Ridateci la prima Repubblica!

Quando nel 1992 iniziò con l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, la cosiddetta tangentopoli, iniziò anche la fine della prima Repubblica che, proprio per questo, viene ricordata come un periodo in cui la politica si reggeva su intrallazzi e malaffare di cui le tangenti erano il corpo principale. Venivano pagate a vari livelli, per ottenere qualsiasi appalto o per facilitare il corso di una pratica. Tanto per dare l’idea, se la tangente pagata a Chiesa doveva essere di 14 milioni di lire per ottenere l’appalto per le pulizie del Pio Albergo Trivulzio, quella pagata dal finanziere Raul Gardini per l’affare Enimont (fusione tra i due poli della chimica italiana, l’Enichem, a controllo statale, e la Montedison del gruppo Ferruzzi) ammontava a 150 miliardi di lire.

Come se non bastasse, alla prima Repubblica viene anche imputato l’aumento vertiginoso del debito pubblico che dal 1946 al 1992 arrivò a sfiorare i settecento miliardi di Euro attuali. Oggi il debito pubblico italiano ammonta a 2 milioni di miliardi di Euro con un incremento di un milione e 300 miliardi di Euro rispetto ad allora. Buco imputabile ai governi della seconda Repubblica, da Ciampi ad Amato, da Berlusconi a Prodi, da D’Alema a Renzi, da Letta a Conte e a Meloni. Un rallentamento soltanto durante i governi Monti e Draghi che hanno fatto versare lacrime amare ai meno abbienti.

Detto questo e supponendo che il sistema delle tangenti, più sofisticato, sia ancora in vigore in Italia, molti italiani, io compreso, rimpiangono la prima Repubblica. E la rimpiangono sotto vari aspetti, dalla politica all’economia, dalla società al vivere comune. E non è nostalgismo, come molti amano liquidare le cose del passato ogniqualvolta uno ne parla, ma consapevolezza di una realtà concreta preferibile alla precarietà spesso virtuale dell’oggi. E, soprattutto, alla distanza siderale tra il paese reale e la sua rappresentazione, con interi territori oggi lasciati allo sbando e al malgoverno.

Pensiamo alla politica. Allora era esercitata da gente per lo più preparata, proveniente dalle università e dalle scuole di partito, che quando entrava in Parlamento sapeva cosa andava a fare e aveva gli strumenti per farlo. I partiti, al di là delle degenerazioni truffaldine, erano una garanzia di professionalità e di visione della politica, sia interna che estera secondo determinati principi. Esisteva una base di partecipazione radicata sia nelle città che nei paesi più sperduti e chi voleva darsi da fare trovava spazio per il suo impegno e per la discussione. Ecco uno degli elementi che hanno caratterizzato la politica fino a tangentopoli: la partecipazione attiva di buona parte della popolazione alla discussione delle proposte dei vari partiti che contribuiva a formare in essa una coscienza politica e a darle degli strumenti di interpretazione della realtà economica e sociale del nostro paese. E se questo valeva soprattutto per i grandi partiti di massa, anche quelli minori avevano un loro radicamento e grazie all’impegno magari individuale di alcuni militanti riuscivano a raggiungere anche i luoghi più isolati. Allora, ritrovarsi a fare un incontro tematico o preelettorale in un luogo sperduto davanti a poche persone aveva la sua importanza umana e politica, perché era un modo diretto della Politica con la P maiuscola di rivolgersi alla gente comune.

Se poi si ragiona sul livello dei vari leader politici di quegli anni, allora il confronto con il presente diventa impietoso. Molti di loro avevano vissuto in prima persona la stagione della Resistenza al nazifascismo, guadagnandosi sul campo la stima dei compagni partigiani e delle popolazioni. Altri non erano magari stati in prima fila durante quegli avvenimenti, per vicissitudini personali o per età, ma avevano anch’essi radicati dentro quei principi che erano stati alla base del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale, al cui interno erano rappresentate tutte le formazioni politiche democratiche che avevano scelto di combattere il nazifascismo. Alcuni nomi: Sandro Pertini, il presidente più amato nella storia della Repubblica, Giuseppe Saragat, altro presidente, Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente, Lina Merlin, una delle 21 madri costituenti, prima donna a essere eletta al Senato della Repubblica, Tina Anselmi, staffetta partigiana e prima donna a ricoprire la carica di ministro della Repubblica. E poi gente come i democristiani Fanfani, Moro e Andreotti (anche lui, spesso vituperato dalla Sinistra Sinistra, ma uomo di centro capace di esprimere giudizi critici e indipendenti nei confronti dei più ingombranti alleati) o i comunisti Berlinguer e Nilde Jotti, pioniera dell’UE e dell’emancipazione femminile, e quel tentativo di compromesso storico tra cattolici e comunisti che apriva scenari di possibile gestione politica democratico popolare del nostro paese e che qualcuno volle  a un certo punto far naufragare.

Ma la stessa differenza negativa dell’oggi rispetto a quegli anni la possiamo facilmente riscontrare anche per quel che riguarda l’occupazione e il lavoro. E questo vale sia per le scelte istituzionali che all’epoca vennero fatte in proposito sia per la nascita, in concomitanza del tumultuoso sviluppo economico, di un forte movimento dei lavoratori. E furono proprio Fanfani e la corrente della sinistra democristiana che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, spinsero per la nazionalizzazione prima delle linee telefoniche, poi dell’energia elettrica. Così come fu sempre Fanfani, con la sua politica filo araba, a coadiuvare Enrico Mattei nella costruzione dell’Eni come cartello petrolifero italiano indipendente che costò la vita al suo promotore.

Ferrovie, telefoni, elettricità, aziende partecipate statali, autostrade sono stati il motore fondamentale dello sviluppo economico italiano e hanno garantito il lavoro a migliaia di lavoratori. E le critiche che sono state spesso rivolte a questa gestione parastatale di settori cruciali dell’economia nascevano più da un pretesto ideologico e da un appetito speculativo privato che da una critica giustificata dall’insuccesso economico dell’iniziativa. Perché, innanzitutto, queste aziende funzionavano, il servizio era accurato, i suoi addetti intervenivano tempestivamente qualora c’erano problemi e gli utenti, oltre ad essere garantiti riguardo alla bontà del servizio, lo ricevevano a prezzi calmierati. Si prendano ad esempio le ferrovie: circolava all’epoca un detto caustico riguardo ai lavoratori dell’Ente, “in ferrovia , se lavori ti mandano via”, ma il personale, in seguito alle privatizzazioni definito poi “esuberante”, c’era e controllava minuziosamente le linee (con il sistema dei casellanti) e i treni (ad esempio con i cosiddetti “battitori”, che ad ogni treno che arrivava nelle stazioni principali controllavano le ruote con un martelletto particolare), limitando al massimo la possibilità di incidenti. Ma la stessa cosa valeva anche per certe aziende del parastato, tipo la Nuovo Pignone reinventata da Mattei, che era diventata leader mondiale nella produzione di apparecchiature per la movimentazione di idrocarburi e gas.

C’era, dunque, una protezione delle fasce deboli che avveniva sia attraverso l’estensione del welfare sanitario e previdenziale (ad esempio, l’introduzione della pensione di anzianità che in altri paesi europei considerati più evoluti ancora non c’era) sia con il varo di leggi e norme che tutelavano i lavoratori dipendenti dalle possibili discriminazioni dei datori di lavoro (in particolare l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori). C’erano un sacco di teste pensanti sia tra i politici che nel sindacato e le leggi e le norme introdotte avevano lo spessore giuridico e culturale di una visione complessa e approfondita del corpo sociale. Nessuno allora pensava di poter modificare la Costituzione spostando qualche virgola o sopprimendo qualche paragrafo.

Ma la stessa aria si respirava nella società. Negli anni Sessanta e Settanta la letteratura, il cinema e il teatro italiani hanno espresso opere, autori e interpreti di livello internazionale, che hanno rinnovato il prestigio della cultura italiana nel mondo. Scrittori come Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Alberto Moravia, Beppe Fenoglio, Dino Buzzati, Dacia Maraini, Leonardo Sciascia, Elsa Morante, Primo Levi, Gianni Rodari e altri hanno raccontato con diversi stili, ma identica potenza narrativa l’Italia tumultuosa di quegli anni, l’immaginario e le aspettative di una generazione che era uscita da una dittatura e una guerra disastrose e che anelava alla libertà in tutte le sue forme. Così come fecero anche i grandi registi di quella generazione, alcuni dei quali avevano già lavorato nel mondo del cinema come sceneggiatori o aiuto registi prima di divenire essi stessi registi; e ne avevano acquisito tecnica e cultura per cui non s’improvvisavano nel loro nuovo ruolo come succede spesso oggi ad altri soltanto perché, ammanicati, riescono a ottenere in qualche modo un buon budget: Federico Fellini, Mario Monicelli, Luchino Visconti, Francesco Rosi, Pietro Germi, Dino Risi, Giuliano Montaldo, Luigi Comencini, Liliana Cavani, Ettore Scola, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Sergio Leone, Ermanno Olmi e altri minori, ma sempre di consolidato mestiere (penso, ad esempio, a Valerio Zurlini). Che avevano a disposizione attori come Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi e Gian Maria Volonté e attrici come Sophia Loren, Monica Vitti, Claudia Cardinale, Silvana Mangano e Giulietta Masina.  E che dire del teatro di Giorgio Strehler, di Luca Ronconi, di Dario Fo e Franca Rame e di Carmelo Bene? Chi della miriade di registi, attori e teatranti della soverchiante società dello spettacolo del nuovo millennio, che non è più spettacolo, ma bisogno di spettacolarizzare ovunque e comunque per apparire, riesce ad eguagliare il valore del messaggio e l’entità della sperimentazione che quei grandi furono in grado di esprimere?

Ma gli anni Settanta della Prima Repubblica furono anche il periodo delle maggiori conquiste civili del dopoguerra che fecero uscire l’Italia dal Medioevo in cui era ancora avvolto il nostro sistema giuridico. Il primo dicembre 1970 venne promulgata la legge Fortuna-Baslini (dal nome dei primi firmatari) che introdusse l’istituto del divorzio suscitando una forte opposizione da parte dei settori cattolici più tradizionalisti. Costoro promossero un referendum abrogativo, sostenuto politicamente dalla Democrazia Cristiana e dal Movimento Sociale Italiano, che si svolse nel maggio del 1974 e fu bocciato dal 60% dei votanti. Il 19 maggio del 1975 il Parlamento approvò, con la sola astensione del Movimento Sociale, la legge 151 per la riforma del nuovo diritto di famiglia. La legge precedente risaliva al 1942 e configurava una famiglia strutturata in modo gerarchico, con il marito al vertice e la moglie e i figli a lui subordinati. La nuova legge, invece, riconosceva alla donna una condizione di completa parità con l’uomo all’interno della famiglia. Il 13 maggio 1978 venne promulgata la legge 180, detta comunemente Legge Basaglia, dallo psichiatra che l’aveva promossa, che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio. Essa venne applicata a partire dal 23 dicembre dello stesso anno, quando fu approvata la legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale che garantì per la prima volta a tutti i cittadini italiani l’accesso all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie in attuazione dell’art. 32 della Costituzione.

 Il 22 maggio 1978 venne promulgata la legge 194, o legge sull’aborto, che consentiva alle donne di poter ricorrere, nei casi previsti, all’interruzione volontaria di gravidanza nelle strutture ospedaliere pubbliche. Il 17 maggio del 1981 gli italiani respinsero i due referendum abrogativi della legge 194 che erano stati presentati (uno  dai Radicali, che prevedeva la piena liberalizzazione dell’aborto e la possibilità di abortire anche nelle strutture ospedaliere private; l’altro dal Movimento per la Vita con due quesiti: il primo chiedeva l’abrogazione in toto della legge 194, il secondo proponeva di cancellare gli articoli che tutelavano l’autodeterminazione della donna riconoscendo come lecito soltanto l’aborto terapeutico) e scelsero di preservare il dettato della legge così come era stato formulato.

A questa crescita civile e culturale della società italiana contribuì in modo rilevante il vento del ’68 che a partire dal maggio francese e dalla controcultura nordamericana s’irradiò in tutto il mondo occidentale sconvolgendone i fondamenti, le forme della comunicazione, la musica, la letteratura e le altre arti, sospeso tra la rivoluzione pacifica e non violenta del comunitarismo beat e hippie e quella fortemente ideologizzata e spesso anche violenta delle varie sfaccettature del marxismo. Vento che, dopo il primo impatto scioccante, suscitò una reazione capillare da parte dei centri del potere borghese e di tutti coloro che temevano di perdere i loro privilegi storici, reazione che si concretizzò da un lato nel favorire la deriva suicida delle esperienze comunitarie hippie, dilaniate dal consumo di droghe sempre più pesanti, e dall’altro nell’innesco da parte di settori deviati dei servizi segreti nazionali e internazionali della cosiddetta “strategia della tensione”. Con il risultato di criminalizzare tutti i movimenti, in particolare il movimento operaio, e impedire che diventassero i protagonisti del cambiamento. Iniziò allora il periodo buio degli “anni di piombo”, che mise a serio rischio la tenuta della nostra giovane democrazia che tuttavia riuscì a trovare in se stessa le energie necessarie per resistere alla bufera. Ma lo fece pagando un prezzo alto, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, che mise fine al processo di avvicinamento e di collaborazione tra le due più grandi forze politiche di massa italiane, che se fosse avvenuto avrebbe potuto cambiare il destino politico del nostro paese.

Forse fu questo il momento in cui finì la prima Repubblica: tangentopoli e il successivo sfascio dei partiti tradizionali furono semplicemente la manifestazione ritardata di un’agonia iniziata già allora.

 

Lascia un commento