Stamattina sono entrato dal fornaio e ho visto, appiccicato al bancone, un volantino in cui una delle tante associazioni pseudoartistiche territoriali proponeva l’ennesimo corso di teatro con una dicitura che recitava testualmente “si cercano talenti”. La sera ho aperto la televisione e zappingando un po’ in qua e in là sulle varie reti mi sono apparsi almeno due talent show in cui si cercavano, per l’appunto, talenti, ovviamente per cantare, recitare e far di satira. Nessuno cercava operai, tecnici, contadini e pastori, ma nemmeno giovani che volessero imparare a far politica. Cioè, non giovani che volessero “sistemarsi” in politica, di quelli ne abbiamo già fulgidi esempi in tutti gli schieramenti, ma che riconoscessero il fare politica come necessità contingente e ineludibile. E – senza voler ricorrere a ciò che diceva Guy Debord ne La società dello spettacolo[1] che più l’uomo “contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”- siamo anche noi fortemente convinti che si debba ritornare a far politica fuoriuscendo da quella che è diventata – e questo sì che aveva ben intuito Debord – a sua volta uno spettacolo in cui si assiste a “un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini” e a “uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire”.
Ecco perché abbiamo bisogno di talenti in politica, ma non di singoli “uomini del destino”, quelli che in genere non sono talenti politici, ma semplici imbonitori (quante volte recentemente la Storia ce n’ha proposti e continua a proporcene!), ma di veri talenti per individualità, personalità e creatività, sempre però coniugate con un forte senso di responsabilità nei confronti del bene comune e dello spirito di servizio necessario per realizzarlo. E di cultura e conoscenza, senza le quali è impossibile esprimere un tale talento. Talenti come furono i progressisti Giacomo Matteotti, Carlo e Nello Rosselli, Piero Gobetti e Antonio Gramsci (tutti assassinati in qualche modo dal fascismo) o Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi, liberali e il secondo anche liberista. Come liberale era anche Gobetti che però seppe trovare convergenze ideali con il comunista Gramsci. Il loro rapporto è uno degli esempi più alti di dialogo politico tra ideologie differenti, come deve avvenire in un contesto di relazione politica democratica. Ecco cosa pensava Gobetti di Gramsci: “La sua sociologia ascetica, l’assolutezza filosofica dei suoi atteggiamenti giacobini sono nutriti di sofferenza personale. Una sofferenza diventata così intimamente aristocrazia di carattere che può deridere tutti i compatimenti della morale borghese e documentare la sfacciata crudeltà della filantropia. È difficile trovare un tipo così caratteristico di schietto marxismo, una coscienza così superba e ferma di plebeo che non si rinnega”[2]. E aveva così stima del comunista Gramsci che invitò a Torino Giuseppe Prezzolini, il fondatore de La Voce, per organizzare un incontro con Gramsci. E Prezzolini disse di Gramsci: “ È uno degli uomini più notevoli dell’Italia. Il suo Ordine ha una parola originale. E personalmente ha fede, energia, non lavora per il momento”[3]. E di Gobetti: “Mi fermai per conoscere il gruppo di amici di Gobetti. È un’energia Gobetti, una forza morale grande”[4]. Ed era a tal punto grande la stima tra i due che nacque la diceria che Gobetti fosse un comunista camuffato da liberale. Cosa che, per correttezza, fu prontamente smentita da Gramsci:” E cosa c’entra il liberale Gobetti? Egli non è iscritto al Partito Comunista, è un giovane che ha compreso la grandezza della Rivoluzione russa e dei capi che la guidano… Ci auguriamo che egli si persuada sempre più che se il liberalismo significa incremento di capacità e dell’autonomia popolare, se il liberalismo significa incremento di capacità politica negli individui, oggi il liberalismo come concretezza storica vive solo nel Comunismo internazionale”[5]. Gobetti e Gramsci venivano dunque da una diversa radice politica, ma da uno stesso clima culturale, quello della Torino del primo dopoguerra, quando la città sabauda, “con le agitazioni operaie e l’occupazione delle fabbriche del “biennio rosso”, sarà un po’ l’occhio del ciclone rivoluzionario italiano, ma sarà anche – con le riviste e le case editrici e l’università e i teatri e le società musicali – uno dei momenti più alti del dibattito e del rinnovamento culturale del paese”[6]. E che Gobetti e Gramsci e i giornali che essi avevano fondato e dirigevano fossero la punta di diamante rinnovatrice e innovatrice di quel dibattito lo testimonia un articolo di Luigi Einaudi pubblicato su Il Corriere della Sera del 14 ottobre 1922 (a pochi giorni dalla marcia su Roma) intitolato “Piemonte liberale” in cui egli sosteneva: “ L’intellettualismo militante sembra essersi rifugiato a Torino nell’Ordine nuovo, senza dubbio il più dotto quotidiano dei partiti rossi, ed in qualche semiclandestino organo giovanile, come il settimanale Rivoluzione liberale, sulle cui colonne i pochi giovani innamorati del liberalismo fanno le loro prime armi e, per disperazione dell’ambiente sordo in cui vivono, sono ridotti a fare all’amore con i comunisti dell’Ordine nuovo”[7]. Ed è interessante riportare anche il giudizio che Einaudi dava in questo articolo del degrado a cui era giunta la politica con l’avvento del populismo di allora che segnò poi tragicamente la storia non solo del nostro paese, ma quella di tutta Europa, giudizio che purtroppo si attaglia profeticamente anche allo stato della politica oggi: “È oramai un vizio generale di tutti gli uomini politici di tutte le regioni italiane l’aborrimento delle teorie; e si sa che, in parlamento, l’accusa più grave che si possa fare ad un uomo politico è di essere un «teorico». I «professori» che vanno alla camera cercano di fare dimenticare questa loro qualità, astenendosi da qualunque sfoggio di dottrina e fingendosi, quanto più loro riesce, ignoranti e «pratici»”[8].
È dalla cultura espressa da gente come Gobetti e Gramsci che è nata poi l’esperienza della Resistenza, quella capacità di costituire un fronte unitario nella diversità che portò poi alla Repubblica e alla Costituzione democratica. E se poi, in seguito alla guerra fredda, ci fu spesso e volentieri una contrapposizione di campo ai limiti dell’isteria, la rivoluzione pacifica della democrazia riuscì a superare anche i momenti difficili dei tentativi di golpe degli anni Settanta e la stagione buia degli anni di piombo. E in quei frangenti si distinsero per capacità politica e lungimiranza altri due personaggi che, secondo noi, hanno incarnato l’espressione migliore della prima repubblica: Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Furono loro che pensarono insieme quella strategia politica del “compromesso storico” che doveva dare una stabilità al governo del paese sulla base di convergenze sui problemi più impellenti degli italiani. Non più, dunque, una stagione di sostegno esterno al governo da parte del P.C.I. senza un’assunzione diretta di responsabilità, ma una vera e propria alleanza programmatica di governo tra le due formazioni politiche con la maggior base di consenso popolare nel paese. Fu difficile per entrambi farla accettare nei loro rispettivi partiti, ma ci riuscirono con il proprio prestigio personale e la capacità politica di sostanziare con ragioni inoppugnabili la necessità di quella scelta. E qui viene fuori la qualità dei personaggi, il loro spessore politico e culturale che emerge dai documenti in cui prospettarono l’alleanza ai rispettivi schieramenti.
Berlinguer lo fece sulla rivista politico-culturale del P.C.I., “Rinascita”, nel n.° 40 del 12 ottobre 1973 con un articolo intitolato Alleanze sociali e schieramenti politici – Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. Si trattava del terzo articolo di commento al golpe di Pinochet in Cile, in cui, come negli altri, dopo aver riflettuto sui fatti cileni aveva sviluppato un’analisi comparativa con la situazione italiana. E in quest’ultimo sviluppava l’idea della necessità di un “compromesso storico” tra le due maggiori forze popolari della politica italiana. E così lo delineava: “Ovviamente, l’unità, la forza politica ed elettorale delle sinistre e la sempre più solida intesa tra le loro diverse e autonome espressioni, sono la condizione indispensabile per mantenere nel paese una crescente pressione per il cambiamento e per determinarlo. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia), questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento…
Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico…
Certo, noi per primi comprendiamo che il cammino verso questa prospettiva non è facile né può essere frettoloso. Sappiamo anche bene quali e quante battaglie serrate e incalzanti sarà necessario condurre sui più vari piani, e non solo da parte del nostro partito, con determinazione e con pazienza, per affermare questa prospettiva. Ma non bisogna neppure credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”.
Moro lo fece con un discorso ai gruppi parlamentari democristiani della Camera e del Senato, nell’auletta di Montecitorio, il 28 febbraio del 1978. Esattamente due settimane prima dell’agguato di via Fani. Eccone alcuni passi significativi che prendono spunto dal fatto che, prima delle elezioni politiche del 20 giugno 1976, il Partito Socialista aveva dichiarato chiusa l’esperienza del centro – sinistra e che in quelle elezioni il Partito Comunista era avanzato di 7 punti in percentuale raggiungendo il 34% dei consensi con la DC al 38%. “Le elezioni politiche hanno avuto due vincitori. Siamo davanti ad una situazione difficile, una situazione nuova, inconsueta, di fronte alla quale gli strumenti adoperati in passato per risolvere le crisi non servono più; è necessario adoperare qualche altro strumento, guardare le cose con grande impegno, con grande coraggio, con grande senso di responsabilità, ma anche con grande fiducia nella Democrazia Cristiana… si può ritenere che il risultato elettorale del 20 giugno, pur creatore delle novità e delle difficoltà di fronte alle quali ci troviamo, sia stato una risposta sostanzialmente positiva del Paese, il quale, a dispetto di tante polemiche interessate alla distruzione della Democrazia Cristiana, ha tuttavia risposto confermandoci nel ruolo di primo partito italiano…Perciò abbiamo avuto una vittoria, ma non siamo stati soli. Anche altri hanno avuto una vittoria; siamo in due vincitori, e due vincitori in una sola battaglia creano certamente dei problemi… Non abbiamo perduto in senso proprio l’egemonia, ma certamente la nostra egemonia è attenuata… Comunque, non abbiamo di fronte uno schieramento di partiti ostili: il fatto nuovo è che fra questi partiti non ostili c’è anche il Partito Comunista… Abbiamo cercato di stabilire un certo contatto reciprocamente costruttivo, sulla base non di un urto polemico quotidiano, come era nella tradizione, a suo tempo naturalmente comprensibile, ma sulla base di un certo spirito costruttivo, per ricercare se tra queste due forze antitetiche, alternative, della tradizione italiana, vi potesse essere qualche punto di convergenza… Intesa quindi sul programma, che risponda alla emergenza reale che è nella nostra società; e questo, mi consentirete, pur nella mia sincera problematicità, di dirlo: io credo alla emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico sociale. Noi possiamo anche dire che qualche altro ha interpretato troppo rapidamente una radunata di metalmeccanici, ma credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale, di fronte a una situazione che ha bisogno di essere corretta, ha bisogno di un certo tempo per diventare costruttiva… vogliamo promuovere una iniziativa coraggiosa, una iniziativa che sia misurata, che sia nella linea che abbiamo indicato e sia pure nelle condizioni nuove nelle quali noi ci troviamo?… C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute… Ma immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo? Ecco su che cosa consiglio di riflettere per trovare un modo accettabile per uscire da questa crisi… Ma io ho fiducia, con il vostro consenso, con la guida saggia della Direzione che riflette poi le vostre stesse opinioni e vi ha anche ascoltato, di potere immaginare un accordo opportuno, misurato, legato al momento particolare nel quale viviamo…”.
Questo era il tenore della cultura e della coscienza politica che avevano leader come Gobetti e Gramsci prima e Berlinguer e Moro poi, tutti quanti consapevoli che la politica non era un gioco delle parti o una personalizzazione del ruolo, ma un tentativo costante di fare la scelta migliore per il benessere degli italiani, che non poteva essere fatta in contrapposizione ideologica assoluta, ma trovando punti d’incontro per un esercizio concreto della democrazia che non deve essere mai a beneficio soltanto di qualcuno o anche della maggioranza, ma sempre di tutti e in particolare dei più deboli. Questo c’era nelle loro diverse radici politiche e ideologiche e questo è ciò che essi hanno cercato di fare. Ma qualcuno gliel’ha impedito, qualcuno che prospera nelle disgrazie dei popoli e trama di continuo contro la democrazia.
È di talenti come questi di cui il nostro paese e il mondo intero hanno bisogno, non di fenomeni da baracconi.
1 Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001.
2 Tratto da La Rivoluzione Liberale, A. 3, n. 17 (22-4-1924), p. 66
3 Giuseppe Prezzolini, Diario 1900 – 1941, pp. 336
4 Giuseppe Prezzolini, Diario 1900 – 1941, pp. 336 s.
5 Antonio Gramsci, Scritti 1915 – 1921, Nuovi contributi, a cura di S. Caprioglio, I quaderni del “corpo”, 1968, pag. 160
6 Norberto Bobbio, Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920-1950), Einaudi, Torino 2002
7 Luigi Einaudi, Piemonte liberale, “Corriere della Sera”, 14 ottobre 1922, in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 889-896
8 Ibidem