Make love, don’t war

I signori della guerra hanno vinto anche stavolta. Si sono affannati tutti, in vario modo, per far sì che il conflitto divampasse, alcuni accecati dall’istinto di thanatos che secondo Freud attanaglia la vita degli uomini, altri dalle “messi” che la guerra rappresenta per la vendita di armi e per le future ricostruzioni. Se poi qualcuno frammischia a tutto questo un concetto “malato” di etnia e di lingua, il piatto è servito con tutta la magnificenza dei suoi orrori.

Ebbene, noi ci ribelliamo a tutto questo, e al concetto di thanatos freudiano opponiamo quello di bios reichiano per sottrarci a quella sindrome della paura di vivere che pare abbia contagiato il mondo. Noi non vogliamo regalare neanche un secondo alla guerra, per noi impugnare un’arma non ha mai senso, è già di per sé una sconfitta, perché crediamo che le armi richiamino altre armi e che non esista una vera pace se è armata. Essa produce soltanto dei compromessi che mantengono il fuoco sottotraccia, pronto a esplodere di nuovo alla prima occasione, e occasioni ce ne sono in continuazione perché c’è chi non fa altro che soffiare sul fuoco. Possibile che gli uomini non lo comprendano? Buttino invece il fucile e facciano all’amore, solo così saranno nello stato d’animo ideale per fare la pace.

Wilhelm Reich[1] morì in carcere nel 1957 perché aveva scoperto il grande inganno: le guerre sono possibili perché repressione sociale e repressione sessuale sono le due facce di una stessa medaglia e chi detiene il potere fa leva su di esse per capitalizzare l’aggressività che matura ogni represso e indirizzarla contro colui che gli viene presentato come nemico, la propaganda di guerra è una delle più sottili e sofisticate.

Reich con le sue intuizioni e con la sua opera pratica di diffusione dell’amore libero minava dunque alle basi lo stato capitalistico dell’accumulazione, che ha bisogno di muscoli per prosperare, e per farlo nega l’essenza di ogni sentimento e sbriga la questione dell’amore come una qualsiasi merce che si può comprare, come e quando si vuole. Come avrebbero potuto i giovani americani andare in Vietnam se si fossero lasciati corrompere da quel cattivo maestro? Se avessero praticato l’amore libero e avessero vissuto in modo pacifico e non violento come avrebbero potuto essere sufficientemente “cattivi” per sopportare le carneficine che andavano a fare e a subire?

Ma in quegli anni furono molti coloro che strapparono le cartoline precetto e preferirono il carcere alla follia della guerra, che rinunciarono a carriere prestigiose (si pensi a Cassius Clay[2], poi Muhammad Alì) per testimoniare la loro avversione nei confronti delle guerre imperialiste della cosiddetta “patria della democrazia”. Nacque allora in America un grande movimento contro la guerra che portò in piazza a Washington 500.000 persone nel novembre del 1969. Ma chi era questa gente? Tanta gente comune, ricca e povera, studenti, membri di associazioni pacifiste, veterani militari che erano stati in Vietnam e ne conoscevano gli orrori, esponenti della società civile, hippy, militanti della Nuova Sinistra e del movimento per i diritti civili. Ma furono soprattutto gli hippy a dar vita in quegli anni a una vera e propria controcultura che contrapponeva ai valori tradizionali della società americana, basata fondamentalmente sul ruolo cruciale della classe media, un’idea di vita libera da convenzioni, tollerante, contraria alle discriminazioni, sessualmente promiscua, pacifista non violenta e ambientalista. E furono soprattutto loro a rendersi conto che l’industrializzazione avrebbe trasformato gli uomini in qualcosa di simile alla merce che produceva cambiandone completamente la vita. Che non sarebbe più stata libera, ma sempre più coatta, nuovamente schiavistica, con la falsa illusione di poterla consumare a piacimento ma anche di esserne consumati, questa era la parola d’ordine del nuovo ordine mondiale.

E gli hippy e tutto quell’universo alternativo che ruotava attorno a loro cercavano d’infrangere questa cappa militaristico-produttivistica ribellandosi alle convenzioni sociali borghesi che ne erano il supporto  sia con le loro capigliature fluenti che con i loro vestiti trasandati sia rifiutando lo sfruttamento del lavoro in fabbrica che la “carriera” come forma di affermazione sociale. Lo dice con chiarezza Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi famosi articoli su “Il Corriere della Sera” (Il “discorso” dei capelli, 7 gennaio 1973) in cui, pur dissentendo profondamente dai giovani alternativi, scriveva riguardo a ciò che dicevano col linguaggio inarticolato consistente nel segno monolitico dei loro capelli: “La civiltà consumistica ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Creiamo un anticorpo a tale civiltà, attraverso il rifiuto. Tutto pareva andare per il meglio, eh? La nostra generazione doveva essere una generazione di integrati? Ed ecco invece come si mettono in realtà le cose. Noi opponiamo la follia a un destino da executives. Creiamo nuovi valori religiosi nell’entropia borghese, proprio nel momento in cui stava diventando perfettamente laica ed edonistica. Lo facciamo con un clamore e una violenza rivoluzionaria (violenza di non-violenti!) perché la nostra critica verso la nostra società è totale e intransigente”.

Ecco allora il ritorno alla terra, alla vita rurale e ai suoi valori, con l’aggiunta di inferenze proprie  di pensieri e religiosità orientali, dal buddhismo al taoismo, o del pacifismo non violento gandhiano. E soprattutto la pratica dell’amore libero, con una costante e realizzata parità dei sessi al di là di ogni norma legislativa codificata. Essi avevano ben chiaro che era impossibile costruire una società libera e democratica se non si risolveva l’assunto storico della relazione tra i sessi, se non si riusciva a universalizzare il diritto della persona come principio fondante di qualsiasi aggregazione umana. E lo facevano senza legiferare, spontaneamente, come diritto naturale sul quale non c’è bisogno di discutere perché è istantaneamente e ontologicamente così. E di fatto mettevano in pratica quel monito di Teresa Mattei[3] nel suo primo discorso all’Assemblea Costituente quando disse “Non vi può essere oggi, a nostro avviso, un solo passo sulla via della democrazia, che non voglia essere solo formale ma sostanziale, non vi può essere un solo passo sulla via del progresso civile e sociale che non possa e non debba essere compiuto dalla donna insieme all’uomo, se si voglia veramente che la conquista affermata dalla Carta costituzionale divenga stabile realtà per la vita e per il migliore avvenire d’Italia”. Parole sacrosante che però nella società borghese contemporanea, benché siano passati più di settant’anni, non si sono ancora pienamente inverate perché nessuna norma può far cadere il pregiudizio che provoca ancora discriminazioni nei confronti delle donne o addirittura delle vittime. Nella comune hippy ogni guerra tra i sessi è superata, il rapporto non è mai di proprietà, ma di scelta, amarsi è naturale, spontaneo e necessario, l’unico modo per sentirsi in pace con se stessi e con gli altri.

Non è con nostalgia che ripenso a quegli anni e a quelle istanze, ma con occhio critico e cercando di capire. E più mi guardo intorno, più sento il parere dei tanti “integrati” della società borghese sulla guerra e sul mondo, più assisto alla “liquefazione” della società di cui parlava Bauman[4], e più mi convinco che soltanto un rifiuto netto di tutto quello che essa ha prodotto può fermare la guerra. E questo perché essa non nasce dallo scontro di due paesi che intendono entrambi affermare la loro sovranità su certi territori, ma dalla guerra permanente di chi con essa guadagna cifre da capogiro che non guadagnerebbe mai in qualsiasi altra attività. Sono questi signori che muovono le pedine dei conflitti, che li fanno scoppiare per far ripartire il motore dei loro interessi. E quanto più si distrugge, tanto più si guadagna poi nella ricostruzione, magari con progetti che vista l’urgenza “passano” disinvoltamente i vari controlli. E in questo percorso si calpestano cinicamente le popolazioni, riducendole a merci che in quanto tali possono anche deteriorarsi. È il trionfo della morte programmata a tavolino, dei cosiddetti “costi sociali” della società del consumo frutto estremo della civilizzazione. Che li ammanta di ragioni ideali e fa sì che ci siano “sommersi” e “salvati” secondo l’arbitrio delle sue logiche di sviluppo.

Ebbene, a tutto questo massacro perpetrato in guerre di serie A e di serie B, vorrei contrapporre l’indagine psicoanalitica sull’uomo nella Storia contenuta in La vita contro la morte di Norman O. Brown[5], libro straordinario uscito nel 1959 che mantiene intatta la sua validità di analisi a più di sessant’anni di distanza. In esso c’è una critica serrata della civilizzazione umana così com’è avvenuta che viene sviluppata sia alla luce del pensiero di Freud nelle sue più estreme conseguenze sia di quello di altri autori “visionari” della cultura occidentale, da Swift a Blake e da Nietzsche a Rilke.

Il suo libro ci dimostra che l’istinto di thanatos su cui si basa la politica della guerra come condizione di sviluppo patologico del mondo può essere capovolto o almeno contrastato da proposte radicali di liberazione che trovano innanzitutto nel “fare l’amore” l’antidoto più forte al fare la guerra. E in quel “fare l’amore” ci fa scoprire un’infinità di prospettive che, scevre da certe banali indicazioni manualistiche, ci aprono al piacere e al godimento.     


[1] Wilhelm Reich (1897 – 1957), psicoanalista austriaco di origine ebraica, elaborò in dissenso con Freud una teoria psicoanalitica, che potremmo definire freudo/marxista, in base alla quale la terapia della nevrosi non veniva applicata nel rapporto individuale tra l’analista e il cliente, ma in quello più ampio con la massa delle persone appartenenti alle diverse classi sociali. Il suo pensiero fu ripreso da Herbert Marcuse e fu uno dei riferimenti fondamentali della contestazione giovanile degli anni ’60 del Novecento.

[2] Muhammad Alì (1942 – 2016) è stato uno dei più grandi pugili di tutti i tempi. Senz’altro il più carismatico, vinse il titolo mondiale dei pesi massimi per la prima volta nel 1964, poi ancora nel 1974 e nel 1978.  Fu privato del titolo nel 1967 in quanto si rifiutò di andare a combattere in Vietnam. Per la sua obiezione di coscienza divenne un simbolo del movimento pacifista degli anni Sessanta.

[3] Teresa Mattei (1921 – 2013) è stata partigiana in Toscana durante la Resistenza e poi politica e pedagogista. Eletta all’Assemblea Costituente, era la più giovane (25 anni) delle cosiddette Madri Costituenti

[4] Zygmunt Bauman (1925 – 2017), sociologo polacco teorico della “società liquida”, cioè di una società in cui l’individualismo ha messo in crisi il concetto di comunità e ognuno è antagonista dell’altro. In essa l’incertezza è l’unica certezza.

[5] Oliver Brown, Norman, La vita contro la morte: il significato psicoanalitico della storia, Edizioni Il Saggiatore, Milano 1971

One thought on “Make love, don’t war

  1. Prosegue in un ovvio polemico con Gianni Repetto il confronto sulla guerra.

    Chi vuole la pace, non intende essere semplicemente indifferente rispetto alla guerra, non intende lasciare accanto sé la guerra, ma vuole l’annientamento della guerra. Anche in chi vuole la pace attraverso la non violenza, e quindi di la di quello che può essere lo strumento di volta in volta adottato, il fine da raggiungere è l’eliminazione della guerra dalla faccia della terra in modo definitivo. Con questo siamo già al punto essenziale della questione. Infatti si sta dicendo che la pace ha nella sua anima quella stessa violenza con cui vuole annientare la violenza della guerra. Questo il paradosso. Da ultimo la pace nel volere annientare la guerra è anche un voler annientare se stessa, stante che venendo meno la guerra verrebbe meno anche se stessa (che ha nell’opposizione alla guerra la sua ragione di esistere). In questo senso la pace (come la guerra) è una autocontraddizione e dunque destinata a risolversi nella sua infondatezza. (Attenzione, questo non significa nemmeno avere un atteggiamento equidistante nei confronti della pace e della guerra, ma fin tanto che non si va alle radici di questa opposizione, l’oltrepassamento della guerra rimane un sogno).
    Ma perché volere la pace è ancora volere la guerra?
    Apparentemente la pace, il pacifismo, non usa armi, fa riferimento ai fiori, all’amore, alla persuasione, alla libertà, al rifiuto dello status quo ingiusto e violento, ecc. e cioè adotta tutti quegli strumenti che sono considerati pacifici. Insomma, se tutti fossero dalla parte della pace, se tutti rifiutassero la guerra, la violenza, e facessero l’amore e godessero dei piaceri della vita, ecc. la guerra sarebbe definitivamente annientata, sarebbe espulsa dal genere umano e si potrebbe per sempre vivere felicemente.
    Ma in realtà questa conclusione è solo un auspicio, un pio desiderio, un sogno, e d’altra parte perché si dovrebbe impedire a qualcuno di sognare? Si risponde: sognando non si sa di vivere in un sogno, si crede che tutto sia reale ed è solo quando ci si sveglia che appare che quello che si credeva reale era solo un sogno, (così allo stesso modo è solo nel campo del razionale che può apparire che cosa sia l’irrazionale e non viceversa).
    Riproviamo. Detto in termini più grossolani non si può separare i pacifisti dai guerrafondai, come se i primi abitassero solo la pace e gli altri solo la violenza, qui gli uomini buoni, la quelli cattivi. Diciamo tanto per incominciare, che una certa violenza è presente costitutivamente in ogni uomo, e che quindi il problema è proprio quello di stanare, riconoscere, la violenza anche in un uomo apparentemente il più pacifico e amorevole di questo mondo, solo così apparirà anche reale l’ oltrepassamento della opposizione di pace e guerra. E lo si può già anticipare fin da ora, si tratta di oltrepassare quella opposizione pace- guerra che appare all’interno dell’interpretazione (nichilista), dove ogni cosa per sopravvivere implica la morte degli altri, ad es già per costruire una casa si viene a distruggere il prato su cui sorge. Pochi mettono in rilevo che anche un’opera necessaria e pacifica come costruire una casa include in se stessa quella violenza estrema che è la distruzione del prato. (d’altra parte anche il piacere di vivere di alcuni implica la fatica e il dolore della vita di altri, ecc. e spesso la vita di un uomo ne implica la morte di altri). Da qui, può esistere un mondo in cui la costruzione della casa non implichi la distruzione del prato?)
    Sotto un altro aspetto, se la pace non fa uso di strumenti efficaci per ottenere il suo scopo, lascia semplicemente libero il campo alla guerra, se invece si affida agli strumenti della guerra per vincere la guerra, il risultato sarà che la pace diventa essa stessa guerra.
    Precisiamo, fin tanto che la pace si astiene dall’utilizzo di strumenti efficaci vive in sogno, se intende essere una pace reale, ad es inizialmente prendendo in considerazione strumenti di propaganda, poi forme di associazione organizzate anche politicamente, e poi anche forme di boicottaggio delle fabbriche di armi, e ancora di più il boicottaggio della produzione di base dei metalli utilizzati (non solo per le armi ma anche per altre cose), è chiaro che si viene a configurare un conflitto sociale generalizzato e procedendo in questo ordine pragmatico, si capisce che il raggiungimento della pace può essere sì reale ma non è più pacifico. Ma soprattutto, ci si accorgerebbe che in quanto anche una matita può uccidere una persona, ebbene tutto ciò che è potenzialmente strumento, per eliminare la guerra, richiederebbe di eliminare la stessa civiltà umana, ritornando ad uno stato di natura primitivo, che tuttavia non per questo sarebbe meno violento, stante che la violenza originaria risiede propriamente nella natura, che vuole la morte dell’uomo, il quale si è inventato di tutto, pur di evitarla o di prolungare la vita. (è dunque un mito anche credere che la natura è amica dell’uomo, lo sapeva bene Leopardi))

    C’è la guerra, siamo in guerra, la guerra è da sempre, e tutti oggi vogliamo la pace. Anche il presidente della confederazione russa la vuole, ma direbbe che la pace per essere veramente pace è anche una questione di giustizia, che per lui in questo caso è la difesa dei diritti dei russi.
    Il problema è che non essendoci una giustizia assoluta tale da poter giudicare secondo necessità, ne viene che il concetto di giustizia diviene un che di relativo e ad es. in questa guerra i Russi affermano di essere loro ad essere stati aggrediti per primi nel Donbass, e da parte di uno stato governato da gente corrotta e poco perbene, e ovviamente la controparte afferma che no, è del tutto evidente chi è l’aggressore e l’aggredito. Questo per dire che se la pace può essere garantita solo sulla base di una giustizia relativa, che proprio per questo la giustizia di una parte vale quanto la sua opposta, è inevitabile che dopo aver discusso per un po’ di tempo, alla fine si ricorra a degli strumenti che sono dirimenti il dissidio, vale a dire agli strumenti più potenti che sono in grado di zittire l’avversario. (e siccome la Russia è più potente dell’Ucraina per non far acquisire troppo vantaggio è intervenuta l’altra super potenza rendendo plausibile che la guerra prosegua a lungo sino quando si determinerà una situazione di stallo che obbligherà le controparti al compromesso).
    Ma per rendere del tutto insensato e folle la convinzione che l’unico modo per risolvere le contraddizioni dell’uomo, le ingiustizie, ci si deve affidare alla violenza della pace-guerra occorre scendere in discorsi più difficili e complessi che qui non è il caso di sviluppare.
    24/05/2022 Fusine

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