Pubblicazioni poesia

Canottiere terse di luna

Gianni Repetto

Tipografia Pesce, Ovada 1999

Fare poesia è follia

  • Non è vero che fare poesia è una necessità assoluta. Non è vero che fare poesia è inscritto nei geni di ciascuno di noi. Non è vero che fare poesia è un’attività di elite intellettuale. Fare poesia è follia.
  • La follia? Un classico della poesia. I poeti hanno bisogno di referenti patologici e s’infiammano quando credono di individuare nel folle le stimmate della poesia. Come se essa potesse dipendere dalla vicenda umana di un individuo. Ma la follia della poesia non ha niente a che fare con le depressioni e le monomanie.
  • La follia della poesia è la follia della parola. Della parola, non del poeta. Parola che scaturisce dal nostro sentire con un processo che ci appartiene soltanto nell’aspetto tecnico della trascrizione. La poesia non è un’intuizione soggettiva, è la capacità di cogliere oggettivamente l’universale.
  • La parola ha un valore semantico che la moltiplica e la estende, ma il linguaggio recondito dell’esistenza non ha significati verbali. Indulgere alla cerebralizzazione del senso produce un’implosione poetica che distrugge il ritmo della scrittura. La poesia è musica e la “stecca” non riguarda il suo significato.
  • La carica emotiva di un testo poetico dipende dal metro della sua composizione. Solo una buona dimestichezza con la musica, tempi e ritmi del solfeggio, non ascolto maniaco e beota, consente di godere fino in fondo l’armonia di un verso e di una strofa.
  • Tecnica e poesia non sono affatto antitetiche. L’acquisizione e l’interiorizzazione di strumenti sono premesse indispensabili alla produzione poetica. Che è fatica, solitudine, non il bacio di una dea.
  • Scrivere poesia è sussurri e grida, angoscia e tremore, coraggio e esaltazione. La prova generale di una prima. Scrivere poesia è un gesto estremo di sfida per catturare una voce che non ci appartiene. Scrivere poesia è un’avventura terrificante che ogni volta ci fa giurare che non lo faremo mai più.
  • La poesia è voce tonante, rauca, stridula, lamentosa, e come tale deve essere vissuta. Leggerla in silenzio vuol dire condannarla all’inesistenza. La poesia, sulla carta, è come una musica mai eseguita.
  • La poesia è eroismo, profezia, santità. Ma nessun poeta è eroe, poeta o santo. Perché il poeta, non appena ha concluso la sua missione, è l’essere più insignificante della terra.
  • La poesia è paradosso dell’esistenza. Definire qualcuno poeta è un insulto alla sua sofferenza..

 

I santuari della pietra viva

Itinerari artistico-naturali lungo le valli del Piota e del Gorzente

Gianni Repetto

L’Artistica, Savigliano 2002

LA PIETRA DELLA CONCILIAZIONE  – In occasione della mostra collettiva “Pietre”, che tenemmo ad Ovada nell’estate del ’97, io e gli altri componenti del gruppo “Artisti per fede” presentammo un manifesto (riportato in appendice a questo volume) nel quale formulavamo una nuova teoria estetica ed enunciavamo un metodo rivoluzionario di “produzione” artistica. Il presupposto su cui si basavano queste nostre innovazioni era la convinzione che esistessero in natura opere oggettivamente artistiche e che soltanto degli autori – ricercatori illuminati fossero in grado di individuarle e di accoglierne la rivelazione. Riconoscevamo dunque un carattere fortemente elitario alla nostra arte, una specie di scrigno dorato a cui soltanto pochi privilegiati avrebbero potuto accedere. Ma eravamo anche pienamente convinti che l’Arte per fede non poteva essere un’intuizione settaria perché il fatto stesso che si esplicasse in natura le conferiva un ruolo di rivelazione universale. Pertanto, se volevamo che tutto ciò si realizzasse, dovevamo superare la fase necessariamente esclusiva della scoperta e trovare una forma di mediazione con l’inconsapevolezza delle masse. Ecco perché nacque “Pietre”: decidemmo infatti di prendere in prestito dal territorio delle opere artistico – naturali e di esporle temporaneamente al pubblico in modo che  tutti avessero l’occasione per riconoscerle; dopodiché provvedemmo a ricollocarle nell’esatto punto di raccolta per ristabilire l’equilibrio infranto. Definimmo allora questa fase “delle pietre ostaggio”, in quanto le avevamo trattenute in cattività con il preciso obiettivo di instillare nel visitatore il germe del dubbio e costringerlo a porsi la domanda: – Sono soltanto pietre o sono anche opere d’arte? -. Si compiva così il primo passo verso una nuova visione della natura che, da oggetto di sfruttamento indiscriminato, diventava soggetto teoretico fondante.

A questo punto bisognava ricongiungere il molteplice all’uno, ridare all’oggetto artistico naturale la sua primitiva collocazione nella galleria a cielo aperto della natura e mettere in condizione i nuovi illuminati di cercarselo tra picchi e rivi con le pratiche ascetiche di rito. La mia attenzione si concentrò allora sulle valli del Piota e del Gorzente, deciso ad individuare dei percorsi artistico – naturali che potessero aiutare i neofiti ad esplicare il loro karma. Si trattava infatti di due valli che erano già state generose fornitrici di “pietre ostaggio” per la mostra di Ovada e che per le loro caratteristiche di integrità morfologica si prestavano ottimamente a questa funzione iniziatrice. Cominciai dunque a percorrerle senza sosta su e giù per il greto, in modo da coglierne fisicamente l’essenza materiale, e mi resi conto che si trattava di due grandiose officine di produzione di opere d’arte naturali, le più grandi che avessi mai veduto. In particolare mi colpì il fatto che niente vi avvenisse per caso, ma che ci fosse un modellatore straordinario, l’acqua, che aveva già un disegno preordinato fin dalle sorgenti, anche quando si trattava di un’alluvione. Sicché il quadro era sempre quello voluto e anche se risultava apocalittico nessuno, aldilà dell’umana disperazione, poteva negarne la bellezza. Ma c’era anche un tempo della grazia, in cui il demiurgo modellatore fungeva da tornio e da fresa dell’oggetto grezzo del cataclisma. Ci voleva tempo, però, il suo tempo. Ed io, invece, ero abituato al nostro, sempre più impazzito, ed era per questo che facevo fatica a cogliere gli elementi minimi di quel divenire. Eppure mi rendevo conto che la perfezione stava proprio nel controllo dell’attimo, nel lavorìo del centesimo, in tutto ciò che avveniva per la forza inerziale degli eventi. Ogni accelerazione artificiale era una forzatura e prima o poi mostrava limiti di consistenza, “sentiva” la mancanza di quei passaggi intermedi naturali che sono la pratica di ogni elaborazione teorica. Ma è proprio questo il limite dell’arte di produzione umana: forma e sostanza appartengono a due sfere distinte e l’opera vive sull’equilibrio precario che si riesce a stabilire tra loro. L’arte naturale, invece, nasce già armonica, per cui non esiste qualcosa che abbia soltanto una forma, ma è sempre e comunque anche sostanza. Essa ripropone continuamente il principio della creazione ed è contemporaneità di pensiero e di materia. Non ci sono pensieri vani in natura, tutto trova il suo compimento, Si potrebbe dire, riprendendo un concetto della metafisica bruniana, che è “res generans” e “res generata”.

Immerso in questa musica di forme, di profili e di vuoti, l’artista si abbandona alla melodia del motivo che la natura ripete da millenni con delle piccole, infinitesimali, progressive variazioni. Strano procedimento a spirale di un viluppo di note che si dipana con regolarità e con stacchi improvvisi, ma risulta sempre rotondo e avvolgente. Come una voce salmodiante che inneggi ad un dio, questo sì sconosciuto, che permea della sua indissolubile presenza ogni frammento di materia. E’ il tesoro di un santuario, custodito con cura e pazienza dal tempo ed elargito a chi ha il coraggio di accollarsene il faticoso riconoscimento. Solo allora gli sarà possibile chiudere gli occhi ed ascoltare l’eco dei riti geologici consumatisi nel ventre della terra milioni di anni fa, quando la pietra, questa pietra, era ancora magma incandescente. Ma qui siamo al tempo prima del tempo, alla sostanza prima della materia, al crogiolo inesauribile in cui si forgiarono i destini del mondo. Quante grida lancinanti di destini compiuti senza accondiscendenza!

Nei santuari della pietra viva tutto si confonde e si rielabora in un crescendo che prelude a un’esplosione, forse un cataclisma, che è sempre nuovo, ma anche inesorabilmente antico. E l’artista gode di questa ebbrezza apocalittica, e allora sale sulle guglie del santuario in cerca dei segni di quell’epifania, e potrebbe anche ascendere al cielo se non si sentisse profondamente radicato nella pietra, anzi, pietra lui stesso. Sicché gli basta un istante per ribaltare il concetto tradizionale di spiritualità, quella sospirata convinzione che astrarsi dalla materia sia un passo necessario verso il completamento. Perché soltanto la materia è veramente pura, palpitante, gioiosamente carnale, anche quando un’effettiva rigidità di struttura la fa apparire indifferente. Essa è viva, laboriosa, paziente, capace di raggiungere ogni volta l’obiettivo e ripartire. E’ il tempo stesso, che non avrebbe ragione di esistere senza la materia. E il tempo è l’unica dimensione spirituale che è possibile sperimentare. Se dunque dovesse esserci un cambiamento di stato in questo processo ascensionale (o discensionale, secondo i punti di vista) consisterebbe in una maggiore materializzazione del corpo dell’artista fino al punto di consentirgli di restare perennemente in veglia nei santuari della pietra e di condividerne fisicamente ogni minuscola mutazione. Sarebbe come ricongiungersi con l’anima materiale del mondo e stabilire  un collegamento istantaneo tra l’attimo della prima creazione – esplosione e il divenire del presente.

Mi preme infine sottolineare un aspetto dell’esperienza artistica per fede che ha una funzione straordinaria di catarsi della memoria storico – sociale: la fatica. Essa è una componente essenziale della nostra pratica produttiva, e il suo costante esercizio ci mette idealmente in contatto con le sofferenze dei nostri antenati, quando il lavoro coatto aveva i crismi della schiavitù. Per noi faticare gratuitamente trasportando per ore una pietra ostaggio oppure risalendo un torrente alla ricerca di oggetti illuminanti è come liberare da secoli di umiliazione le anime carnali dei nostri antenati affinché trovino la forza di rivoltarsi almeno nella tomba. E allora l’unico rincrescimento che ci resta è quello di non averli più con noi per far loro provare, anche solo un istante, il piacere della libertà.

Batte il mio cuore batte

Per amore

Gianni Repetto

Tipografia Pesce, Ovada 2010

Non c’è vita senza amore. Quello fisico, carnale e spirituale intendo. Da un lato ce lo impone una pulsione, quella “scoperta” della pubertà che cambia radicalmente la nostra esistenza, dall’altro il senso di solitudine che ci accompagna per tutta la vita e in certi momenti ci fa persino pensare che non vada la pena di essere vissuta.

È bello fare all’amore, ma anche conveniente. È l’unico modo, infatti, per superare indenni i momenti di crisi, le angosce, i dolori più grandi. E invece spesso, proprio quando siamo in difficoltà, noi ci rinunciamo, come se fosse cosa inopportuna in quei frangenti. Perché, secondo la nostra cultura, ci vogliono delle condizioni particolari per fare all’amore, dobbiamo essere pronti fisicamente e spiritualmente. Dobbiamo preparare la scena, come in un film.

Personalmente credo che l’amore più bello, più gustoso, più necessario – sì, necessario – sia quello che si manifesta nei momenti meno dedicati, quando in genere si fa tutt’altro che amarci perché abbiamo altre preoccupazioni. Per me è lì che si capisce il senso taumaturgico dell’amore, la sua imprescindibilità: è lì che bisogna avere il coraggio di mettere da parte i ragionamenti e darsi, senza pensarci un istante. Liberiamoci una volta tanto da questa zavorra…

L’amore è salvezza materiale e spirituale, escatologica direi. Regola il nostro fisico e le sue pulsioni, ci mette di buonumore, ci fa “sopportare” il lavoro più sereni, talora anche piacevolmente languidi. Ma nello stesso tempo ci indica un fine teoretico di questa vita, quello di godere.

Spesso si considera il piacere come un bene effimero, legato alla contingenza materiale; e, gerarchicamente, lo si pospone ad altre priorità. C’è da risolvere il problema dell’avere, grande o piccolo che sia, e le nostre energie devono essere incanalate in quella direzione. Qualcuno, poi, persegue anche il potere e lo ricerca così intensamente da ridurre l’amore a una “marchetta”, e il suo percorso è livido, rancoroso, l’antipiacere per eccellenza.

No, cari amici, non si può rinunciare al piacere: esso è alla base di ogni nostra azione che avrà un risultato migliore o peggiore a seconda di quanto stiamo godendo. Perché il piacere è un continuum, un percorso di scoperta sensoriale che non si arresta mai e segue fisiologicamente il nostro declino fisico. Bisogna assecondarlo se si vuole stare bene, in ogni sua fase, senza paventarlo o cercare di correggerlo con rimedi chimici: il piacere è abbandonarsi finalmente all’idea che il coito è solo una piccola parte di quel percorso, e che la nostra sensualità è per fortuna più complessa, polimorfa, e basta talora una carezza, una mano appoggiata amorevolmente su una spalla o sulla schiena, a lasciare su di noi il segno per tutta la vita.

E poi ci sono le parole e la loro irresistibile malìa. Non c’è rapporto che possa farne a meno, magari diverse a seconda degli amanti, dolci, sferzanti, suadenti, imperiose, lascive, pudiche, ma ci sono. Parole pronunciate nell’intimità o pubblicamente, parole per manifestarsi o per ingannare. Parole che possono essere carezze amorevoli o autentiche pietre.

Ecco, la poesia si dibatte tra questi estremi e il poeta che racconta l’amore lo fa con voce incantata quando s’innamora, appagata e sensuale nel pieno della storia per poi abbandonarsi spesso a invettive anacreontiche o a languidi rimpianti quando essa finisce. Non fa dunque nient’altro di quello che fanno gli altri comuni mortali e anche lui come loro diventa di volta in volta amante, bambino, seccatore, carogna e perfino aguzzino. Con una differenza, però: lui l’amore lo deve raccontare; ha bisogno di fissarlo eternamente nelle parole, ha bisogno di scriverne per sentirsi appagato, ha bisogno di rendere la normalità eccezionale. Per darsi una speranza, per dare una speranza. La speranza di un’illusione.

Amanti, diffidate dei poeti, ma sappiate che scrivere poesie d’amore è il modo più intimo di raccontare la storia del nostro piacere.

 

A léngua da Memoria

Poesie in forma di camzone

Gianni Repetto

Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2018

Le culture identitarie locali, faticosamente mediate nel tempo, vere e proprie visioni del mondo interiorizzate e tramandate di generazione in generazione, stanno, in questi ultimi anni, svanendo come neve al sole di fronte ai processi fulminei della globalizzazione che travolgono inesorabilmente anche chi, a parole, dice di volerli combattere, magari rifugiandosi nella lingua madre e nel nostalgismo. Ma senza un’approfondita riflessione su ciò che sta avvenendo nelle nostre piccole comunità, senza un’analisi spietata dello stato delle cose che prescinda da compiacimenti folcloristici e affronti il cuore del problema nei suoi gangli essenziali, non riusciremo a capire se è ancora possibile o meno salvare in modo attivo la nostra Memoria dall’estinzione.

 

Radice di calanchi

Gianni Repetto

Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2023

“Crescere in un prato di erbe sempre uguali, // di fiori mai gualciti da piogge e temporali, // d’insetti che ronzano noiosi con le ali, // mi mette una tristezza che m’incupisce il cuore // e non riesco più a parlare, soffocato dal magone. // Vorrei crescere in un prato di erbe strampalate, // di fiori spettinati coi petali sdruciti, // di grilli un po’ sbadati che cantino stonati, // di gente assai diversa con tante lingue strane, // ma pronta a fare festa ballando tutti insieme.”

Lettura poetica di un ecosistema particolare, quello dei calanchi, che, nonostante le enormi difficoltà ambientali, riesce a sopravvivere e a manifestarsi con la sua originale bellezza, un miracolo artistico creativo che la natura escogita per riprodursi e salvaguardare la sua biodiversità. Sta a noi stabilire un dialogo empatico con essa, fatto di rispetto e di stupore poetico. Ed è questo che ho cercato di fare con i miei versi, personificare poeticamente la storia naturale di un ambiente.