, dimme ’n pó cósa ui vö per fo nè m’nèsc-trùn ’mè ch’us déve? Perchè ti t’pòrli t’pòrli, ma pöi da mangiò a nan fossu mi.
Il nonno sorrise, come se la nonna gli avesse posto un quesito elementare che quasi non c’era gusto a risolvere. Allora, scrollando un po’ la testa come a disapprovare l’ingenuità della sua donna, cominciò a dire: – Patòte… -. – Grassie, isc-tu il san anche i fiöi – interloquì la nonna. – …sicótti – riprese il nonno alzando un po’ il tono – scélleru, caróttule, sigulle, puîxi, faxulinn-i e faxöi burlótti… -. Finì in crescendo, come se assaporasse il suo trionfo.
– É pöi? – intervenne inaspettatamente la nonna.
Il nonno la guardò un po’ infastidito, poi disse: – Va ben, ’n pó d’óri, ma i ingrediénti sun quèi lì.
La nonna posò il mestolo che cominciò di nuovo a gocciolare. Andò fino al lavandino, bevve un bicchier d’acqua, dopodiché disse: – A pòrte i fottu che ’nti quellu zenéize i’i mötta anche i fòve, u manca a cósa ciü ’mpurtante, quèlla ch’al fa disc-tingue da tütte i ôtre m’nèsc-tre.
– Scii, óvvra va a sèrcò dei belinòte.
– Ôtru chè belinòte, l’è a cósa ciü impurtante. Vuiòtri ómmi i féi tüttu semplice, ’mè chè su basc-tèssa caciò lì da roba per fò da mangiò. Ma u iè di segreti chè sè t’in gnè ’mpòri, i mangiò un sa d’gnénte.
– E quel ch’u saréiva u segrétu ch’u fa gnì bun i m’nèsc-trùn? -. Lo disse con sufficienza, quasi in tono canzonatorio.
La nonna esitò un istante, come se volesse farlo cadere un po’ dall’alto. Poi, ridacchiando, disse: – Ma, Zino, i pèsc-tu. Sensa i pèsc-tu u saréiva ’na m’nesc-tra ’mè tütte i ôtre.
Il nonno deglutì, consapevole della sconfitta. Gli dispiaceva piegare la testa davanti alla sua donna, ma nello stesso tempo gli faceva piacere constatare che nonostante invecchiasse fosse lucida e avesse sempre grinta da vendere. Del resto era vero, senza il pesto il minestrone era soltanto una minestra di verdure, non quel piatto dal sapore rotondo, ben amalgamato, in cui, ad ogni cucchiaiata, si percepiva contemporaneamente il sapore dell’insieme e delle singole verdure. Era questo il miracolo che faceva il pesto, legare tra di loro tutte quelle varietà senza mortificarle singolarmente. Se poi uno lo sapeva cuocere bene il minestrone, e non c’era dubbio che sua moglie lo sapeva fare, alla fine era così denso che ci si poteva piantare dentro il cucchiaio. Come gli piaceva vuotarci dentro il vino quando era ancora bello caldo!
– A vòggu a piò ’n butigiùn d’vin – disse lesto, come se l’idea gli avesse fatto venire l’acquolina in bocca.
– An racumandu, pìa du Dusèttu bun, t’lè sòi che anche a mi un piòxa mettine ’n pó – gli gridò dietro la nonna. Lo disse in tono complice, era una vita che mangiavano il minestrone insieme.
La vigna
La vendemmia arrivava nelle cascine come una malattia. Già ai primi di settembre si percepivano i primi sintomi e ovunque pian piano montava una specie di frenesia. Si cominciavano a lavare le botti e se ce n’era qualcuna da rinnovare veniva “boscata” con il pirotto. In genere c’avevano tutti delle botti di castagno che quelle di rovere costavano troppo. Si provava la tenuta e se c’erano delle perdite si tappavano con lo sterco o con il sego. Ma bisognava sempre stare all’occhio. Ricordo che una volta a Costalunga, da Severino, avevamo riempito una botte da quaranta e aveva già cominciato a bollire. Io dopo cena vado a controllarla e mi accorgo che piscia via mosto da un’infinità di “chérvei”, tutti in una doga. C’abbiamo lavorato un’ora io e Severino a tapparli, li abbiamo chiusi tutti con degli stecchi e poi li abbiamo sigillati con il sego.
Lo stesso trattamento si faceva al tino e alla navassa, che poi veniva piazzata sul carro stretta tra le cavigiöre. In genere una navassa portava dai cento ai centocinquanta miria d’uva a seconda se a tirarla era un solo bue o una coppia.
Se uno non prova a vendemmiare non capisce che cosa vuol dire affondare le mani nell’uva e sentirsele appiccicose di mosto, avere il naso impregnato del suo profumo e gli occhi affascinati dalla bellezza vellutata degli acini. Io, quando vendemmio, non ne lascio passare uno di grappolo senza dargli una morsicata.
La vendemmia è il momento più partecipato e collettivo della coltura della vigna, durante il quale arrivano a darti una mano anche i parenti più lontani. La gente viene per aiutarti a far prima, ma anche per chiacchierare, come se fosse un evento
Una volta, durante la vendemmia, si mangiava nella vigna, seduti nell’ombra di un fosso, se era bel tempo, o dentro il cascinotto. Ci andavo io a prendere il mangiare a casa con la bicicletta e una volta ho rovesciato una pentola intera di peperonata
Noi ragazzi da piccoli venivamo destinati a raccogliere gli acini che cadevano a terra. Poi, man mano che uno cresceva, cominciava a vuotare i cavagni e allora era un continuo “Cavagno!” di qui e “Cavagno!” di là che quasi ti toccava correre.
È bello vuotare il cavagno nella cesta e sistemare l’uva con le mani in modo da farcene stare di più! A seconda di come ti si appiccicano capisci se sarà una buona annata oppure no.
Quando però uno poteva prendere in mano le forbici, i mitici tizuriunn-i da pugò, e veniva promosso tagliatore, allora sì che si sentiva un vendemmiatore a tutti gli effetti.
Se poi uno era un maschio veniva il momento di portare le córbe, le ceste, e allora si sentiva davvero un uomo. Si faceva il paièttu, con un sacco arrotolato e un po’ di paglia, e gli altri gli caricavano una cesta sulle spalle da portare alla navassa.
Certe córbe pesavano anche 60 – 70 chili e un conto era se dovevi portarle in piano e un altro se la vigna era in riva e bisognava scendere o salire. Mio nonno ne aveva una che finiva nel rio di fondovalle e aveva la strada solo in cima. Lì era la prova del fuoco, perché venire su da quella montata, con gli scalini scavati nella terra, era davvero un’impresa. Lo chiamavamo il Calvario.
Paulin della Bessia faceva una vigna del marchese di Tagliolo lì al Tanarone. Avevano pattuito dieci ceste d’uva come parte del manente, dieci córbe di quelle di sc-crussci di castagno intrecciati. Non c’aveva di bue e quindi doveva portarsela a casa tutta a spalle, camalarsela, insomma. Dalla vigna a dove abitava lui c’era un po’ più di un chilometro. Bene, per portare più uva possibile faceva delle ceste da un quintale, una era addirittura 112 chili, e se le camalava senza pósa fino a casa.
Tutto era normale se la stagione ti aiutava, ma se per caso pioveva allora la vendemmia diventava una vera e propria battaglia. Ricordo che una volta sulla montata per venire via dalla mia vigna c’era una puciacca che ci si sprofondava sino ai polpacci. C’avevamo Bacicin di Cirimilla con la coppia di buoi montagnini a tirare la navassa e lì sulla montata si sono bloccati che non ce la facevano più. A un certo punto uno è caduto in ginocchio e allora Bacicin, gridando come un ossesso, ha cominciato a dargli delle traponate sul groppone che mi credevo l’ammazzasse. Poi per fortuna il bue si è rialzato e pian pianino ce l’hanno fatta a tirare fuori il carro dal pantano.
Mi piaceva stare sul carro dietro la navassa quando portavamo l’uva a casa. Passavamo in mezzo alle vigne e la gente ci salutava sbirciando nella navassa per vedere com’era. E io, orgoglioso, me la guardavo, convinto che la nostra uva fosse la più bella.
Un anno è franata la strada sterrata che andava nella vigna, e allora abbiamo dovuto portare le corbe a spalla fin sullo stradone. Avevo quattordici anni, da allora ho cominciato ad avere il mal di schiena.
Pestare l’uva nella navassa dava una strana sensazione: subito pareva di schiacciare come delle fascine, con i graspi che facevano resistenza alle pedate; poi, non appena gli acini schiacciati rilasciavano il succo, i piedi sprofondavano nel mosto caldo e saliva un profumo che faceva girare la testa.
Man mano che uno pestava l’uva nella navassa, un altro veniva su dalla cantina con la brenta sulle spalle e lui gliela caricava con un secchio. Poi il brentou scendeva e, salendo una scaletta, vuotava la brenta nella botte dalla porta superiore.
Gillu dei Lanoni c’ha lasciato le penne con la brenta. Era salito sulla scala, ma ha perso l’equilibrio ed è caduto all’indietro con la brenta sulle spalle. Si è rotto l’osso del collo.
Buoi di montagna
Non le dico che parlassero i miei buoi, ma quasi. Li tenevo bene, altro che se li tenevo bene. Prima mi preoccupavo che mangiassero loro, poi se mai mangiavo anch’io. Pensi, partivo di qui, con le strade che c’erano, con quattordici – quindici quintali e andavo fino a Roncoberto. Lo sa dov’è Roncoberto?…
I buoi sono come la gente, non sono tutti uguali. Ce ne sono certi che gli puoi dire anche mille volte di tornare indietro che non c’è verso di farglielo fare. Dipende proprio da loro, non dal padrone. Ma se invece un bue è buono bisogna saperlo governare…
Qui usavamo i buoi montagnini. Buoi rossi li chiamavano, che fuori qui stentavano a far razza, perché le vacche di quella qualità lì non fan tanto latte, l’abbiamo anche tenuta. Poi è capricciosa, o tira calci o non ti dà latte. È poco tranquilla, una bestia pigra. Venivano da Cabella, da Torriglia, insomma da quei posti lì. E lo sa chi ci andava a prenderli? Ballestrasse, l’ha conosciuto?…
Vuole che gliene dica una? Le bestie sono meglio dei cristiani. Io ne ho avute tante buone, e ho voluto bene a tutte. Ma ho avuto una coppia di manzi che stento ancora oggi a scordarmela, ce l’aveva la Min, una donna che abitava al Pizzo. Li avevo visti lavorare una volta e allora avevo chiesto a uno dei Foi, che era un suo parente, di farmeli comprare. Eravamo qui del ’47 . Lui gliel’ha detto e ’sta donna m’ha mandato a dire di andarci che si poteva trattare. A lei bastava averne due, la differenza se la metteva in tasca. E così sono andato di notte, e li ho portati a casa. Mi ricordo che stavo lavorando con quelli della forestale allora, e gli avevo detto al capo: – Se riesco a comprare i manzi che ho visto, domani vengo a lavorare con la cravatta -. Eeh, erano dei gran bei buoi Fiuchìn e Setrùn…
Vede, in una coppia di buoi ce ne deve essere uno che dirige e l’altro che gli và dietro, un po’ come tra marito e moglie. Se no finisce che si tirano e che si spingono. E se uno cede, puoi stargli vicino quanto vuoi che non lo smuovi e allora ti tocca tribolare. Specialmente sull’asfalto era difficile farli lavorare bene tutti e due, ché con uno solo si portava meno peso, ma si andava corrente. Io avevo pazienza, andare andavo, ma ho dovuto staccarli più di una volta…
Ce n’è di quelli che li fai venire e di quelli… Mica tutti vengono allo stesso modo. È come lavorare nelle vigne: ci sono buoi che ci lavori e degli altri che non ci lavori. Una volta tagliavamo della legna a Cian Padü e mia figlia, che allora avrà avuto sette o otto anni, faceva dei mazzi di roverelle e, attaccato il bue al balansin, li tirava fuori nel pulito per sfrondarli. Lei ci sapeva fare con le bestie, ma devo dire che quel bue lì era come un cristiano…
I buoi, se ti trovassi su per i bricchi quando è scuro e c’è quella neve fine per l’aria, va’ dietro i buoi che di sicuro ti portano a casa. Ah, non si sbagliano. Dicono, ma ai buoi il chiaro non gliel’abbiamo mai acceso, e temporali o non temporali vanno pianinetto, ma non si sbagliano. Nel ’47 – ’48 c’era uno che lavorava qui con i buoi e stava di là alla Séxa e aveva la galanta al Cascinotto che è sotto Rossiglione. Ora, cosa vuole, il 27 di ottobre si mette a fioccare, ma fioccava, madonna se fioccava. Era su di lì e bisognava che s’appendesse su e passasse dal Cursaìn se voleva andare al Cascinotto, lui e un altro che ha sposato una sua sorella. I carri li hanno lasciati lì nel bosco, i buoi invece li hanno menati a casa, ché era un sabato sera, capisce. Quando però sono stati su per quel bricco là che è quasi uno dei più alti, belin, si sono persi. Alla bell’e meglio sono riusciti ad andare a casa, ma i buoi sono arrivati a casa da loro, sa. Avevano paura di averli persi, ma i buoi sono arrivati…
Guardi, una bella vacca è quella che ha la testa piccola, e corna fini, la pelle del manto sottile e il petto non troppo grosso, ma con la pelle distaccata che si possa riempire. Se poi è bassa di gambe e le gambe ce l’ha sottili allora è proprio perfetta. Se invece si dà il caso di una vacca che per prenderle la pelle ci vogliono le tenaglie, allora non ci siamo. Io ho sempre detto che la vacca che faceva per me la conoscevo anche allo scuro, perché doveva essere effeminata, non una vacca che si poteva scambiare per un bue. Ma non sono neanche tanto spesse loro, che poi c’è chi ha il latte buono, chi fa il latte un po’ più raro, ce ne sono di buone da burro; perché in una vacca così a trovare… c’è chi se vai a mungerla tu ti dà il latte e se ci va un altro non glielo dà. Insomma, le vacche giuste non sono così spesse.
Buoi di collina
Martin ci zufolava al bue per farlo andare, anche lui non usava mai la trappa. Solo che non gli dava mai da mangiare e il bue si è mangiato un pezzo di muro. “L’idea ui l’avéiva d’sciurtì, ma u ni l’à fòccia” aveva commentato. Poi l’ha trovato morto. Un bue piemontese magnifico, che era 10 quintali anche così magro.
Anche Pipin degli Sc-cainn-i ci parlava con il bue. Lo chiamava Felippo, un misto di italiano e spagnolo. Scalzo, con un paio di pantaloni tenuti su con il fil di ferro, lo sentivi in tutta Val Ferraio quando arava le viti. “Felippo, sü!”. “Felippo, va pian!”. “Felippo, andumma o no!”.
Un altro che ci parlava con il bue era ’Ngiulin Gioia, detto “Balatintin”, di Mascatagliata. Lui alla vigna ci andava sempre con il carro, anche se non c’aveva niente da trasportare. E lungo la strada era un dialogo continuo con la bestia, in cui lui si dava botta e risposta. “ ’Ngiulin, ma i bö u’v capisscia?”. “Sun capisscia? Un dà sèrte risc-posc-te che mancu mi ài capissciu. ’zöggna c’ammie fòssa sc-piegò da cóc prufèsù”.
L’ultimo bue del paese è stato quello di Gildo d’Micóttu. Era gigantesco, rosso di pelo, forse era un reggiano. Nell’epoca dei trattori, con le strade tutte asfaltate, anche quelle che non ce ne sarebbe stato bisogno, continuava a trottare con il fieno, la bigoncia e la legna dal paese alla vigna. È morto di vecchiaia.
Micóttu, il padre di Gildo, c’aveva l’Osteria degli Amici lì in piazza a Lerma. Era il punto di riferimento per tutti i becélli che scendevano dai bricchi al paese con i carri. Loro usavano la coppia di buoi, uno da solo non ce l’avrebbe fatta a tirare il carro su da certe montate. Erano buoi montagnini, rossi di pelo e tracagnotti, agili e resistenti. I becélli scendevano carichi di legna, soprattutto di pali di castagno per le vigne, e si portavano su un po’ di farina e un po’ di vino. Alloggiavano le bestie nella stalla dell’osteria e ci dormivano insieme, nella greppia.
Un bue rende in tanti modi. Per prima cosa non ti costa mantenerlo, basta che tu ti faccia il fieno necessario; e oggi fare del fieno è solo questione di lavoro, ché nessuno più lo taglia. Seconda cosa, lavora morbido, che se trova una vite un po’ discosta dalla fila non la trancia, ma si ferma. Terza cosa, ti fa il letame, e la terra senza letame diventa sterile, ché i concimi chimici non sono in grado di arricchirla.
Se le piccole aziende agricole di collina si riconvertissero alla trazione animale forse risolverebbero tanti loro problemi di sopravvivenza.
Lo spirito contadino
Il contadino è indissolubile dalla sua terra ed è se stesso tra i muri della sua casa, stalla o cantina che sia. È lì che deve vendere i suoi prodotti, confortato dalla realtà che lo circonda, che non è fatta di parole, ma di cose concrete, frutto del suo lavoro quotidiano. È l’azienda che conferma il suo valore e fa capire a chi lo contatta la bontà del suo prodotto. A costui non interessano le etichette ideate dal designer o la linea di bottiglie esclusive, va sulla fiducia. E la fiducia nasce dalla comprensione del lavoro e dell’uomo che si trova davanti.
C’è stato un lungo periodo in cui quest’uomo, questo contadino sopravvissuto al delirio della civiltà industriale, è stato considerato un paria, un reietto, un uomo non degno di farsi una famiglia. Le donne non lo volevano, era troppo grossolano e poi non offriva altro che una vita di solo lavoro. In uno dei nostri paesi si ricorse addirittura a una celebre trasmissione televisiva per lanciare un appello a favore dei molti contadini scapoli che nessuna donna del territorio voleva sposare. E avevano ragione, sposare un contadino era roba da matti. È roba da matti. Perché ancora oggi, quando una coppia, magari con dei figli, fa la scelta di lavorare la terra, la gente scuote la testa in segno di disapprovazione.
Eppure, se in quella famiglia c’è la percezione del rapporto ancestrale con la terra, se quell’uomo e quella donna non possono stare senza vedersi tra i filari e sentire le stagioni sulla pelle e sfiorarsi ogni tanto mentre lavorano insieme, allora avviene il miracolo: la famiglia è ancora famiglia, e marito e moglie o compagno e compagna diventano davvero indispensabili l’uno per l’altro al di là dell’effimero dell’attrazione carnale; i figli si sentono di nuovo figli, il frutto di un’unione sacrale non per comandamento, ma per natura. Ecco allora che il legame si sostanzia con la terra e nessuno ha più tempo per l’inganno, per l’insoddisfazione che viene dalla noia, da una vita fatta di apparenze. Lontano dal mondo della parola abusata, gridata, scagliata, qui bastano poche occhiate, cenni, monosillabi, perché gesti e pratiche parlano da soli. È un ritorno alla radice primitiva della vita sociale, ai patti siglati con una stretta di mano che nessun ripensamento potrà mai vanificare. È il mondo della certezza, dell’unicità del senso, che riprende vigore contro le spire della menzogna. È il desiderio pienamente realizzato, inverato giorno dopo giorno dalle cose che si fanno.
Non lo so se sarà ancora possibile rifondare una società contadina nel vero senso della parola, cioè un mondo che ritrovi nella terra il suo centro di gravità, oppure se l’agricoltura resterà il destino di pochi tenaci precari che non vogliono arrendersi all’evidenza. Non so nemmeno, anche se lo temo, se certe politiche scellerate finiranno per scoraggiare anche quei pochi tenaci e rendere le nostre campagne oggetto delle speculazioni più disparate (penso ai “campi” di pannelli fotovoltaici) che niente hanno a che fare con l’agricoltura. Di una cosa però sono certo: senza un’adesione totale alla terra, senza un amore che te la faccia guardare incantato e girare proda per proda come per palparla, senza conoscere zolla per zolla il proprio podere e avere un nome per ogni suo anfratto ( nella mia vigna c’erano i valèttu, a piann-a, suvra a sc-trò, sutta a sc-trò, dai buji, dai pussu, ’ntéi briccu, dai casc-tagné, dai cascinóttu, da a ciréxa, ’ntéi quòddru) non è possibile fare il contadino né sperare che la campagna ritorni a essere campagna e non una miniera a cielo aperto di un qualsiasi materiale. E allora mi ritornano alla mente le parole di mio padre quando, dopo l’alluvione del ’77 che aveva fatto franare i valèttu (nello squarcio “buttava” una “vivagna” che aveva un “ruggio” grosso come una bottiglia), guardando la vigna appena risistemata (c’avevamo lavorato due mesi a sotterrare pugòsse per riempire il vuoto), ancora stravolto dalla fatica, disse: “Che bel scîtu!”, proprio così, con la “i” lunga, infinita, come se pronunciasse un verso d’amore. E mentre lo diceva deglutiva, e piangeva, e anch’io piangevo, ma non ci siamo detti nulla, perché così fanno i contadini, piangono in silenzio sia le loro disgrazie che le loro fortune.
La solitudine del paesano
C’è chi guarda la televisione tutto il giorno, chi fa viaggi periodici organizzati, chi passa le sue giornate nei supermercati, chi si rifugia negli hobby, chi segue i nipoti come reliquie, chi si siede nel viale o nella piazza facendo il contropelo a questo o a quello, chi continua a lavorare forse per dimenticare… Ma c’è anche chi non riesce a mandare giù che un mondo, una cultura sanguigna e effervescente come quella di un paese sparisca così, per sempre, magari ancora prima che sparisca lui. E allora rimugina su come è potuto accadere, su quali sono gli sbagli che abbiamo fatto oppure se tutto ciò era un destino ineluttabile indipendente da noi, e si sforza di capire, e continua a lottare per tornare indietro nonostante veda tutto scivolare via travolto da una piena, e continua a soffrire. Ma soprattutto si sente solo, in un mondo che non è più il suo.
Solo, perché vede andarsene uno dopo l’altro i paesani che nessuno potrà mai sostituire; solo, perché se gira per le vie del paese vede tutto chiuso, case, negozi, osterie; solo, perché i pochi che incontra gli dicono di non parlare dialetto perché non lo capiscono; solo perché discorrere di campi e di vigne non interessa più a nessuno; solo, perché non gli va di andare all’Outlet o all’Iper tanto per vedere qualcuno; solo, perché sono rimasti pochi gli amici con cui si possa ancora scherzare; solo, perché oggi in un paese se non ami il web e l’amicizia virtuale sei proprio solo… Vi rendete conto del paradosso: uno si sente solo in un paese, in quella che era la comunità inclusiva per eccellenza, dove ci si conosceva tutti, vita, morte e miracoli, dove se non avevi voglia di stare in casa uscivi e andavi al bar o all’oratorio e qualcuno c’era sempre, dove se stavi male la gente veniva a vedere cos’era successo e se poteva essere d’aiuto, dove non avevi paura a stare in casa perché c’erano i vicini da una parte, dall’altra, magari anche di sotto e di sopra, dove in famiglia si bisticciava e si gridava, ma il papà era il papà e la mamma era la mamma…
E dire che quando si parlava della città si diceva che loro, i cittadini, erano soli, stipati in quegli orrendi alveari che contenevano centinaia di persone che però nemmeno si conoscevano e uno poteva anche morire che se ne accorgevano dopo mesi che era successo, quante volte l’avevamo letto sui giornali. Per noi quello era il mondo dell’egoismo, della mancanza di sentimenti, dell’assenza di una radice di terra, fatto di gente di cui non ti potevi fidare e su cui tanto meno contare. E lo dicevamo a specchio con la nostra realtà, perché per noi, invece, il gruppo paesano veniva prima di tutto, era il nostro fortino inattaccabile, la nostra sicurezza. Ognuno vi aveva una parte, nessuno era un estraneo, un escluso.
Allora noi paesani ci sentivamo addosso un destino comune che aveva nell’esercizio dell’ironia e del motteggio la cifra peculiare del nostro stare insieme. E questo succedeva ovunque, al bar, al circolo del prete, nei negozi, per le vie del paese, nella lea, in campagna, ovunque ci fosse un momento di aggregazione. E c’erano in continuazione, perché era questa l’indole paesana, lo stare insieme. E lo facevano sia gli uomini che le donne, in gruppi per lo più separati come avveniva allora, ma entrambi di gioiosa convivialità: era uno spettacolo, ad esempio, scendere lungo la via principale del paese quando, con l’inizio della bella stagione, le donne si mettevano fuori a cucire o a scardassare la lana dei materassi e c’era un continuo “chiama e rispondi” da una parte all’altra della via con battute da far arrossire anche gli uomini. Perché il paese era la nostra casa allargata e ci si sentiva a nostro agio ovunque, come se tutti i luoghi dove ci s’incontrava fossero le diverse stanze di una sola grande casa.
Sono cambiati i tempi, siamo cambiati noi. La televisione ci ha divisi, rintronati, sottomessi. Il calcio, le telenovela e i talk show sono diventati l’oppio dei popoli, quello che un tempo Engels e Marx dicevano della religione. Che c’è ancora, ma le chiese sono vuote e i preti sono diventati dei commessi viaggiatori che si muovono tra più paesi. Poi è arrivato anche internet e se i più vecchi ne conoscono appena il nome, i più giovani ci si sono infognati anima e corpo e vivono lì la loro comunicazione, non per le strade. Per non dire dei telefonini, i cui suoni agghiaccianti rompono con trilli e melodie elettroniche il tradizionale silenzio paesano; e fa quasi tenerezza vedere un vecchio contadino con le mani di cuoio che cerca di spippolare sul telefono digitale facendo più fatica di quando andava nella vigna a zappare. La campagna è sempre più lasciata a se stessa e i giovani ormai non è che non vogliano più fare il gesto dei padri, ma non lo ricordano nemmeno, hanno fatto tabula rasa della Memoria. È in questo “non più paese” che noi, ultimi paesani, vaghiamo come l’ebreo errante, soli e disperati, in cerca di una valle di Canaan che non c’è più e nessuno riuscirà più a ritrovare.