Quello che da quasi ottant’anni porta avanti in Palestina uno scontro tra differenti nazionalismi e civiltà, in una terra martoriata, dove muri, recinzioni, attentati, rappresaglie e campi profughi sono all’ordine del giorno, dove si cresce e si vive con la paura dell’altro, che pure è uomo, donna, bambino o bambina come te, con gli stessi problemi e con gli stessi diritti, violati per l’ennesima volta in questi giorni e destinati a un tragico epilogo.
Quello che dal 2011 combatte nella vicina Siria a sostegno del regime siriano o dei gruppi di opposizione o delle forze curde o dell’ISIS, con centinaia di migliaia di morti e sei milioni di sfollati nei paesi vicini in campi profughi o ricoveri di fortuna, città distrutte, campagne devastate, diritti civili stracciati, interventi di potenze straniere da una parte e dall’altra che anziché favorire una soluzione del conflitto rischiano di renderlo ancora più endemico.
Quello che ormai da vent’anni si contende tra Russia e Ucraina il territorio come una proprietà, indifferente al sentimento della gente che ci vive che vuole soltanto farlo in pace, magari frugalmente, ma in pace, senza porsi il problema in quale Stato sarà, ma soltanto di vivere come ha sempre vissuto, con il ricordo lontano di una guerra sanguinosa che, una volta finita, tutti dicevano che sarebbe stata l’ultima.
Quello che dal 2015 combatte in Yemen per il Nord o per il Sud del paese, sostenuto in un caso e nell’altro da due delle maggiori potenze del Medio Oriente, in una guerra fratricida che ha provocato decine di migliaia di morti, uomini, donne e bambini, diecimila soltanto di loro, e milioni di sfollati con un’emergenza umanitaria definita dall’Onu tra le più gravi al mondo (oltre 24 milioni di persone bisognose di assistenza e protezione).
Quello che in Etiopia ha lottato per la liberazione del Tigrai o quello che ha combattuto contro di lui per il governo di Addis Abeba, in una guerra civile che ha provocato 500.000 morti e 2 milioni di sfollati interni, conclusa con un accordo di pace che lascia aperte un sacco di questioni, in particolare due visioni contrapposte della forma di governo del paese, se l’Etiopia debba restare uno Stato federale o diventare uno Stato unitario centralizzato, che provocheranno inevitabilmente altri attriti e scontri.
Quello che in Myanmar sta con i militari dell’esercito birmano, in guerra permanente con le forze armate locali delle aree di frontiera, o quello che appoggia invece Aung San Suu Kyi, leader democratica deposta dai militari, e il suo governo ombra, ma non vuole riconoscere un’identità ai Rohingya, minoranza musulmana perseguitata da tutti.
Quello che nel Nagorno-Karabakh, in Iran, in Congo, nel Sahel, ad Haiti, in Pakistan, in Sudan, in Colombia, in Mozambico, in Mali, in Somalia, in Nigeria, in Libano, in Messico, in Afghanistan, nel Kashmir o in qualsiasi altro paese del mondo alza la mano sul suo fratello in nome di ragioni religiose o politiche, economiche o sociali, ideologiche o razziali. E se è questo l’uomo contemporaneo noi gli diciamo “Basta!” e lo ripetiamo ancora più forte ai capi di quegli Stati che “contano” nel mondo e decidono con il potere della loro forza militare il destino anche degli altri popoli e magari potrebbero fermare tutte queste guerre, ma non lo fanno, perché la guerra produce affari su affari e soprattutto quello degli armamenti che è il più remunerativo di tutti. E diciamo alle organizzazioni internazionali sorte per tutelare la pace e bandire la guerra che dovrebbero fare quello per cui sono nate, e lo diciamo soprattutto a quella delle Nazioni Unite, che se continua a non far rispettare le sue risoluzioni c’è il rischio che faccia la fine di quella che c’era prima dell’ultima guerra mondiale che infatti non la seppe scongiurare. E facciamo appello a tutte le persone di buon senso, a coloro che credono nella pace nonostante tutto e sono capaci anche di perdonare pur di realizzarla e non si lasciano sopraffare dall’istinto omicida dell’occhio per occhio dente per dente in nome di presunte fedi e nazionalismi. E a coloro che sanno che la convivenza umana è sempre il frutto di una mediazione che va esercitata giorno dopo giorno, affinché diventi una normale pratica di vita.
Se non prevarrà la consapevolezza che oggi ci si salva se ci si salva tutti insieme, prima o poi qualcuno premerà quel fatidico bottone che segnerà l’Apocalisse del genere umano senza il bisogno di quel diluvio di fuoco che, secondo alcune religioni, porrà fine un giorno a questo nostro mondo.