La pandemia ha accelerato la crisi di un sistema economico-politico che ormai mostra la corda ed è sempre più vicino al baratro. La logica della scienza come pensiero unico, convolato a nozze con il capitalismo, rende sempre più vertiginosa la folle corsa del consumo di merce e di territorio che, proprio per la necessità intrinseca di questo consumo, sembra ormai inarrestabile.

Lo dicevano già Marx ed Engels in un articolo pubblicato sui “Deutsch-Französische Jahrbücher” nel 1844: “L’economia liberale, spinta all’eccesso, dissolverà tutte le aggregazioni solidali, dalla nazionalità alla famiglia”. Ne ragiona sapientemente Massimo Cacciari in un libro, Il lavoro dello spirito[1], riflettendo sul contenuto di due conferenze tenute da Max Weber nel 1917 e nel 1919 dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf (Il lavoro dello spirito come professione[2]) in cui il grande sociologo tedesco si poneva la questione se il lavoro creativo poteva avere ancora uno spazio di libertà nell’epoca del “macchinismo” oppure se il suo destino sarebbe stato quello di dissolversi nella forma capitalistica dello sviluppo. È quella di Cacciari un’analisi puntuale e stringente e mette il dito sulla piaga dell’inesistenza oggi di un pensiero politico libero in grado di contrastare il procedere senza mete e senza fini del sistema tecnico-economico.

Durante la pandemia sono riemerse insistentemente nelle proteste dei vari movimenti le paranoie del complottismo, quelle ipotesi di congiure contro il popolo che riemergono ogniqualvolta ci si allontana dall’oggettività della Storia e ci si abbandona alla ricerca di un colpevole della situazione contingente. Che si tratti del Gruppo Bilderberg o dei fantomatici protocolli dei savi di Sion, di Soros e degli altri miliardari che finanziano le ONG o del Fondo Monetario Internazionale che mette in bancarotta gli stati nazionali, della teoria delle elites che si clonano sempre uguali nei luoghi e nel tempo o “dell’alto” contro cui si deve ribellare “il basso” dei vari populismi, ci troviamo di fronte a semplificazioni adottate dalla massa degli incolti e degli incazzati che abboccano alle provocazioni dei tanti cattivi maestri che ambiscono a conquistare la scena.

Ma per fortuna, oltre a queste panzane, c’è anche chi prova a capire davvero cosa sta succedendo e a configurare quello che potrebbe essere il nostro futuro. Detto in premessa dell’intuizione formidabile di Marx e di Engels di circa due secoli fa, voglio ragionare sulla situazione che stiamo vivendo in interazione con il testo di Cacciari che, oltre ad essere un’analisi intelligente, è scritto con un linguaggio accessibile a tutti, filosofi e meno filosofi. Già è chiaro e significativo l’incipit. “Ad aprire un mondo di illimitate potenzialità era chiamato il Sistema della scienza, il pensare filosofico dell’Occidente divenuto pensiero scientifico, capace cioè di comprehendere in sé lo stesso potere della scienza moderna nella sua inestricabile unità alla Tecnica”. È la premessa fondamentale per lo sviluppo del suo successivo ragionamento, cioè la sovrapposizione tra razionalismo e scientismo fino alla loro completa identificazione nella contemporaneità. E qui mi permetto una prima osservazione: era un’inevitabile conseguenza? Per forza il razionalismo coincide in assoluto con la scienza? Oppure esiste un pensiero razionale che vive la scienza come un modo indispensabile di procedere nella conoscenza del mondo, ma non ne riconosce oggettivamente la pretesa assolutistica di cambiarlo/migliorarlo? C’è un razionalismo che da sempre ha un ethos del limite razionale della scienza di fronte al mondo sensibile? Un razionalismo, che potremmo definire umanistico, che è capacità di mediazione tra ragione, sentimento e realtà naturale? Cosa che non fa la scienza, perché al suo di ethos “deve apparire intollerabile non realizzare ciò che il suo pensiero ha progettato”.

La scienza, dunque, senza una ragione umanistica che la governi, tende a diventare fondamentalista e ad attribuirsi “un compito o una missione infiniti”. Ecco che l’antitesi di una religione si fa religione, ma di quelle più intolleranti che non ammettono contradditorio. Ma la scienza da sola non sarebbe stata capace di portare avanti questo suo obiettivo se non avesse contratto matrimonio con chi era ed è in grado di spingerlo sempre più in là, all’infinito: il capitalismo. Investire, accumulare, reinvestire, accumulare, reinvestire, dapprima in competizione nazionale, poi con cartelli sovranazionali che rendono quella logica universale, professata in ogni angolo della terra, accomunando ricchezza e povertà, promettendo di risolvere in questo modo fame e malattie, fino al miraggio dell’immortalità. Che poi la Terra muoia di asfissia è un problema che prima o poi si affronterà, ora non si può fermare scienza e sviluppo.

Ma che ruolo spetta in tutto questo alla politica? “Lavoro scientifico e lavoro politico sono entrambi lavoro intellettuale e insieme rappresentano la forma egemone del lavoro nel moderno”. Ma mentre il lavoro politico, nello sviluppo migliore del suo umanesimo, tende a far acquisire all’uomo sempre nuovi diritti e a liberarlo dalla coazione del lavoro, che cosa fa invece la scienza? “Che però scientiam facere presenti intrinseci fattori in grado di collegarne l’idea a quella di un Sistema della libertà, ovvero a una prospettiva di superamento delle condizioni di estraniazione e dipendenza dominanti nella contemporanea forma sociale di produzione, è pura illusione”. Che fare?, dunque, è ancora una volta la fatidica domanda. “La scienza si articola positivamente in un complesso di prospettive particolari, e tanto più lo scienziato sarà assorbito nell’indagine esclusivamente secondo la propria prospettiva, tanto più il suo lavoro risulterà efficace… Questa strutturazione dell’operari scientifico rende a priori logicamente inconcepibile che esso abbia a che fare con idee di salvezza, di libertà e di felicità”. Queste poche righe chiariscono esattamente quali sono i limiti della scienza e il ruolo che essa può avere, perché “Essa… è capace di rispondere soltanto a domande… riguardanti le conoscenze e le operazioni che accrescono il potere umano sulla natura… Costituirebbe il più illogico dei salti ad altro genere sostenere che in forza di tale potere sia possibile anche soltanto dare inizio a un Sistema delle libertà”. Ma la stessa cosa vale anche per lo scienziato sociale che “può semplicemente comparare le diverse visioni del mondo” e indicarne secondo lui pregi e difetti, “ma mai stabilirne il valore sulla base di finalità universali”. Chi è che può, dunque, svolgere questo ruolo di mediazione tra i due ordini, professionale-scientifico da un lato e valoriale dall’altro? Il politico di professione, intendendo come professionalità politica il lavoro intellettuale politico.

Ma se questo è valido sul piano logico formale, alla prova dei fatti storici la distinzione weberiana tra assunzione del presupposto scientifico (inteso come ipotesi sulla cui base argomentare) e scelta del valore non regge e al momento del conflitto, perché di conflitto si tratta, ognuno intende il proprio presupposto come valore da affermare in opposizione ad altri. E questo vale sia a livello nazionale che universale, anche quando i presupposti sono storicamente, civilmente ed eticamente completamente diversi (vedi, ad esempio, la sciagurata “esportazione” della democrazia occidentale nella contemporaneità). E qui Cacciari si pone alcune domande cruciali. “Può un presupposto rinunciare ad affermarsi anche come valore? È realistico pensarlo? Può un presupposto costituire soltanto il fondamento di un percorso logico in sé definito, produrre conseguenze determinate nel suo ambito specifico, senza volere a un tempo farsi valere universalmente?”. E a proposito della scienza dice: “La sua straordinaria energia si è manifestata come volontà di sapere e volontà di dominio in uno”.
In questo contesto il singolo scienziato “non sarà mai astrattamente libero nel concreto esercizio della sua professione: più gli specialisti sviluppano la propria potenza, più essi debbono integrarsi in un complesso sociale e politico sovra-ordinato rispetto all’esercizio di ciascuno…Il Lavoro produttivo contemporaneo, il lavoro che determina il progresso del sapere realmente potente, è soltanto quello del cervello sociale. Questa organizzazione globale, che nessuna singola professione, né la semplice cooperazione tra di esse, potrebbe di per sé realizzare, è politica nella sua essenza”. Nessun augmentum scientiarum sarebbe possibile “senza essere promosso da un Ordine politico” oggi sovranazionale pur nella presunta diversità ideologica: si pensi al laboratorio di Wuhan e alla compartecipazione di stati sovrani con presupposti politici dichiaratamente (ma non sostanzialmente!) diversi.
A questo punto, in un capitolo intitolato significativamente Nuovi Centauri, Cacciari si pone il problema di quale sia il tipo politico contemporaneo in grado di agire secondo i fini della razionalità scientifica e per delinearne i connotati parte da un presupposto già individuato nei ragionamenti precedenti: “Non si dà conflitto di valori che non comporti decisione intorno all’Ordine sociale e politico che da tale conflitto si progetta di produrre. Il conflitto di valori assume sempre una forma costituente”. Ma chi ha il compito di decidere? Non certo la scienza che deve fare ciò che le spetta e cioè razionalizzare sempre più l’universo mondo. Deve farlo il politico. Ma quale politico? Ancora quello dell’Ordine liberale in cui fare politica era una disciplina a sé stante, basata su principi di valore? No, risponde Cacciari: “Soltanto un Politico che interiorizzi il destino della razionalizzazione, allora, un Politico capace di porsi in analogia con il lavoro intellettuale scientifico”. E qui il filosofo in sole due righe cancella il destino del politico ciarlatano e populista: “Senza apparato tecnico-burocratico, senza organizzazione, privo di competenze, il Politico non è professione, e risulterà perciò necessariamente inefficace a governare un mondo dominato dalle potenze tecnico-scientifiche”. È il de profundis della politica tradizionale. È l’apoteosi dei Monti e dei Draghi. E, a livello analitico, della alta concezione liberal-borghese della burocrazia che anche Weber presupponeva come indispensabile idea regolativa. Ma quale deve essere il profilo formativo ed etico di una tale burocrazia? “Imparzialità, probità, scrupolosa osservanza della legge, benignità”. E ancora “capacità anche di resistere ai mutamenti di governo e all’inevitabile occasionalismo legislativo a cui questi possono dar luogo”. Altro che spoiling system americano! Al di là delle appartenenze, per l’interesse generale dello Stato.

Se i valori sopra indicati fossero davvero necessari per fare politica o per servire la politica, nel nostro paese i palazzi delle istituzioni subirebbero uno spopolamento radicale che renderebbe problematica la sopravvivenza dello Stato. Perché, aggiunge Cacciari, “se i valori del Politico confliggono con l’augmentum scientiarum si giungerà, alla fine, nel mondo contemporaneo, al suicidio dello stesso Politico”.
Ma perché questo binomio scienza-politica diventi Ordine efficace di governo entrambe le professioni devono responsabilmente trovare al loro interno elementi di possibile mediazione. E se lo scienziato ha una responsabilità per quel che riguarda la sua analisi scientifica, che dovrà essere quanto più specializzata possibile, “per il Politico si tratta di una responsabilità globale… è chiamato, da un lato, a calcolare, misurare, analizzare in analogia con il metodo del lavoro scientifico, ma in quanto, dall’altro, partecipante esplicitamente alla lotta sul terreno dei valori, egli sarà responsabile della sua scelta e dunque del fondo non razionalizzabile che la decisione comporta”. Ma allora quali sono le caratteristiche del modo di fare politica di un vero uomo di Stato all’altezza della sua epoca? Ce lo dice Weber: “L’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche, ma si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere il Beruf zur Politik”, cioè l’animus professionale del politico, quello capace di mediare e di fare compromessi al rialzo che lo portino sempre più vicino alla propria meta valoriale.
Ma questo “sogno” di un politico intellettuale, professionale ed etico, che la borghesia illuminata avrebbe dovuto esprimere, quella grande borghesia “chiamata – anche per salvare se stessa – a dar vita a una classe politica responsabile, all’altezza della situazione scaturita dalla catastrofe della Guerra”, naufraga di fronte all’offensiva delle forze demagogico-rivoluzionarie. Weber intravedeva la catastrofe e fino all’ultimo fu angosciato dal fatto che la borghesia tedesca non volesse essere protagonista né della Repubblica né della democrazia, ma preferisse svolgere il suo ruolo soltanto capitalista all’ombra di qualsiasi altro potere statuale. Fu il tragico destino della repubblica di Weimar, dilaniata dallo scontro tra rivoluzione e reazione e sopraffatta poi dal trionfo del nazismo. Finì così la parabola politica di una classe, la borghesia, che aveva scelto il perseguimento egoistico del proprio benessere individuale anziché assumersi la responsabilità di diventare garante intellettuale e professionale di uno Stato capace di integrare le esigenze delle diverse istanze sociali.
L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla “disperante” realtà odierna e anticipa le problematiche proposte con un titolo doppiamente significativo: La fine (del fine) della Storia. Cacciari chiude il capitolo precedente chiedendosi quale tipo di Politico occorra oggi per svolgere un ruolo autonomo – “cessi di essere comandato da leggi estranee a qualsiasi idea di libertà” – dalle forze reali di governo del mondo costituite dall’alleanza scienza e capitale. E lo fa ponendo la questione se, nell’epoca della globalizzazione, non appaia “necessario un Politico oltre lo Stato” che sia in grado di “costruire un’autentica contraddizione rispetto al Faust capitalistico”. E si ricongiunge a questo nell’incipit del nuovo capitolo, citando Nietzsche: “Si è fatto mondo[3], o forse si dovrebbe dire aequor, liquida distesa senza apparente confine, ideale dominio dei pirati? Quale sovranità potrebbe frenarli? O sono ormai loro soltanto a sorvegliare e punire?”.

È la crisi della forma-Stato a rendere debole ogni strategia di contraddizione: al suo interno era ancora possibile godere di una certa autonomia del “lavoro dello spirito” e tentare una mediazione “tra le potenze economico-finanziarie e i principi della democrazia rappresentativa”; al suo interno la borghesia poteva ancora svolgere quel ruolo grande borghese che era il sogno di Weber. “Il processo di globalizzazione – dice Cacciari – è tutto capitalistico e niente affatto borghese… oggi la “quarta dimensione” del Globo entra in contraddizione con le metriche tridimensionali dello Stato. Il tempo dell’Economico e della Tecnica non si concilia con lo spazio territorialmente determinato della rappresentanza politica”.
Fine. Non contiamo più nulla, si tratti della forma borghese dello spirito del capitalismo o della cultura del movimento operaio. Esse infatti “hanno e soffrono un medesimo destino. Stanno e cadono insieme… E proprio quando cessano di fra-intendersi la democrazia rappresentativa dell’Occidente entra in crisi”.
In questo modo viene meno la coscienza democratica del politeismo dei valori, che devono trovare tra di loro una mediazione e sintetizzarsi in un ordine che risolva le contraddizioni e imponga dei limiti all’una e all’altra parte. Ma se “quest’ordine non è posto nella forma della rappresentanza è destinato a trasformarsi in tumulto auto-distruttivo”.
Sarà questo il nostro destino? Consumarci in lotte fratricide che si richiamano a presunti miti arcaico-tribali, a purezze razziali pateticamente rivendicate, addirittura a religioni neppure più praticate? Il polemos della dialettica democratica volto a trovare una soluzione, un incontro tra le parti, diventerà ancora una volta desiderio di vendetta e di sangue? E tutto questo mentre la macchina scienza-capitale continuerà a macinare in modo sempre più vertiginoso i chilometri della sua marcia trionfale?
Scrive Cacciari: “Più si riduce la potenza effettuale del Politico, più necessariamente cresce all’interno delle sue istituzioni la componente demagogico-plebiscitaria… irrompe sulla scena… una moltitudine incompetente che copre con una vernice di identità politica vaghe, nebulose passioni, odi, desideri, frustrazioni e risentimenti”. È ciò che sta avvenendo in buona parte dell’Europa e anche qui da noi, con la variante che per ora un rappresentante del sogno della grande borghesia (?) o dell’alleanza scienza-capitale (?) tiene a bada il “Popolo che esige im-mediatamente il Capo, ovvero esige che questo proclami: sono il tuo Capo e perciò ti seguo”.
Il politeismo democratico non è stato sconfitto da alcuna “religione politica”, ma piuttosto dal capitalismo come religione che, del tutto indifferente allo scontro in atto nei singoli stati, “alle vuote declamazioni sulle perdute sovranità statuali”, approfitta anzi di questo per dilatare “la naturale prepotenza dei processi innovativi in tutti i campi”, senza minimamente preoccuparsi dei pesanti costi sociali.

Ma in questo contesto è ancora possibile che del lavoro politico autonomo riesca ad emergere e a rappresentarsi nonostante la dittatura scientifico-economica? Dice Cacciari: “Una qualche autonomia del Politico, se mai si darà, potrà fondarsi nell’epoca del capitalismo globalizzato soltanto sulla potenza auto-liberante del lavoro intellettuale, cioè come rappresentazione e ordine che ha in questa potenza sia la sua causa motrice che la sua causa finale”. L’intellettuale mosca bianca, scevro da compromessi con il potere dominante, analista attento della realtà e delle sue aberrazioni, polemista agguerrito e documentato. Ma anche vox clamantis nel deserto, sì, sì, lasciatelo parlare, è bravo, belle parole, ma la realtà è un’altra cosa, e poi anche lui avrà le sue debolezze, tutti ce l’hanno… Ma l’abbiamo già avuto un prototipo di questo intellettuale, che in anni non sospetti, quando qualcuno pensava ancora che fosse possibile fare la rivoluzione o almeno che il popolo partecipasse tramite le sue organizzazioni politiche al governo di questo paese, sosteneva che il vero Potere, come lo definiva lui con la P maiuscola, il vero fascismo, era il consumismo incombente che altro non era che l’inizio della diarchia scienza e capitale che da allora ha soggiogato il mondo riscrivendo anche la storia di ideologie che del capitale erano state le massime antagoniste: Pier Paolo Pasolini. E sappiamo che fine ha fatto, ne intuiamo anche i retroscena, ma, come diceva lui a proposito degli attentati terroristici e dei tentativi di golpe di quegli anni[4], non ne abbiamo le prove.

È il destino dei profeti quello di Pasolini, di tutti coloro che vedono troppo presto quello che gli altri capiranno molto tempo dopo e allora diranno “Forse aveva ragione!”. E la politica ha bisogno di visioni, oggi più che mai. E di persone capaci di concepirle e di attuarle. E se è vero che è sempre più difficile individuare una prassi e uno spazio politico adeguati ai tempi, che l’informazione globale più che informare tende a creare tanta confusione e poca informazione, che la gente è ormai abituata a vivere più la realtà virtuale che quella concretamente fisica, credo però che non ci si debba arrendere a questa sindrome dell’impotenza e dell’isolamento che ormai ci affligge da tanto tempo, ora aggravata anche dalla pandemia. Perché forse non saremo in grado di condizionare le dinamiche del nuovo dominio del mondo, di fermare la folle corsa a cui il superomismo speculativo ci sta costringendo, ma se non torniamo a incontrarci e a elaborare insieme strategie politiche di solidarietà e di presenza attiva nei territori rischiamo di trovarci prima o poi travolti da quei “tumulti autodistruttivi” a cui fa riferimento Cacciari, nella completa e crudele indifferenza del capitalismo come religione.

Ecco allora che gli intellettuali, quelli veri, quelli che non frequentano i salotti, che non sono al soldo di nessuno, che non vanno in televisione a fare le soubrette (eh, Cacciari!), che non amano esporsi, ma lo fanno perché è necessario, che credono nella “potenza auto-liberante del lavoro intellettuale”, devono, anziché isolarsi nelle loro torri eburnee, tornare ad essere il centro di queste aggregazioni e diventarne i leader in nome delle loro capacità e competenze. Ed esercitare sugli altri quell’effetto alone che li stimoli a formarsi culturalmente e politicamente affinché siano in grado da un lato di confutare i ciarlatani che sobillano i peggiori istinti della “gente” e dall’altro di svolgere eventuali compiti di governo dei territori con passione umanistica e adeguata competenza. Non sarà facile tutto questo, perché anni di malapolitica hanno guastato le menti e gli animi. Ma io credo, come diceva Weber, che l’etica della convinzione e quella della responsabilità si completino a vicenda, e congiunte formino il vero politico, colui che opera per il bene comune e sa convincere gli altri che è quello il nostro solo destino.
[1] Cacciari, Massimo, Il lavoro dello spirito, Adelphi Edizioni, Milano 2020
[2] Weber, Max, il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966
[3] Nietzsche, Friedrich, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e di M. Montinari, vol. VI/1, Adelphi, Milano 1968
[4] Pasolini, Pier Paolo, Il romanzo delle stragi, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 2015
Caro Gianni, complimenti per l’articolo, interessante e stimolante. Tanti sono i punti di accordo ma forse anche di più quelli dove sono in disaccordo. Forse avremo modo di discuterne a fondo se accadrà di incontrarci. Riprendo solo la fine: “Ma io credo, come diceva Weber, che l’etica della convinzione e quella della responsabilità si completino a vicenda, e congiunte formano il vero politico, colui che opera per il bene comune e sa convincere gli altri che è quello il nostro solo destino.”
Tu credi? il credere è un aver fede che si addice più alla religione che al vero politico. Ma poi si tratta di “convincere” gli altri o piuttosto di mostrare come inevitabile il nostro destino e cioè il progressivo manifestarsi di una costituzione essenzialmente tecnica del mortale? E per un tratto che appartiene a questo destino, il vero politico oggi non è forse l’onnipotente internet, quello che fa della terra un villaggio globale e che consente anche questo nostro scambio di vedute? E se la scienza appare come la responsabile dei danni causati alla terra, non è ancora ad essa che ricorriamo per la sua salvezza?
E il rapporto tra la sfera umanistica (che si rifà ai valori della tradizione) e la sfera scientifica (che appare come il presente e il futuro) non hanno forse le medesime radici in quel pensiero che ha dato origine alla civiltà occidentale e che riguarda oramai l’intero pianeta, e su cui occorrerebbe concentrare la nostra attenzione e proprio perchè appaia l’inevitabilità anche dell’oltrepassamento di tale conflittualità? ecc. ecc. ecc.
Un caro saluto
carlo