È ormai consuetudine in questi ultimi tempi che molti personaggi del mondo pubblico, in particolare dello spettacolo, dichiarino di aver abbracciato la castità e/o il digiuno. Un tempo scelte di questo tipo erano appannaggio degli asceti delle varie religioni, di coloro che le facevano allontanandosi dalla mondanità. Oggi, invece, vengono fatte da chi la mondanità esasperata del presente continua a viverla, anche se spesso dice di esserne ai margini, e sfrutta i mezzi della comunicazione di massa per farlo sapere, come se si trattasse di scelte esemplari e non di una delle tante manifestazioni dell’odierno apparire. E allora, ammesso che un’esternazione di questo tipo possa far parte di un’originalità individuale, quando essa determina una sorta di effetto domino e continua a moltiplicarsi come sta succedendo, viene spontaneo chiederci da dove essa scaturisca e perché abbia così tanta fortuna.
Innanzi tutto è bene chiarire che stiamo parlando dell’uomo occidentale e che la maggior parte di questi novelli asceti non è mossa da un’etica religiosa nei suoi aspetti più maceranti e penitenti, ma da qualcosa che ha a che fare con la società contemporanea e con il suo sviluppo ipertrofico e monopolizzante. E noi individuiamo questo qualcosa in due aspetti dell’odierno vivere quotidiano: da un lato, nonostante le conquiste della medicina ne hanno abbiano sempre più salvaguardato l’integrità, c’è il bisogno dell’uomo contemporaneo di allontanarsi sempre più dalla fisicità individuale e collettiva, condizionata da fattori nutrizionali e ambientali contaminati e contaminanti (si pensi, ad esempio, agli effetti del Covid, tuttora cogenti), con una risposta salutista ai limiti del maniacale; dall’altro la convinzione sempre più diffusa che per uscire dal guazzabuglio esistenziale del presente l’unico rimedio sia rinchiudersi in una bolla mentale frutto di una scelta ideologica individualistica. Sulla base di queste due ipotesi proviamo a confutarne le ragioni e a individuarne le probabili radici.
L’uomo del passato aveva meno paura della morte dell’uomo contemporaneo nonostante la sua speranza di vita fosse nettamente inferiore. Era più fatalista, perché era consapevole delle diverse cause che avrebbero potuto troncare la sua vita, malattie, incidenti o guerre che fossero, e di come fosse spesso impossibile evitare che questo accadesse. L’uomo contemporaneo, invece, ha sempre più conquistato certezze materiali sul suo destino di vita, che però, anziché rassicurarlo, gli hanno man mano suscitato un’irrefrenabile paura di perderne i benefici o di non essere in grado di goderli. E in effetti certe conquiste, come la libertà sessuale e l’abbondanza di cibo, hanno cominciato a rivoltarglisi contro, con effetti fisici e psicologici sconosciuti in passato che hanno minato quelle certezze e diminuito le funzioni organiche ad esse connesse, facendogli maturare diffidenza se non addirittura avversione nei loro confronti. Ecco che allora quello che era stato per lui originariamente un istinto naturale di vita si è trasformato nel suo opposto di morte e ha innescato processi di rinuncia psicologica alle due funzioni fisiche fondamentali dell’animale uomo, il sesso e il cibo. Oppure ha fatto esattamente l’opposto rendendole patologiche, maniacali, animate dallo stesso istinto di morte. È il caso dei femminicidi e degli stupri per quel che riguarda il sesso o della miriade di obesi o anoressici per quel che riguarda il cibo. Il frutto di una civiltà in cui la libertà individuale è soltanto un postulato istituzionale, ma nella vita di tutti i giorni è repressa dall’istinto di morte proprio delle dinamiche sociali e dalle auto castrazioni psicologiche dei singoli individui.
Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, agli inizi della sua ricerca sulle pulsioni umane, concentra la sua attenzione sulla libido intesa come “energia vitale”, “forza motrice somatopsichica”, cioè una pulsione di vita. Ma a partire dal 1920 si convince che l’equilibrio psichico di un individuo non dipende soltanto da essa, ma anche dall’istinto di morte. L’uomo, infatti, non ricerca soltanto il piacere, ma anche la sua morte come ritorno allo stato iniziale di non vita. Ecco come lo dice nell’opera che segna questa svolta: “In base ad ampie considerazioni sui processi che danno luogo alla vita e che conducono alla morte, è probabile che si debbano riconoscere due tipi di pulsioni, corrispondenti ai processi opposti di costruzione e di distruzione nell’organismo. Il tipo di pulsioni che in fondo lavorano silenziosamente e che perseguirebbero lo scopo di condurre l’essere vivente alla morte hanno perciò meritato il nome di “pulsioni di morte”; rivolte verso l’esterno grazie all’azione congiunta di molteplici organismi elementari unicellulari, verrebbero a manifestarsi come tendenze distruttive o aggressive. Le altre sarebbero le pulsioni libidiche analiticamente a noi meglio note come pulsioni sessuali o di vita e che potremmo compendiare nel modo migliore sotto il nome di Eros” (Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, Bollati-Boringhieri, Torino, 1975).
Wilhelm Reich, allievo di Freud, sostiene come il suo maestro la centralità della sessualità nella psicanalisi, ma non ritiene che l’istinto di morte contribuisca all’equilibrio psichico di un individuo, anzi, pensa che non sia affatto congenito all’essere umano, ma piuttosto che derivi da esperienze negative di interazione con l’ambiente avute nell’infanzia. Secondo Reich i disturbi psichici hanno origine nella libido che, se repressa, trova sfogo nella nevrosi. Ed è questo che hanno sempre fatto le diverse forme coercitive del potere, hanno represso l’eros dei popoli per tenerli più soggiogati, mentre il dispiegamento della loro potenza orgasmica li avrebbe spinti alla rivolta. La rivoluzione che dunque devono fare gli uomini è quella sessuale, l’unica che non prova alcuna nostalgia sia per l’istinto distruttivo che per quello autodistruttivo di morte. L’unica che sceglie sempre e soltanto la vita.
Ma alla luce di questa analisi la castità e il digiuno non sono forse rinunce alla vita, autorepressione della nostra energia vitale? Non sono un rifiuto fideistico e intellettualistico ad ascoltare il corpo nella sua carnalità? Una pretesa di inibirlo e di farlo diventare il puro spirito che non è? E la rinuncia al piacere fisico non è un’incomprensibile limitazione dell’esistenza e della conoscenza?
A queste domande ci pare che dia risposte adeguate un altro psicoanalista che, assieme a Herbert Marcuse, è stato uno dei principali propugnatori e stimolatori del pensiero antirepressivo degli anni Sessanta: Norman O. Brown. Egli nel libro La vita contro la morte (1959) svolge un’indagine psicoanalitica sull’uomo nella Storia, evidenziandone la caratteristica di soggetto/oggetto malato sulla cui repressione degli istinti si fonda la civiltà. Ecco che torna in primo piano nella sua analisi il conflitto tra istinto di vita e istinto di morte che, secondo lui, è possibile risolvere liberandoci da ogni freno inibitorio e riscoprendo la sessualità a prescindere dalla genitalità. Genitalità che è il frutto della codificazione sessuale fatta dall’ebraismo e poi ripresa dal cristianesimo nei termini del matrimonio e della famiglia, che diventa il nucleo centrale della società e dello Stato. E tutto questo a discapito di quella sensualità polimorfa che scaturisce dal fluire libero della libido e mette in gioco tutto il nostro essere corpo. Concetti ripresi e sviluppati in un libro successivo, Corpo d’amore (1966), in cui l’autore racconta ed esamina lo scontro incessante tra erotismo e civiltà che ha caratterizzato la storia umana, quella civiltà normalizzatrice che agisce in base all’istinto di morte e conculca il desiderio naturale dell’essere umano di abbandonarsi al godimento fisico. Con il risultato di ottenere trasgressioni sessuali non improntate al piacere condiviso, ma caratterizzate da quella distruttività possessiva che è l’aspetto oggettivo dell’istinto di morte.
Ma il loro punto di vista riguardo a come l’uomo possa liberarsi dalla costrizione repressiva della civiltà è sostanzialmente diverso. Marcuse, infatti, critica la tesi di Freud in base alla quale l’uomo, per passare dallo stato naturale bestiale a quello evoluto della cultura, deve necessariamente sottoporre il principio di piacere al principio di realtà e rinunciare al soddisfacimento integrale dei suoi istinti, garantendosi però in questo modo la sopravvivenza e una vita sociale. E in contrapposizione ad essa sostiene invece, a partire dal suo hegelismo filosofico, che non esiste un principio di realtà assoluto, ma che esso dipende dal contesto storico-sociale in essere in un determinato periodo, per cui è possibile ipotizzare che un’organizzazione diversa della società possa dar vita a una civiltà non repressiva e a un rapporto più equilibrato tra uomo e ambiente. Brown non condivide questa posizione e la differenza tra i due punti di vista emerge in un particolare frangente della relazione tra i due studiosi.
Nel febbraio 1967 apparve sul giornale Commentary una recensione di Marcuse al libro Corpo d’amore di Brown nella quale il filosofo, in un testo criticamente polemico, diceva tra le altre cose: “… Brown è guidato dalle idee più avanzate e estreme della psicoanalisi, e gli piace citare Adorno: “Nella psicoanalisi sono vere soltanto le esagerazioni”. Soltanto le esagerazioni possono distruggere la compiacenza del buon senso e dello spirito scientifico con le loro illusioni e i loro limiti rassicuratori. Solo le esagerazioni possono (forse), con la violenza di uno shock, chiarire l’orrore del tutto, la profondità dell’inganno, e l’incomunicabile promessa di un futuro che potrà essere (o potrà pensarsi) solo in quanto annullamento totale di passato e presente. Apocalisse e Pentecoste: distruzione di ogni cosa e redenzione di ogni cosa: liberazione finale del contenuto represso – abolizione del principio della realtà, anzi: abolizione della realtà stessa. Brown infatti chiama illusione, menzogna, sogno, ciò che noi chiamiamo realtà…”.
Non si fece attendere a breve la risposta di Brown: “… Marcuse non vuole vedere il ricorso della rivoluzione. La rivoluzione non è una lavagna cancellata, è un ciclo ricorrente. Anche la novità è un rinnovamento. Proprio come all’inizio. Si tratta dell’idea di progresso: la realtà di Marx non può nascondere la realtà di Nietzsche. Si tratta di cambiare il mondo; ma è anche vero che ogni cosa resta sempre uguale. Il compito allora, per dirla in parole povere, è l’affermazione e contemporaneamente il rifiuto di quanto è; ma non in un sistema, come ha fatto Heghel, bensì in un istante, come in poesia. C’è l’eterno ricorso; ci sono “oggetti eterni”, archetipi…”.
Contro l’idealismo, lo storicismo e la filosofia dello Spirito hegheliani Brown propone dionisiacamente la ribellione del corpo, cioè dell’istinto di vita, nei confronti della società contemporanea che, divorando incessantemente come il dio Saturno i suoi figli per paura di essere detronizzata, ha scelto un destino di morte.
È questo il background analitico e culturale da cui scaturirono le esperienze comunitarie di amore libero degli hippie, il rifiuto delle cartoline precetto per il Vietnam da parte dei giovani americani, la presa di coscienza dei giovani di tutto l’Occidente che la civiltà che le élite avevano confezionato era basata sulla menzogna e che occorrevano rivolte “esagerate” per liberarsene. Rivolte che, purtroppo, vennero spesso coniugate con lo stesso linguaggio dell’establishment dominante, contrapponendo alla violenza del Potere (come lo scriveva Pasolini) altre forme di violenza che erano ugualmente espressione dell’istinto di morte. Ma l’esagerazione che intendevano Reich e poi Brown era di tutt’altra natura: era il vivere secondo le richieste del nostro corpo, al di là delle convenzioni e delle regole repressive della società del consumo e dell’appartenenza, liberi da ogni forma di mentalizzazione della nostra esperienza di vita. Compresi la castità e il digiuno, gabbie anch’esse repressive, frutto, secondo noi, di scelte pensate e autoritariamente autoimposte.
Riprendiamoci dunque la vita, se ancora non l’abbiamo fatto, e continuiamo a fare l’amore in base a ciò che il corpo ci consente nelle sue varie età. E se ogni tanto facciamo qualche eccesso a tavola perché stiamo mangiando con gli amici un piatto prelibato, che ci dà soddisfazione di gusto e di sapore, e magari ci aggiungiamo anche qualche bicchiere di buon vino, non sentiamoci dei volgari materialisti o addirittura degli impuri, perché ciò che gradisce il corpo è foriero di santità.