È ormai più di un secolo che gli Stati Uniti d’America condizionano la vita e le speranze dei popoli di tutto il mondo. L’hanno fatto alla fine dell’Ottocento diventando la terra promessa di milioni di europei costretti a emigrare oltreoceano per sfuggire la miseria e la fame e hanno continuato a farlo per tutto il Novecento intervenendo nelle due guerre mondiali scatenate in Europa dalle maggiori potenze continentali che, all’interno di opposte coalizioni, cercavano di imporsi reciprocamente l’egemonia politica ed economica. E se nel primo conflitto gli USA si sono limitati a fornire un piccolo aiuto alle truppe sfinite dell’Intesa, nel secondo hanno svolto il ruolo del protagonista principale sia diventando dapprima l’arsenale delle democrazie Alleate (come disse Roosevelt[1]) sia sostenendo poi il maggior impegno diretto sul campo contro la Germania nazista e l’Italia fascista nonostante fossero anche impegnati sul fronte giapponese.
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È pertanto giusto dire che senza l’intervento degli Stati Uniti d’America la seconda guerra mondiale avrebbe avuto un altro esito e probabilmente la Germania nazista avrebbe imposto il suo “ordine” sull’Europa. Ma è anche vero che, alla fine della guerra, gli Stati Uniti fecero valere questo loro merito assurgendo al ruolo di ago della bilancia della politica internazionale. Del resto l’Europa democratica si era salvata grazie al loro intervento e stava rinascendo dalle macerie della guerra con i loro dollari (piano Marshall[2]), ma da quel momento in poi diventò dipendente dalla politica statunitense e dai suoi interessi economici e militari. Furono dislocate basi militari americane nei paesi sconfitti che, in questo modo, ne riconoscevano l’egemonia, basi che da temporanee divennero permanenti anche per l’antagonismo che si determinò a fine guerra tra gli Usa e l’Unione sovietica. Paesi i cui sistemi politici avevano due concezioni contrapposte del mondo che, passata la contingenza di sconfiggere il nazismo, si fronteggiavano minacciose marcando nettamente i confini delle loro zone d’influenza. Nacque allora la “cortina di ferro”, come la definì Churchill[3], il confine invalicabile tra i paesi dell’Europa Occidentale e quelli dell’Europa Orientale che si riconoscevano in due diversi sistemi di governo, democratico i primi, popolare a gestione comunista i secondi. Iniziò allora la cosiddetta “guerra fredda”, fatta di spionaggio e di controspionaggio, con una continua corsa agli armamenti fino alla dislocazione di missili a testata nucleare puntati vicendevolmente gli uni contro gli altri. Spirale che venne interrotta dal trattato firmato a Washington da Ronald Reagan[4] e Michail Gorbačëv[5] l’8 dicembre 1987.
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Ma se questa è la storia della nascita dell’egemonia politica americana sull’Europa Occidentale, contemporaneamente ad essa, a partire già dagli anni Venti del Novecento, gli Stati Uniti hanno cominciato ad esercitarne anche una culturale e di costume sul vecchio continente, che si accompagnava all’idea politica della democrazia e della libertà. La letteratura e la saggistica statunitense diventarono un modello per gli scrittori e gli intellettuali europei, in particolare per coloro che vivevano in paesi in cui vigeva la censura di regimi dittatoriali e autocratici (in Ungheria, in Italia, in Polonia, in Jugoslavia, in Portogallo, in Germania, in Austria, in Bulgaria, in Grecia, in Romania e in Spagna) che impedivano la libera espressione del pensiero. E così fu per il jazz, la musica nuova americana che travolse l’Europa negli anni Trenta. Musica di libertà dagli schemi, d’improvvisazione, di rivoluzione esecutiva e armonica, sfrenata e ribelle, nera, l’esatto contrario di ciò che volevano i regimi totalitari, controllo, regole, ordine, supremazia razziale, ma che piaceva enormemente ai giovani, magari anche a quelli schierati con loro. E nei confronti di questa musica nuova l’atteggiamento di ostilità da parte delle dittature peggiorò man mano che ci si avvicinava al nuovo conflitto mondiale e, per quel che riguarda l’Italia, ci fu una recrudescenza dopo la conquista dell’Etiopia, per intolleranza razzista nei confronti di una musica che era nata dai neri d’America, e, soprattutto, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali antisemite del 1938. Del resto neri ed ebrei erano tra i principali interpreti del jazz suonato in America e in Europa.
Negli anni Trenta anche il cinema americano “invade” l’Europa e in Italia ha addirittura una quota di mercato pari all’80% perché il pubblico italiano ama il cinema e s’identifica nelle vicende e nei personaggi che quello americano propone. Per queste ragioni, oltre alla suggestione futurista che in qualche modo sopravvive ancora all’interno del fascismo, nell’aprile del 1937 viene inaugurata Cinecittà sul modello degli studios americani.
C’è poi la cesura della guerra, con gli americani che diventano gli odiati nemici (Mussolini e Hitler dichiarano guerra agli Stati Uniti l’11 dicembre del 1941), la principale delle “potenze plutocratiche” antagoniste del desiderio imperiale fascista, e da quel momento in poi ogni cosa che rappresenti la cultura yankee subisce una totale demonizzazione. Ma sono molti gli italiani che si sentono orfani di quei libri, di quella musica e di quei film che impregnano il loro immaginario e sono molti anche gli italoamericani che militano poi durante il conflitto nell’esercito degli Stati Uniti (documenti ufficiali stimano addirittura 850.000) – in particolare nella campagna d’Italia coloro che ancora conoscono la lingua – in quello del Regno unito (7.000), del Canada (3.000), dell’Australia (1.400) e del Brasile (1.200). Una sorta di nemesi storica etnica per esorcizzare l’onta del fascismo.
Il secondo dopoguerra segna l’affermarsi assoluto dell’americanizzazione dell’Italia, sia per la dipendenza economica e militare dagli USA che caratterizza la rinascita del nostro paese sia per la diffusione di un nuovo sistema di comunicazione come la Televisione. Negli anni Cinquanta l’Italia è stata il paese europeo più ricettivo della cultura dell’immagine televisiva che veniva da oltreoceano, con tutta la sua proposta “modernista” di svecchiamento della società tradizionale e di promozione pubblicitaria del consumo che da noi si condensò nel celebre “Carosello”.
Nel frattempo, nel 1949, nasce la Nato, un’alleanza militare a carattere difensivo tra dieci paesi europei (Belgio, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito) e due nordamericani (Canada e USA) a cui si contrappone il cosiddetto Patto di Varsavia siglato nel 1955 tra l’URSS e i paesi satelliti (Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania). È il frutto della guerra fredda che fino allo scioglimento dell’URSS vede l’Europa divisa in due zone antitetiche che si fronteggiano ostili. Da noi significa servitù militari, con basi dell’esercito, della marina e dell’aeronautica militare americane e della NATO disseminate lungo la penisola. Basi che continuano ad esserci anche dopo la fine dell’Unione Sovietica e, conseguentemente, del Patto di Varsavia. Basi che consentono il controllo del Mediterraneo.
Ma ciò che modifica sostanzialmente la società italiana in senso americano è, a partire dagli anni Sessanta, il boom economico industriale. Con esso un paese che fino ad allora era stato fondamentalmente agricolo diventa nel corso di un ventennio una delle potenze industriali mondiali cambiando radicalmente la sua economia e il tenore di vita dei suoi abitanti. Nelle famiglie arrivano l’automobile e gli elettrodomestici, tutte quelle comodità che fino ad allora avevano fatto conoscere soltanto i film americani. Ma quel più o meno diffuso benessere si spinge oltre fino a diventare consumo, sempre più forsennato e indiscriminato, una malattia che divora menti e denari e riguarda tutti i settori dell’economia, sia materiali che immateriali. Prende sempre più piede la società dello spettacolo, dapprima con il proliferare delle televisioni di intrattenimento popolare, costruttrici di illusioni e di condivisioni, e poi con la rete web dell’informatica che consente a ciascuno di essere protagonista di filmati o di diventare sodale di siti e dei cosiddetti influencer, sorta di apprendisti stregoni della contemporaneità. In pratica si ripete da noi quello che è già successo negli USA e che ha in quel paese i grandi manovratori di queste reti. Personaggi che decidono candidature ed elezioni con la forza dei loro strumenti informatici e dei loro immensi capitali, dando però al popolo bue l’illusione di essere il protagonista di questi cambiamenti. Ma la velocità dei nuovi mezzi d’informazione stimola anche la velocità delle decisioni e dall’alto e dal basso si comincia a imputare alla democrazia una cronica lentezza nelle scelte per cui deve essere riformata diventando poco democrazia e tanto autoritarismo dei pochi, seppur mascherato da un’ultima parvenza nominale democratica. Democrazie illiberali le definiscono gli ultimi difensori della democrazia storica, ma nei fatti pian piano si sta erodendo inesorabilmente la terra sotto i loro piedi. Oggi non conta più il bilanciamento dei poteri di cui fu profeta Montesquieu[6], oggi conta decidere in fretta in barba a qualsiasi regola democratica. Anzi, si ribalta il senso di queste opposizioni legali, dichiarando sovversivo chi si richiama allo spirito delle leggi.
È quello che è già successo negli USA a partire dal primo mandato trumpiano, culminato con lo sconcertante assalto a Capitol Hill che ha dimostrato quanto sia ormai fragile la democrazia americana, la madre di tutte le democrazie occidentali. Crisi confermata dall’esito di queste ultime elezioni che hanno riportato al potere l’uomo che vuole trasformare la democrazia in autocrazia.
Ma perché questo è potuto avvenire? Perché chi si presentava come difensore dei valori democratici tradizionali non è stato in grado di parlare al ventre del paese, quelle schiere di diseredati sempre più in difficoltà nella crisi del capitalismo produttivo e consumista, in balia della speculazione finanziaria che non investe in lavoro, ma in prodotti che garantiscano guadagno in base alle fluttuazioni dei prezzi nel breve o nel brevissimo tempo. E ha proposto invece una campagna elettorale all’insegna dei diritti civili così come fanno ormai la maggior parte delle forze politiche progressiste occidentali, incapaci di cogliere e di tradurre in proposte concrete la richiesta dei settori più svantaggiati della società. Settori che, di fronte a questa assenza, si affidano rabbiosamente ai candidati che urlano più forte e propongono l’impossibile, trovando in essi una valvola di scarico almeno momentanea. Se poi non otterranno risultati, si affideranno a qualche altro imbonitore che sappia comunque fare da cassa di risonanza della loro rabbia piuttosto che fidarsi di chi li dimentica pur dicendo di rappresentarli.
Del resto ciò è già avvenuto nel nostro paese e in altri paesi europei e la strategia di queste forze populiste è ovunque quella di catalizzare la rabbia delle masse e di renderle illusoriamente protagoniste attraverso gli ammiccamenti dei social, tramite i quali chiunque crede di poter interloquire con i politici che contano e di approvarne o disapprovarne direttamente l’operato. Una nuova aberrante frontiera dell’idea di democrazia.
Siamo dunque nel pieno di una crisi della democrazia a livello planetario e c’è il rischio, come successe nel primo dopoguerra, che buona parte dei paesi ancora virtualmente democratici diventino dittature vere e proprie o camuffate da democrazia e sappiamo cosa successe poi allora. Ma allora c’erano gli Stati Uniti a darci la speranza, con la loro storia e la loro forza democratica. Oggi non è più così, l’ha detto il neopresidente che considera le democrazie europee un ostacolo maggiore della Russia e della Cina. E noi, se ripensiamo ai padri fondatori, George Washington[7], James Madison[8], Thomas Jefferson[9] e Benjamin Franklin[10], e a quel personaggio straordinario che fu Thomas Paine[11] – che partecipò anche alla Rivoluzione francese e scrisse un libro d’avanguardia politica e sociale come Human rights – crediamo che si stiano rivoltando nella tomba nel vedere a che cosa si è ridotta oggi la loro America.
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[1]Franklin Delano Roosevelt (Hyde Park, 30 gennaio 1882 – Warm Springs, 12 aprile 1945) è stato un politico statunitense, 32º presidente degli Stati Uniti d’America dal 1933 al 1945.
[2] Il Piano Marshall fu uno dei piani politico-economici statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Prese il nome dal segretario di stato statunitense George Marshall che il 5 giugno 1947 lo annunciò e lo illustrò all’Università di Harvard.
[3]Sir Winston Leonard Spencer Churchill (Woodstock, 30 novembre 1874 – Londra, 24 gennaio 1945), politico, storico, giornalista, scrittore e militare britannico, È stato Primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e nuovamente dal 1951 al 1955.
[4]Ronald Wilson Reagan (Tampico, 6 febbraio 1911 – Los Angeles, 5 giugno 2004) è stato un politico e attore statunitense, 40ºpresidente degli Stati Uniti d’America dal 1981 al 1989.
[5] Michail Sergeevič Gorbačëv, ( Privol’noe, 2 marzo 1931 –Mosca, 30 agosto 2022), è stato un politico sovietico. Penultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, fu propugnatore dei processi di riforma legati alla perestroika e alla glasnost’. Artefice, con la sua politica, della fine della guerra fredda, fu l’ultimo capo dell’Unione Sovietica.
[6] Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (La Brède, 18 gennaio 1689 –Parigi, 10 febbraio 1755) è stato un filosofo, giurista, storico e pensatore politico francese. È considerato il fondatore della teoria politica della separazione dei poteri.
[7] George Washington (Bridges Creek, 22 febbraio 1732 –Mount Vernon, 14 dicembre 1799) è stato un politico e generale statunitense. Fu il primo presidente degli Stati Uniti d’America (1789-1797).
[8] James Madison (Port Conway, 16 marzo 1751 – Port Conway 28 giugno 1836), politico statunitense. È stato il 4º presidente degli Stati Uniti d’America dal 1809 al 1817.
[9] Thomas Jefferson (Shadwell, 13 aprile 1743 – Charlottesville, 4 luglio 1826), politico, scienziato e architetto statunitense. È stato il terzo presidente degli Stati Uniti d’America dal 1801 al 1809.
[10] Benjamin Franklin (Boston, 17 gennaio 1706 –Filadelfia, 17 aprile 1790), scienziato e politico statunitense. È stato un personaggio chiave della rivoluzione americana. Incarnazione dello spirito illuminista e del self made man in quanto intellettuale autodidatta, si guadagnò il titolo di “Primo Americano” per la sua infaticabile campagna per l’unità delle tredici colonie originarie.
[11] Thomas Paine (Thetford, 29 gennaio 1737 – New York, 8 giugno 1809) è stato un rivoluzionario, politico, intellettuale e filosofo illuminista britannico. Partecipò alla guerra d’indipendenza americana e alla rivoluzione francese e finì incarcerato durante il regime del Terrore. Tra le sue opere più famose, I diritti dell’uomo (contro Edmund Burke e le sue Riflessioni sulla rivoluzione in Francia).
Non sono certo un fan di Trump ma ho un po’ di difficoltà a capire come un uomo che si é circondato di personalità forti e capaci come quella di Elon Musk, Vivek Ramaswamy, JD Vance, Tulsi Gabbard, RFJ Jr ecc sia un naricista che vuole ‘trasformare la democrazia in autocrazia.’ Il fatto che tali e simili affermazioni (come il paragone di trimp con hitler) siano state ripetute molte volte non le rende piu’ vere. E’ possibile pero’ che esse abbiano contribuito a motivare gli autori degli attentati alla sua vita.
Ripeto, non sono certo un suo fan. Ma credere che ci siano meno autoritarismo e tirannia nell’ideologia woke dei Democratici ‘is at best naive’.