Beato il popolo che non ha bisogno di eroi

Questa celebre frase di Bertolt Brecht è stata spesso travisata, contestata e addirittura dileggiata fino ad arrivare a dire che si trattava di una delle “molte oscene idiozie” che il famoso drammaturgo e poeta avrebbe scritto. Pulpiti anche autorevoli l’hanno affermato, ma che dell’essenza di questa sua frase ci pare che abbiano capito ben poco o che comunque abbiano cercato di strumentalizzarla politicamente. E per suffragare la nostra opinione cercheremo di coglierne quello che secondo noi è il significato più conforme alla volontà dello scrittore tedesco.

Intanto, per sgombrare il campo da pregiudiziali che non hanno nulla a che fare con il valore linguistico della frase, diciamo che essa non può essere letta pensando al vissuto dell’autore, militante comunista che – dopo l’esilio in quanto perseguitato dal nazismo – scelse di vivere nella Repubblica Democratica Tedesca, la cosiddetta Germania Est, uno dei satelliti politici dell’Unione Sovietica. Perché non è affatto una frase politico-ideologica, ma se mai depurata dall’ideologia ed enunciata come constatazione storica ed esistenziale del destino travagliato dei popoli. E se poi le vogliamo proprio attribuire una valenza politica, essa non può essere che quella del pacifismo non violento. È da qui che nasce la sua formulazione, da un desiderio ideale di pace che, proprio perché tale, prescinde dal bisogno di eroi, ma nello stesso tempo anche dalla constatazione realistica che spesso, purtroppo, i popoli per ottenerla hanno invece bisogno di eroi.

Purtroppo. Ma non perché gli eroi siano in assoluto gli artefici della condizione di pace dei popoli che avrebbero dunque bisogno del loro eroismo per indirizzare la propria storia in quel senso. Anzi, spesso gli eroi contribuiscono ad esaltare i vari nazionalismi che sono tutt’altro che portatori di pace. E allora a questo punto, per schiarirci le idee, occorre ragionare sul concetto di eroe e sul significato che esso ha assunto nelle varie epoche storiche.

La figura dell’eroe è tipica di tutte le mitologie antiche e in tutte è una figura che racchiude in sé le peculiarità divine e umane proprie dell’immaginario dei vari popoli. L’eroe è dunque un essere semidivino che concentra su se stesso quelle che sono le aspirazioni di un popolo e può essere il frutto sia di una deificazione (un essere umano elevato a dio) sia di un’umanizzazione (un dio che si fa uomo e ne condivide le traversie). Un soggetto “particolare” in cui s’identifica l’anima di un popolo.

Ma nell’antica Grecia, in particolare con Omero, l’eroe, pur mantenendo spesso le prerogative di discendenza divina, è soprattutto un guerriero valoroso e un saggio consigliere, una guida per il popolo che rappresenta. Lo è Achille e lo è Ulisse, ma lo sono anche tutti gli altri duchi achei, tranne rare eccezioni (si pensi a Tersite). Ma la stessa cosa vale anche per i romani, presso cui Lucio Quinzio “Cincinnato” è l’eroe per eccellenza, colui che per salvare la patria in difficoltà abbandona i campi dove sta arando (riceve la nomina di dittatore da una delegazione di senatori proprio letteralmente sul “campo”) e sconfigge il nemico alle porte. Dopo di che ritorna al suo lavoro, ma come del resto fanno anche tutti i principi greci che non sono guerrieri di professione, ma pastori e agricoltori di quella nobiltà di campagna che non esita a lasciare i suoi impegni di lavoro per difendere il proprio popolo e la sua terra. E spesso rischiando anche di perdere quanto di potere ha in patria, come succede ad Ulisse con i Proci. Un esempio di vulnerabilità dell’eroe, che soltanto grazie all’eccellenza delle sue virtù umane riesce a risolvere la situazione.

L’epoca classica termina con la fine dell’impero romano ormai cristianizzato. E se nei primi tre secoli la figura preponderante dell’eroe è quella del “martire” cristiano, colui che piuttosto che rinnegare la sua fede in Cristo accetta la morte violenta da parte del potere imperiale, con l’editto di Costantino (313 d.C.) e quelli di Teodosio (380 d.C. – 391 d.C. -392 d.C.) il martirio cristiano finisce in quanto il cristianesimo diventa religione ufficiale dello stato e a rischiare la pena di morte sono i superstiti pagani.

Ma con il progressivo inglobamento delle popolazioni barbariche all’interno dei confini dell’impero e la loro conversione al cristianesimo nasce una nuova figura di eroe che non è più colui che subisce il martirio senza reagire, in modo diremmo non violento, ma il cavaliere che difende la fede con le armi e combatte le ingiustizie all’interno della società cristiana. E, per evitare l’arbitrio individuale che tende spesso a caratterizzare questa figura, la Chiesa nel XII secolo ne vincola la pratica a determinate qualità morali: coraggio, difesa dei più deboli, impegno a non colpire chi non portava le armi, fedeltà al sovrano, integrità morale, essere soldato di Cristo e quindi difendere la Chiesa anche con le armi, combattere gli infedeli.

Le Crociate furono il momento di massimo prestigio del cavaliere medioevale, dopodiché la sua funzione militare decadde soprattutto con l’avvento delle prime armi da fuoco.

Il Rinascimento vide una riviviscenza della figura dell’eroe, non più però rappresentato come il cavaliere senza macchia e senza paura che difende la fede cristiana, la patria e i più deboli, ma come un uomo che estremizza le sue passioni, in particolare l’amore, fino a farle diventare rocambolesche. E in questi termini diventa il protagonista delle opere epico-cavalleresche dell’epoca, in cui ironia e nostalgia si mescolano in narrazioni avventurose volte a far divertire i nobili delle corti rinascimentali. Si pensi all’Orlando Furioso dell’Ariosto, alla Gerusalemme Liberata del Tasso e, da ultimo, al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes.

Si tratta comunque ancora di figure di eroi che, al di là delle loro “stranezze” e bizze individuali, hanno uno spirito altruistico e sono sempre pronti a difendere i deboli contro i prepotenti.

Di tutt’altro segno è l’eroe moderno, di cui possiamo distinguere due filoni: uno caratterizzato da un eroe che vive la sua avventura non contro un nemico esterno, ma affrontando la sua complessità interiore, e che potremmo identificare nel percorso di autoanalisi alla ricerca dell’eroe dentro di sé; l’altro nella concezione nietzschiana dell’eroe, riguardo alla quale nel suo libro Ecce Homo il filosofo dice esplicitamente: “Io sono l’opposto di una natura eroica”, e sulla base di questo principio mette ripetutamente in guardia dalle letture alterate e semplicistiche del suo pensiero; ma, nonostante questa sua preoccupazione, è soprattutto questa interpretazione errata del suo pensiero che si afferma nella contemporaneità e rimpolpa ogni dottrina che propugni l’affermazione del sé al di fuori di ogni regola civile e morale tradizionale, senza freni inibitori fino alla distruzione dell’Altro.

È questo il filone degli eroi che vanno “a cercar la bella morte”, che vogliono “vivere pericolosamente” e riempirsi di gloria guerriera anziché sacrificarsi per il loro popolo e per i deboli che diventano addirittura l’oggetto privilegiato della loro violenza. Si pensi all’esperienza nazista e a tutte quelle forme di “pulizia etnica” (espressione terribile anche linguisticamente, ma pratica criminale tragicamente attuale) che imperversano ancora in giro per il mondo.

Ma anche di certi eroi della letteratura e del cinema contemporanei, quegli eroi negativi ritenuti più interessanti e coinvolgenti del tradizionale eroe popolare “senza macchia e senza paura”, così banale e mieloso, poco stimolante dell’adrenalina. Ci vogliono contenuti forti, di gente che vuole “una vita spericolata” e stuzzica tutti i nostri istinti, anche quelli più bestiali. Di divi mitizzati per i loro eccessi, deplorevoli ma così affascinanti… Ci pensino uomini e donne, soprattutto le donne che sono spesso le vittime di questi istinti.

E allora il nostro pensiero corre a tutti quegli eroi della nostra contemporaneità che, come quelli dell’antichità classica, si sono sacrificati e si sacrificano per il bene comune, rischiando la loro vita per difendere i più deboli, la giustizia, la libertà e la democrazia, e spesso la perdono tragicamente. È di questi eroi di cui abbiamo anche oggi purtroppo bisogno e diciamo che non basta intitolare a loro una via o mettere una targa commemorativa in una piazza, ma dobbiamo ricordarne costantemente le gesta come se fossero ancora qui con noi. E per tutti loro valgano le parole che mi disse anni fa un vecchio partigiano: “Noi non volevamo fare ciò che abbiamo fatto. Volevamo una vita normale, piena di affetti e di sentimenti. Di lavoro, di feste, di sogni. Non volevamo fare gli eroi, e tanto meno i martiri. Ci hanno costretti. Per essere uomini, uomini liberi. Questo è il vero senso del nostro sacrificio”.

Ecco perché diciamo anche noi con Brecht “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”.

 

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