Lo spunto di questa riflessione mi è venuto dal messaggio di un’amica che mi ha informato su un’iniziativa organizzata dal Liceo Classico “Leopardi” di Aulla durante la quale, con la metodologia del “debate”, gli alunni avrebbero discusso in assemblea sul seguente postulato: “Noi riteniamo che non sia più opportuno che il 25 aprile venga celebrato come una festività nazionale”.
Perché, dopo 78 anni, si festeggia, ancora il 25 aprile come una festività nazionale? Perché quella data segna una netta cesura tra un prima e un dopo in quanto solo a partire da quel giorno è nata l’Italia dei diritti umani e della libertà. Ed è nata dalle rovine di una dittatura oppressiva e sanguinaria – come si possono dimenticare le tante vittime del fascismo da don Minzoni a Matteotti ai fratelli Rosselli, alle centinaia di antifascisti di popolo fino alla complicità repubblichina nelle stragi naziste – che per vent’anni aveva impedito con la violenza la manifestazione di qualsiasi forma di dissenso nel nostro paese facendolo poi sprofondare nella catastrofe della guerra. Non si festeggia dunque oggi soltanto un evento storico con la consueta dicitura di festività nazionale, ma quella che è la vera festa nazionale dell’Italia contemporanea, perché da essa è nata la Repubblica democratica che tutela la libertà di tutti gli italiani, anche di coloro che hanno nostalgia di quella tremenda dittatura.
E questo bene di cui oggi godiamo tutti quanti – lo ripeto, anche quei nostalgici che continuano a dire che Mussolini aveva fatto anche delle cose buone – l’hanno conquistato per noi coloro che ebbero allora il coraggio di ribellarsi all’occupazione nazifascista, quei partigiani che, a partire dall’8 settembre 1943, presero la via dei monti o operarono in clandestinità nelle città facendo una scelta netta e inequivocabile: combattere fino alla Liberazione, fino a quel fatidico 25 aprile 1945 che segnò la fine della dittatura e l’inizio della rinascita del nostro paese. Qualcuno, per sminuire il ruolo della Resistenza partigiana, insiste a dire che la liberazione ce la diedero le truppe alleate che risalirono la penisola, dimenticando il giudizio strategico che gli alleati stessi diedero della lotta partigiana, cioè che si trattava di un’azione di guerriglia fondamentale per preparare la loro avanzata, come testimoniano le varie missioni sia di uomini sia di armamenti che inviarono a ripetizione nelle zone in cui operava la Resistenza. Ma al di là del ruolo dunque fondamentale che essa svolse anche militarmente, ciò che essa fece fu salvare l’onore del nostro popolo, dimostrando che erano molti gli italiani che amavano la libertà e che non facevano parte del gregge acquiescente dei sudditi del regime. Perché è questo che fece la Resistenza, trasformò i sudditi di una monarchia complice del fascismo e della dittatura in cittadini che rivendicavano tutti i diritti che furono poi sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
Ma chi erano i partigiani che fecero la Resistenza? Protagoniste della guerra partigiana furono tutte le forze antifasciste: comunisti, socialisti, liberali, monarchici, cattolici, repubblicani e anarchici.
I comunisti si organizzarono nelle Brigate Garibaldi, i socialisti nelle Brigate Matteotti, i repubblicani o azionisti nelle formazioni Giustizia e Libertà, i cattolici nelle Fiamme Verdi, i monarchici nei cosiddetti Autonomi e gli anarchici in proprie formazioni, come le Brigate Bruzzi Malatesta in Lombardia, o confluendo nelle Brigate Garibaldi o nelle formazioni Giustizia e Libertà. Le Brigate Osoppo, operanti soprattutto in Friuli e in Veneto, raggruppavano elementi volontari di ispirazione laica, liberale, socialista e cattolica. E tutte queste formazioni avevano dei codici comportamentali che s’ispiravano ai principi della democrazia e della responsabilità. Ci furono errori, contraddizioni, come è ovvio che avvenga in ogni raggruppamento di uomini, ma l’obiettivo e i modi per perseguirlo furono sempre all’insegna dell’umanità nuova che doveva scaturire da quella lotta. Ne fu un esempio il cosiddetto Codice di Cichero, stilato dal comandante Bisagno (Aldo Gastaldi) e dal commissario Bini (Giovanni Serbandini) della III Divisione Garibaldi Cichero operante nella cosiddetta VI Zona. Esso stabiliva:
- in attività e nelle operazioni si eseguono gli ordini dei comandanti, ci sarà poi sempre un’assemblea per discuterne la condotta;
- il capo viene eletto dai compagni, è il primo nelle azioni più pericolose, l’ultimo nel ricevere il cibo e il vestiario, gli spetta il turno di guardia più faticoso;
- alla popolazione contadina si chiede, non si prende, e possibilmente si paga o si ricambia quel che si riceve;
- non s’importunano le donne;
- non si bestemmia.
Poche e semplici regole, ma inequivocabili e che hanno già in nuce il “miracolo” costituente: la democrazia si fonda accettando le rispettive diversità nel quadro della condivisione primaria di un obiettivo comune che consiste sia nella libertà personale che nella solidarietà sociale. Tutte istanze che verranno esplicitate poi nel testo costituzionale rendendolo uno dei più particolareggiati e garantisti nei confronti dei cittadini di uno Stato. Un testo che ogni tanto qualcuno vorrebbe rimaneggiare, ma che dimostra la sua assoluta attualità e che, se mai, dovrebbe essere applicato in tutti i suoi contenuti pratici e ideali prima di essere messo in discussione.
Ma per rendere l’idea del cambiamento che ci fu allora e ricordarci nella sostanza che cosa è stata la dittatura fascista, proviamo a mettere a confronto qual era la sua concezione dei diritti umani e della forma di governo dei popoli e qual è invece quella che ha statuito nel 1948 la Costituzione democratica nata dalla Resistenza. Facciamolo utilizzando le parole che il duce scrisse per l’Enciclopedia Italiana alla voce “fascismo”.
Laddove il duce sostiene la necessità di una “disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini” e della “limitazione delle libertà inutili e nocive”, la Costituzione, nata dalla Resistenza, dice (art. 3. 3) che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. E ancora. Mussolini afferma che “il fascismo è contro la democrazia” e nega che “il numero, cioè la maggioranza dei cittadini, possa dirigere le società umane” e che “possa governare attraverso una consultazione periodica” ribadendo “la disuguaglianza degli uomini che non possono sottostare al livellamento del suffragio universale”, cioè del voto riconosciuto a tutti i cittadini. La nostra Costituzione dice invece (art 1. 2) che “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” e che (art. 3. 1) “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali”. E ancora. Mussolini afferma che “il fascismo non crede alla possibilità né all’utilità di una pace perpetua… Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla”. Inciso: il 10 giugno 1940 l’Italia dichiara guerra alla Francia e colpisce in modo proditorio un “nemico” che è già in ginocchio. “Mi basta un pugno di morti (italiani!) per sedermi al tavolo della pace” disse Mussolini e alla fine della guerra i morti furono 319.207 militari e 153.147 civili per un totale di 472.354. Alla follia della guerra la nostra Costituzione risponde dicendo che (art. 11) “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Il fascismo è dunque, per propria costituzione ideologica, antidemocratico e quindi non può far parte di una dialettica democratica come è quella della nostra Repubblica e giustamente i padri e le madri Costituenti scrissero nell’articolo 12 delle Disposizioni transitorie e finali le seguenti parole: “E` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Del resto il regime fascista aveva annientato, a partire dalla marcia su Roma dell’ottobre del 1922, ogni forma di libertà e di democrazia con le cosiddette leggi “fascistissime” che è sempre bene ricordare raffrontandole al presente:
- vennero chiuse le sedi di tutti i partiti, tranne di quello fascista;
- il potere di fare le leggi fu sottratto al parlamento e affidato al governo;
- fu proibito lo sciopero, mentre ai lavoratori e ai datori di lavoro venne imposto di iscriversi ai sindacati fascisti;
- furono limitate la libertà di stampa e quella di associazione;
- vennero creati il Ministero della Cultura Popolare, il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato e la polizia politica, denominata Opera di Vigilanza e di Repressione dell’Antifascismo, in sigla OVRA, che aveva il compito di sorvegliare, identificare e denunciare chi si opponeva al governo fascista;
- a partire dal 1928 il Gran Consiglio del fascismo divenne la suprema autorità costituzionale del Regno d’Italia;
- nello stesso anno una modifica della legge elettorale per la Camera dei deputati introdusse una lista unica nazionale di 409 candidati scelti dal Gran Consiglio del fascismo da sottoporre agli elettori per l’approvazione in blocco;
- da allora in avanti le elezioni assunsero di fatto un carattere plebiscitario. Infine una legge del 1939 modificò lo Statuto Albertino sopprimendo la Camera dei deputati e istituendo al suo posto la Camera dei fasci e delle corporazioni, nominata in blocco dal Gran consiglio del fascismo e dalle corporazioni fasciste.
Questo fu il percorso dello stato totalitario e sarebbe bene che chi si abbandona al nostalgismo conoscesse magari un po’ più a fondo queste cose, forse lo farebbero riflettere, a meno che non condivida nell’animo l’ideologia della sopraffazione e della violenza per cui vorrebbe che si ripetessero di nuovo nel nostro paese per sfogare questa sua malvagità.
Ma come è possibile oggi contrastare queste istanze di morte e riaffermare sul campo i valori che la Costituzione nata dalla Resistenza ci ha indicato? Basta enunciarli formalmente o bisogna che si realizzino concretamente nella realtà di tutti i giorni? Si sa che non c’è cosa peggiore delle parole al vento, del parlare di diritti se poi questi diritti non sono effettivi, goduti nella loro sostanza. Si pensi a uno dei diritti sociali fondamentali sanciti dalla Costituzione, quello al lavoro.
Nell’articolo 4 dei Principi, infatti, il testo costituzionale afferma che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, indicando il diritto al lavoro come un automatismo che lo Stato dovrebbe garantire a ogni cittadino in quanto tale. Lo Stato, pertanto, non può affidarsi in modo assoluto al mercato per soddisfare questo diritto, ma deve provvedere, qualora non basti il mercato, a dare autonomamente un lavoro al cittadino o in alternativa un’indennità che gli consenta di vivere dignitosamente fino a quando non troverà lavoro.
Oltretutto nello stesso articolo si dice anche che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere… un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ogni cittadino, dunque, si vede riconosciuto un diritto che deve svolgere poi come dovere. Ma se il diritto non è concretamente garantito, se il cittadino è disoccupato cronico o perde il posto di lavoro nelle congiunture cicliche del mercato, come si può pensare che possa concorrere realisticamente al progresso materiale e spirituale della società? Sarà un cittadino abbattuto, sfiduciato, umiliato e anche incazzato con le istituzioni e con lo Stato che non sono stati in grado di dargli quanto gli avevano promesso.
Purtroppo è quello che sta succedendo nel nostro paese. Ci sono più di settanta tavoli di crisi aperti al Mise con serie difficoltà di soluzione. Si tratta di grandi aziende le cui proprietà – in genere fondi di investimento – tendono a delocalizzare in altri paesi le produzioni per abbattere i costi del lavoro e fanno tutto questo assolutamente indifferenti al destino dei lavoratori che resteranno senza lavoro. Un esempio per tutti: quello della ex GKN, fabbrica fiorentina i cui 400 operai sono stati licenziati in tronco nell’estate del 2021 così, all’improvviso, senza che ci fossero state avvisaglie di crisi. Ma lì gli operai non si sono arresi e, proprio richiamandosi ai diritti costituzionali, con il loro Collettivo di fabbrica hanno occupato il salone de’ Dugento a Palazzo Vecchio, costringendo gli enti locali, Comune e Regione, a uscire allo scoperto, ad assumersi le loro responsabilità istituzionali, a fare i conti con l’articolo 4 della Costituzione. A fare come aveva fatto il sindaco La Pira nel lontano 1953, quando ingaggiò un clamoroso braccio di ferro con lo Stato per salvare i 1700 operai licenziati in blocco dalla Pignone, fabbrica meccanica di proprietà del colosso tessile Snia Viscosa, schierandosi coraggiosamente dalla loro parte in nome dei diritti umani e sociali di cui parla la nostra Costituzione. E non cedette fino a quando non trovò, lui personalmente, un nuovo acquirente nella persona di Enrico Mattei (guarda caso un ex partigiano), presidente dell’Eni. Gli operai conservarono il posto di lavoro e la fabbrica, denominata Nuovo Pignone, cominciò a produrre turbine per le estrazioni petrolifere diventando leader del settore a livello mondiale. Erano tempi diversi, di crescita industriale? Mattei era un imprenditore illuminato? La Pira era un politico di grande livello come oggi non se ne vedono in giro? Probabile, ma fatto sta che allora operai e cittadini sentirono che Palazzo Vecchio era davvero la loro “casa comune” e che la Costituzione, con tutti i diritti che vi sono garantiti, non era solo carta e buoni principi, ma radice e punto di riferimento ineludibile della vita pubblica. È questo che anche ora le istituzioni e la società tutta debbono far percepire alle migliaia di lavoratori che nel nostro paese stanno vivendo lo stillicidio della perdita del posto di lavoro e a tutti quelli che da anni continuano a lavorare in una condizione di precariato diventata ormai endemica e senza via di uscita. Precariato di cui si dice che non può esserci soluzione, perché le esigenze del privato e spesso anche del pubblico sono quelle delle assunzioni a tempo determinato.
Eppure c’è chi in Europa l’ha trovata la soluzione, e l’ha trovata mettendo d’accordo governo, sindacati e imprenditori. È la ministra spagnola del lavoro Yolanda Diaz, la cui riforma ha abolito svariati contratti precari e ha ridato centralità al tempo indeterminato. Essa agisce su tre ambiti, la contrattazione, il lavoro interinale e la temporalità dei contratti, cercando di fornire maggiori tutele ai lavoratori e di concedere, nello stesso tempo, alcune forme di flessibilità alle imprese. In sintesi essa prevede:
- il ritorno alla centralità della contrattazione collettiva e del ruolo dei sindacati;
- la garanzia di salari e di condizioni contrattuali stabilite dal contratto collettivo di settore anche per i lavoratori interinali;
- l’incremento dei cosiddetti contratti “fissi-discontinui” in quei settori in cui è molto alto il numero dei lavoratori stagionali, in base ai quali il contratto resta a tempo determinato, ma prevede delle forme di tutela simili a quelle garantite dai contratti a tempo indeterminato, sia in termini di salario che di scatti di anzianità.
Ma se la tutela del lavoro, su cui si fonda la nostra Repubblica democratica, è una delle priorità della nostra Costituzione, nei suoi principi fondanti i costituenti hanno ritenuto opportuno ribadire che la libertà politica è un bene imprescindibile non solo per gli italiani, ma anche per tutti i popoli del mondo che ne sono privi. E si sono aperti verso questi popoli, pronti ad accoglierne gli eventuali profughi politici. L’hanno scritto esplicitamente nel terzo comma dell’articolo 10: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Ma chi sono i migranti che arrivano nel nostro paese? Non sono, forse, stranieri ai quali, nei loro paesi d’origine, in un modo o nell’altro viene “impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”? Perché, dunque, ci poniamo il problema degli arrivi, contestandone la legittimità, quando i costituenti hanno guardato avanti pensando che le conquiste repubblicano-democratiche non dovevano essere un privilegio solo degli italiani o degli europei, ma qualcosa di necessariamente estendibile a tutti i popoli della terra se non si voleva che questi, prima o poi, si riversassero, come stanno facendo, nella libera e opulenta Europa? Ma che abbiamo fatto noi, come Italia e come Europa, in tutti questi anni, perché ciò non avvenisse? Abbiamo contribuito con un rapporto paritario nei loro confronti a far sì che la vita politica e sociale dei paesi di provenienza dei migranti si evolvesse verso i fini sanciti dalla nostra Costituzione oppure ci siamo preoccupati soltanto di depredarne le risorse e di fare patti scellerati con i peggiori dittatori possibili? Per poi farli cadere, quando i nostri interessi non coincidevano più con la loro presenza, gettando quegli stati nel caos irrisolvibile che stanno tuttora vivendo?
Secondo me l’unico modo serio e concreto di affrontare la situazione per il nostro paese è quello di diventare la cerniera culturale e diplomatica tra Africa ed Europa, così come già facemmo in epoche passate (si pensi all’esperienza della corte di Palermo di Federico II), e attuare politiche di integrazione tra i due continenti che vedano crescere iniziative economiche congiunte qui da noi e in Africa: solo così è possibile rendere lo scambio paritario e stabilire un’effettiva relazione di fiducia con le popolazioni africane che vada al di là della nostra storica discriminazione. Avere, dunque, il coraggio e la lungimiranza politica di fare ciò che suggerisce Luciano Canfora nel suo libro “Fermare l’odio”. “È giunto il momento di capovolgere la prospettiva. È tempo di considerare l’ondata migratoria come avamposto di un mondo in accordo col quale la (ancora) ricca Europa potrebbe dar vita a una struttura federale euro-africana gravitante sul Mediterraneo, effettivamente paritaria e, in prospettiva, sempre più integrata. Se l’intera ‘Unione’ si facesse protagonista di una svolta del genere potrebbe nascere una feconda interazione tra quel grande capitale umano e il capitale di conoscenze e risorse del vecchio continente”.
C’è poi la questione dell’uguaglianza uomo-donna che, dichiarata inequivocabilmente nell’art. 3 della Costituzione (Furono Lina Merlin e Teresa Noce, due delle cosiddette “madri costituenti”, a redigerne la formulazione definitiva), fu poi ribadita nei suoi aspetti più specifici (nell’ambito della famiglia, sul posto di lavoro, nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, nelle generiche pari opportunità) rispettivamente negli articoli 29, 37, 51 e 117. Il processo per attuare concretamente queste disposizioni costituzionali è stato lungo e sofferto: la depenalizzazione dell’adulterio femminile è del 1968, la riforma del diritto di famiglia è del 1975 (riconoscimento della parità di diritti tra l’uomo e la donna all’interno della famiglia), l’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore è del 1981, la sentenza n.14206 della Cassazione, che ha rafforzato il principio di uguaglianza sul posto di lavoro dettato dalla legge, è del 2013, il Ddl 313 sulle pari opportunità tra uomo e donna sul lavoro è stato approvato definitivamente nel 2021 a 73 anni di distanza dall’entrata in vigore della Costituzione!
Di contro lo stillicidio dei femminicidi continua inesorabile a conferma che il rapporto uomo-donna non ha ancora raggiunto, nonostante tutti questi anni, quella concreta e serena maturità nella vita di tutti i giorni che dovrebbe essere patrimonio ormai indiscusso di una società democratica e civile. Gli omicidi di donne da parte di uomini sono stati 120 nel 2021, 125 nel 2022 e già 37 al 23 aprile del 2023. Come se le norme non riescano in questo nostro paese a scalfire lo zoccolo duro dell’idea del possesso nei confronti della donna che ancora molti uomini hanno. A conferma di ciò che disse nel suo primo discorso all’Assemblea Costituente Teresa Mattei, la più giovane delle “Madri costituenti” (aveva solo 25 anni), partigiana in Toscana durante la Resistenza. “Non vi può essere oggi, a nostro avviso, un solo passo sulla via della democrazia, che non voglia essere solo formale ma sostanziale, non vi può essere un solo passo sulla via del progresso civile e sociale che non possa e non debba essere compiuto dalla donna insieme all’uomo, se si voglia veramente che la conquista affermata dalla Carta costituzionale divenga stabile realtà per la vita e per il migliore avvenire d’Italia”.
Parole sacrosante che, però, non si sono ancora pienamente inverate perché nessuna norma può far cadere il pregiudizio che provoca ancora discriminazioni nei confronti delle donne o addirittura delle vittime di violenza. Ma questo era il pensiero delle donne della Resistenza e se vogliamo che i loro valori si attuino e riescano finalmente a pervadere la nostra società dobbiamo portare avanti una battaglia culturale che renda effettiva e normale nelle nostre menti di maschi l’idea di uguaglianza della donna o di qualsiasi altra tipologia di genere nei nostri confronti. E nel frattempo, per frenare la spirale dei femminicidi, insistere affinché si rafforzi la protezione di quelle donne che hanno già subito violenza e rischiano ancora di subirla da parte dei loro partner. E farlo con tutte le tecniche e le tecnologie ammesse in uno Stato democratico, come l’uso del braccialetto elettronico biunivoco che consente di avvisare la vittima potenziale circa l’eventuale avvicinamento del suo persecutore. E non si dica che non ci sono le risorse e le competenze necessarie per applicare questi dispositivi, perché per altre cose meno importanti dal punto di vista civile si trovano e spesso si sprecano. Non sarà forse che gli uomini si riempiono volentieri la bocca di “quote rosa” e di politically correct, ma poi, alla prova dei fatti, non giudicano prioritaria la difesa della vita di una donna perché sopravvive consciamente o inconsciamente in loro l’idea che, in fondo, quando succedono queste cose (quante volte abbiamo sentito dire “se l’è cercata”!) abbia la sua parte di colpa?
Ma perché questi valori della Costituzione nata dalla Resistenza possano essere messi effettivamente in pratica – difesa del diritto al lavoro, accoglienza costruttiva dell’Altro e pari opportunità uomo-donna – tutti coloro che li hanno a cuore devono impegnarsi affinché la formula repubblicano democratica pensata e adottata dai Costituenti non venga stravolta da iniziative tendenti a svuotarne lo spirito e le garanzie democratiche previste. Già da tempo, infatti, diverse forze politiche trasversali ai vari schieramenti spingono nella direzione di trasformare la repubblica parlamentare statuita dai Costituenti in una repubblica semi presidenziale se non addirittura presidenziale. E per fare questo alcuni hanno già proposto l’introduzione di una formula elettorale che garantisca alla coalizione vincente un premio di maggioranza che le consenta di avere una maggioranza certa e blindata in parlamento. A questo proposito vorrei ricordare che l’ascesa e la stabilizzazione del fascismo al potere passò attraverso la legge Acerbo che introdusse un premio di maggioranza per la coalizione che avesse ottenuto il 25% dei voti. Era il 1924, l’anno dei brogli elettorali denunciati da Matteotti in parlamento, che fu poi per questo rapito e ucciso da un gruppo di sicari fascisti. Quattro anni dopo le elezioni vennero trasformate in plebiscito e la democrazia fu sepolta definitivamente.
Ebbene, la stessa cosa va avanti ormai da qualche anno in un paese dell’Unione Europea, l’Ungheria, in cui la personalizzazione della politica (rilevanza alle persone e al loro ego e non ai programmi politici dei partiti), la progressiva presidenzializzazione del primo ministro (massima concentrazione del potere nelle mani di un primo ministro in un sistema parlamentare puro) e il lauto premio di maggioranza assegnato alla coalizione vincente (il Fidesz, il partito di Orban, ha preso il 49% dei voti ottenendo il 66% dei seggi) rischiano di trasformare il paese in un sistema a partito unico.
Svegliamoci, dunque, prima che un processo del genere inizi anche qui da noi.
Ecco che cosa vorrei dire agli studenti del Liceo Classico “Leopardi” di Aulla se partecipassi al loro “debate”.