Solo la riscoperta della comunità rurale paesana può garantire la pace

Venti di guerra attraversano il pianeta, hanno raggiunto ormai anche i santuari della pace, quella parte del mondo che avendo fatto una guerra disastrosa “appena” ottant’anni fa – talmente disastrosa e coinvolgente da essere definita per la seconda volta mondiale – se ne sentiva immune, memore di quell’esperienza. “Mai più” è stato ripetuto per anni – soprattutto in riferimento all’olocausto ebraico, il suo abisso – quasi ci si volesse di continuo convincere del proposito perché, spesso, qualcosa più o meno sottotraccia continuava a riemergere. E affinché questo non avvenisse sono stati rinnovati patti di garanzia tra gli stati, la vecchia fallimentare Società delle Nazioni è diventata l’ONU, in Europa è nata la Comunità Europea con la prospettiva di conciliare gli interessi economici e politici di paesi che avevano lottato sanguinosamente tra di loro per essere egemoni, è caduta la cortina di ferro che divideva il continente in due sfere di appartenenza, quella anglo-americana e quella sovietica, e tutto pareva ormai andare nella prospettiva della pace perpetua di un mondo sempre più democratico e sviluppato. Un mondo che l’economia liberale, globale per necessità e – lo sostenevano i suoi fautori – per virtù, avrebbe uniformato all’insegna dei valori rivoluzionari della democrazia e dei diritti individuali emancipando dal buio delle loro tradizioni i popoli di tutti i continenti. E così ci avrebbe pensato il commercio globale a sconfiggere la fame che affliggeva buona parte della popolazione mondiale e l’obiettivo ambizioso era di azzerare il bisogno entro il 2030. Ma qualcosa non ha probabilmente funzionato se ancora oggi il 10% della popolazione mondiale soffre la fame e il 29% vive in condizioni di insicurezza alimentare, dati che, anziché decrescere, negli ultimi anni – concausa la pandemia – sono aumentati.

Oggi, infatti, questa prospettiva di magnifiche sorti progressive del mondo è in piena crisi. E soprattutto è in crisi chi pensava di condurla con l’acquiescenza inerziale delle élites di altri popoli e stati che dovevano essere conquistate da quel modello di sviluppo. Modello che in effetti si è affermato un po’ ovunque, ma che le élite locali hanno cercato di adattare alle storie e alle culture dei loro paesi. E l’hanno fatto sia adottando forme di gestione del potere definite impropriamente democratiche sia mantenendone altre tradizionalmente autoritarie e assolutistiche che hanno garantito l’applicazione sistematica del modello.

Si è aperta così una nuova competizione tra gli stati che non vede più protagoniste soltanto le due potenze che emersero dalla seconda guerra mondiale, USA e URSS – espressione di due sistemi economici e sociali diametralmente opposti –  ma tante altre potenze fino ad oggi definite regionali che, cresciute tutte secondo il modello liberista, sono addirittura in grado di finanziare le economie recessive dei paesi del capitalismo storico e di condizionarne la stabilità politica e sociale. Ma questo quadro mutato dei rapporti di forza determina un inevitabile risveglio dello spirito nazionalista sia nei paesi soccombenti che in quelli emergenti, così come è sempre avvenuto nella dialettica storica del sistema degli stati. Spirito che ogni volta viene fatto passare come una genuina istanza popolare, ma che è invece il frutto propagandistico delle élites di potere per rivendicare i successi e il nuovo ruolo acquisito sullo scacchiere internazionale o per scaricare su fantomatici nemici interni o esterni il motivo delle loro crisi. Del resto è questa una costante della storia contemporanea: pochi, politici e affaristi e un pugno di intellettuali da strapazzo, hanno manifestato per fare le guerre, molti, il popolo nella sua stragrande maggioranza, hanno manifestato contro di esse. Eppure le guerre sono state fatte, con tragiche conseguenze per quei molti. E oggi noi stiamo vivendo la stessa situazione: le scelte che stanno facendo i politici italiani, europei e mondiali sono condivise soltanto dalle cerchie politico-culturali di regime, la gente comune, invece, non le condivide. Per cui, se dovessimo davvero arrivare a una nuova guerra mondiale, saranno stati di nuovo in pochi a deciderla, per i popoli e contro i popoli.

Ma come è possibile opporsi a questo cupio dissolvi generalizzato che sembra aver sconvolto la politica mondiale come un’attrazione fatale? Servono ancora le manifestazioni di piazza per promuovere il dissenso operativo contro eventuali scelte scellerate? Oppure i giochi si fanno come sempre nella stanza dei bottoni sulla testa dei popoli e contro la loro volontà? Noi siamo assolutamente convinti che ci sia un solo modo per invertire la tendenza, per riportare la politica nell’ambito della democrazia reale: ripartire dal basso, dai territori, e riscoprire la comunità rurale paesana come modello imprescindibile di convivenza mutualistica e solidale

In questi ultimi anni la deriva della politica come carriera ha trascurato i bisogni reali dei singoli territori per dedicarsi a opzioni astratte di principio, ideologiche pur in assenza di ideologie, trasversali a una società sempre più liquida, ma assolutamente lontane dagli interessi concreti dei cittadini nei vari contesti. Si è parlato a lungo di diritti globali, alcuni difficilmente comprensibili nelle situazioni locali, ma nello stesso tempo si è lasciato crescere senza dare  risposte il disagio, ad esempio, dei contadini, soli contro tutti i poteri, ghettizzati in un ruolo sociale misconosciuto dalle istituzioni e dagli altri cittadini. Ma lo stesso si è fatto con gli anziani, accusati tacitamente, ma forse in maniera ancora più esplicita, di essere la zavorra di questa nostra società, di rubare il futuro ai giovani con le loro pensioni, tutte rigorosamente autofinanziate, ma spesso confuse con le prebende d’oro delle élites politiche e burocratiche. E così è avvenuto per il welfare che la povera gente si era conquistata con le lotte e con la traduzione in politica legislativa delle istanze che venivano dal basso da parte di politici che avevano espresso i territori e sui quali quegli stessi territori esercitavano un giusto controllo sociale. Si è cercato di deruralizzare le campagne trasformando i paesi in centri residenziali, periferie estreme delle città, minandone la coesione comunitaria che perdurava da secoli nonostante i vari regimi che si erano succeduti. Insomma, è stato fatto di tutto per demolire le comunità rurali paesane e la biodiversità umana che le caratterizzava, quella multiculturalità che il fascismo aveva tentato di conculcare senza riuscirvi e che Pasolini individuava come il seme identitario della libertà. E purtroppo a questa operazione di liquidazione hanno spesso contribuito i paesani stessi, almeno coloro che affascinati dallo specchietto per le allodole della modernità consumistica vedevano nel paese trasformato urbanisticamente e civilmente in città una risorsa per la vita paesana e per la sua sopravvivenza.

Noi non abbiamo condiviso niente di tutto questo e oggi siamo ancora più convinti che i percorsi intrapresi siano stati suicidi per i paesani, ma anche per gli equilibri democratici della società italiana. Perché senza il parere consapevole e attivo di chi abita i territori e si riconosce nelle loro peculiarità non può neppure esistere una nozione virtuosa del loro governo e del loro sviluppo. Ma è ancora possibile invertire questa tendenza e far sì che i paesi diventino modello politico e sociale di convivenza e di gestione delle risorse?

Partiamo da una considerazione di base: il senso della vita che sta alla base di una comunità paesana è quello della conservazione della terra e della trasmissione dei saperi che servono per governarla.  Appartenere a una comunità vuol dire condividere questa impostazione, praticarla, rafforzarla, sulla base di una concezione pacifica dei rapporti tra gli uomini e tra le comunità stesse, consapevoli che lo scontro, la guerra, non sono mai portatori di benessere comune, ma di interessi privati: essi favoriscono l’ascesa dei singoli e sono un pericolo per gli equilibri comunitari.

Storicamente sono le società mercantili che fanno le guerre, perché hanno bisogno di controllare i traffici e i mercati per accrescere i loro profitti. Anzi, hanno bisogno anche delle guerre per fare profitti e non si fanno scrupoli a speculare sui materiali bellici e sulle forniture generali. Ma i mercanti sono pochi e non possono fare la guerra e contemporaneamente speculare su di essa. Cercano dunque manodopera adatta per farla e chi, meglio dei contadini, garantisce forza, lealtà e coraggio? Ma i contadini non amano la guerra, sanno cosa significa per le campagne, e dunque bisogna costringerveli con la forza: sono nate così le leve obbligatorie. Nonostante la propaganda nazionalista, sono sempre stati migliaia i contadini che piuttosto che andare in guerra si davano alla macchia. E se ci andavano, spesso disertavano oppure si ammutinavano, perché non ne volevano  sapere di combattere. Furono più di quarantamila i soldati italiani fucilati sul fronte austriaco durante la prima guerra mondiale e molti di loro perché, come si diceva allora, “familiarizzavano con il nemico”, contadino come loro. Ma non avevano forse più comunanza di interessi con quel nemico “ fratello” che con i loro comandanti borghesi o con i “pescecani” che sulla guerra facevano fortune favolose fornendo loro scarpe di cartone?

Ma è in grado un mondo come quello contemporaneo, che ha mandato al macero i principi e si basa essenzialmente sulla cultura del denaro e del consumo, di trovare in sé le energie necessarie per fronteggiare l’ennesimo cambiamento epocale che metterà a dura prova le nostre certezze e ci ricaccerà sicuramente un po’ indietro? Noi crediamo che, se non avremo l’umiltà e il coraggio di mettere al centro di questo processo di riequilibrio mondiale dei rapporti tra uomini, stati e ambiente lo spirito antico della cultura agropastorale, finiremo per avvinghiarci su noi stessi riproponendo, magari con nomi e apparenze diverse, la stessa logica di autodistruzione che ci ha portati a questa svolta cruciale. Soltanto se sapremo ridare alla nostra civiltà questo cuore autentico di conservazione della Terra riusciremo a trovare le misure per convivere pacificamente tra di noi e con gli altri, quelli che spesso abbiamo considerato inferiori, da civilizzare e da asservire. E non si tratta di una questione di quantità – ruralizzare di nuovo grandi masse di persone sarebbe impraticabile e antieconomico – ma assolutamente di qualità esemplare: ciò che dobbiamo fare, infatti, è conformare il nostro agire, in ogni settore della vita politica, economica e sociale, a quei principi che solo la ruralità è riuscita a preservare e a tramandarci nonostante il mercantilismo della rivoluzione borghese abbia sostituito all’etica dell’uomo quella della merce: la lealtà, la parola data, il senso del dovere, l’accoglienza dell’ospite, il rispetto dell’anziano, la difesa del più debole, il senso di responsabilità del capo.

Dovremo dunque riscoprire il valore umano del lavoro, “non più soltanto mezzo di vita, ma anche primo bisogno della vita”, dignitoso, gratificante e svolto responsabilmente nelle sue diverse mansioni. Riconoscere che la solidarietà è la base della convivenza e, per essere efficace, non deve essere una pratica eccezionale, ma quotidiana. Renderci conto che l’essere è più importante dell’avere per resistere nelle difficoltà che mettono a dura prova le nostre storie individuali e collettive. Ma per fare queste cose dovremo necessariamente ripensare le nostre esistenze e le nostre aggregazioni sociali alla luce del concetto di “bene comune”, l’unico che può darci certezze anche individuali, e mettere in pratica quell’Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni che è la prospettiva finale di ogni esperienza comunitaria.

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